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Un Caso Di Ragion Di Stato Nella Napoli Spagnola Del XVII Secolo: Il Governo Vicereale Del Duca D’Ossuna

Posted by on Ago 24, 2022

Un Caso Di Ragion Di Stato Nella Napoli Spagnola Del XVII Secolo: Il Governo Vicereale Del Duca D’Ossuna

di Giovanni Della Peruta. Questo saggio è stato pubblicato sul numero 7 (1999-2000) del Bollettino del Archivio della ragion di Stato. Era il primo, ma importante, contributo scientifico di un giovane studioso sulla ratio status nel Regno di Napoli nell’Impero delle Spagne

Introduzione

Il presente articolo ha come obiettivo l’analisi di particolari aspetti della produzione politica teorica e delle pratiche di governo nella Napoli spagnola dei primi decenni del XVII secolo. Mentre nel Novecento, generazioni di storici, a partire da Croce per giungere fino ai più recenti contributi di studiosi di storia sociale, economica e del diritto, hanno dato vita ad una vasta produzione storiografica, si riscontra un interesse solo secondario per quanto riguarda le scritture politiche meridionali del Cinque-Seicento, in particolare per gli autori meno conosciuti, ma non per questo meno significativi, del panorama politico napoletano[1]. Al contempo è possibile segnalare la sostanziale assenza, per quanto riguarda l’Italia, di studi specifici e monografie dedicate ai viceré che, nel volgere di due secoli di dominazione spagnola, hanno governato il Regno di Napoli[2].

Una delle finalità di questo lavoro, consiste nell’accostare a quanto già è stato scritto sulla storia del Regno di Napoli, non un’ulteriore ricostruzione di fatti ed eventi, ma una lettura, in una prospettiva di storia del pensiero politico, dell’opera di governo di uno dei più interessanti, quanto controversi, viceré spagnoli, il III duca d’Ossuna. L’analisi di alcune questioni emerse durante il suo viceregno, si propone di far risaltare momenti significativi delle modalità di produzione di potere politico nel contesto napoletano. Il tentativo sarà quello di relazionare documenti relativi al governo ossuniano (1616-1620), con alcune scritture politiche contemporanee e con documenti di governo prodotti dai consigli di Stato e d’Italia e da altri vicerè napoletani. L’intreccio tra scritture e pratiche di governo, il relazionamento tra produzione teorica e dispositivi politici indirizzati alla produzione di obbedienza, esplicitano momenti distinti e relativamente autonomi, ma certamente chiamati entrambi a costituire il campo dell’intervento politico finalizzato alla conservazione dello Stato. La frequenza con la quale ricorrono alcune tematiche relative alla gestione del territorio, al governo dei ceti, al rapporto tra potere sovrano delegato e poteri locali, la loro circolazione in ambiti diversi quali quelli della corte madrilena e il contesto napoletano, segnalano infatti, nuclei concettuali e pratiche operative intorno a cui si svilupparono i discorsi e le dinamiche di potere nella Napoli spagnola. Occorre però, prima di addentrarsi nell’analisi dei documenti, specificare alcune linee-guida relative ai dibattiti in corso nella corte spagnola e in ambito napoletano, al fine di collocare storicamente e politicamente il governo dell’Ossuna e far emergere relazioni e discontinuità, dipendenza e autonomia, della politica e della produzione teorica napoletana nel più ampio contesto dell’impero spagnolo.

Le acquisizioni della produzione storiografica sottolineano, per quanto riguarda il Regno di Napoli, un deciso cambiamento della élite politica, avvenuto intorno alla metà del Cinquecento, durante il viceregno di Don Pedro de Toledo. In corrispondenza con quanto stava avvenendo in Spagna, con la sostituzione degli esponenti dell’alta aristocrazia con i letrados nelle cariche burocratiche ed amministrative, a Napoli il gruppo dei togati,nell’arco di pochi decenni, occupò stabilmente le più alte magistrature politico-amministrative e finanziarie, ovvero il Collaterale e la Camera della Sommaria[3]. I nobili, dunque, già a partire dagli ultimi anni di Carlo V, vennero sostanzialmente estromessi dal controllo delle magistrature napoletane, processo che fu amplificato durante i quarant’anni di regno di Filippo II, con il quale si fece più chiaro l’indirizzo politico della monarchia, sia all’interno della Castiglia che nelle province europee. Il processo di “burocratizzazione” delle strutture di governo napoletane portò all’affermazione di un gruppo, quello togato, politicamente abbastanza omogeneo ma difficile da decifrare per quanto riguarda l’estrazione sociale dei singoli componenti. Certamente i togati appartenevano a quel ceto mezzano, sulla cui funzione essenziale per il mantenimento dell’ordine sociale si stavano pronunciando i teorici della Ragion di Stato, ma per molti di essi, in particolar modo per coloro che occupavano le posizioni di maggiore prestigio, la carriera nelle magistrature apriva le porte al processo di arricchimento attraverso la rendita, di anoblissement o all’acquisto di feudi nelle province del regno. Il fatto che coloro che erano chiamati alla conduzione degli affari di governo avessero degli interessi non in tutto dissimili, anzi a volte coincidenti, con la nobiltà di antico regime, fu probabilmente uno degli elementi che determinarono un certo immobilismo nella struttura sociale napoletana, non essendoci, secondo quanto afferma la più moderna storiografia, dei reali interessi da contrapporre a quelli dominanti, né proposte innovative da negoziare con il potere centrale. Giovanni Muto sottolinea, a proposito dei togati, che «la mancanza di un solido retroterra economico distinto, come fonte di arricchimento, dalla rendita urbana e le contraddizioni interne a queste stesse forze, impedirono loro di tradursi in un blocco sufficientemente omogeneo che contrattasse con il centro politico le condizioni di un assetto e di un equilibrio nuovi»[4]. In effetti, un elemento che divenne strutturale nel Regno di Napoli, a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo, fu rappresentato dall’assenza di dinamiche sociali ed economiche volte ad incrementare la produzione ed il commercio, testimoniato proprio dalla distanza delle scelte politiche, che procedevano in ben altra direzione. L’esigenza sempre più pressante da parte di Madrid di ottenere finanziamenti dalla provincia napoletana, l’elevata pressione fiscale sulla produzione e sui consumi, non trovarono a Napoli una forte opposizione, che riuscisse a coinvolgere anche i gruppi dirigenti, invischiati anch’essi nel processo di progressiva dipendenza dell’economia napoletana dalla finanza estera[5]. Va dunque sottolineato, che mentre il gruppo togato emerge ed acquista una sua specificità e visibilità all’interno del ceto mezzano, non trovano invece adeguato riconoscimento pubblico e rappresentanza politica, quegli interessi fondati sulla produzione e sullo scambio. La “repubblica dei togati[6]“, vuoi per limiti interni e strutturali, vuoi per una precisa volontà politica della corte madrilena, non riuscì a costituire un valido supporto per la costituzione di quella “repubblica dei mercanti”, auspicata e teorizzata da Vittorio Lunetti[7].

In tale contesto la ragione giuridica ed il sapere giurisprundenziale giocano un ruolo decisivo nei processi di conservazione politica e nell’articolazione dei poteri all’interno della Città e nei rapporti tra Napoli e Madrid. Il diritto, inteso come produzione giuridica e nei suoi canali di scorrimento istituzionali, diventa un luogo privilegiato nella determinazione dei rapporti di forza, funzionando di volta in volta da strumento o da obiezione all’assolutismo monarchico[8]. Un assolutismo che a Napoli non presenta come dato costitutivo la contrapposizione tra accentramento delle funzioni amministrative e finanziarie, in particolar modo di quelle fiscali, nelle mani del sovrano e resistenza dei poteri locali, poiché la linea perseguita dai vari sovrani spagnoli fu quella di appoggiarsi ai gruppi locali, per quanto riguarda il controllo sociale, e ad un gruppo di mercanti-banchieri, in gran parte forestieri, per assicurarsi la copertura finanziaria per le operazioni belliche. Nel clima di incertezza che caratterizzò la monarchia castigliana già durante il regno di Filippo II, sembra possibile affermare che il dibattito presente nella corte, condizionò largamente le modalità di governo e le stesse teorie e pratiche dell’assolutismo nelle province dell’impero e dunque anche nel regno napoletano. Già intorno al 1560, nel Consejo de Estado si fronteggiavano due fazioni, una facente capo al duca d’Alba, l’altra al principe di Eboli, intorno alla maniera migliore di risolvere il conflitto nei Paesi Bassi. Gli esponenti che condividevano le posizioni del duca d’Alba erano per la linea dura: soffocare la ribellione, cancellare le libertà provinciali ed imporre strutture di governo e uomini castigliani al potere. Al contrario gli uomini del principe di Eboli erano per una conclusione pacifica del contenzioso e per la conservazione delle libertà e dei privilegi locali, soluzione auspicata per il complesso dei domini europei, sul piano distinto della produzione teorica, dal catalano Furiò Ceriol[9]. Analoga situazione si verificò intorno agli anni Ottanta, questa volta però durante il processo di annessione del Portogallo alla Corona; il cardinale Granvelle pensava che l’annessione avrebbe portato dei significativi vantaggi alla Castiglia, solo qualora Filippo avesse deciso di ridurre drasticamente le libertà portoghesi. Tuttavia la decisione di Filippo II contravvenne ai consigli del Granvelle ed il monarca invece, optò per la conservazione degli statuti e delle strutture tradizionali. Ritroviamo ancora le due distinte posizioni durante la rivolta aragonese del 1591-92[10]; vi sono dunque buone ragioni per affermare che una delle principali preoccupazioni che la monarchia dovette affrontare fu proprio quella relativa al governo delle province, questione su cui trasparivano profonde diversità di vedute.

La questione del costituirsi delle fazioni all’interno della corte castigliana e la lotta che si sviluppò in essa, sia per accaparrarsi le ricchezze messe a disposizione dal tesoro regio, che per imporre una linea politica piuttosto che un’altra, si acuì profondamente con l’introduzione del valimiento ad opera di Filippo III[11]; proprio la lotta politica all’interno della corte, può rappresentare una delle possibili chiavi di lettura dei quattro anni di governo napoletano del III duca d’Ossuna. La storiografia, soprattutto quella spagnola, ha messo l’accento sulla situazione che si creò dopo la morte di Filippo II e l’ascesa al trono del figlio; ad una corte sterile, politicamente inetta e corrotta, si contrapporrebbe, secondo tali storici, il cosiddetto “partito cattolico”, i cui esponenti di spicco furono il marchese di Bedmar, ambasciatore spagnolo a Venezia, il conte di Fuentes, il governatore di Milano, Pedro Alvarez de Toledo e lo stesso duca d’Ossuna, considerato il capo della fazione[12]. Se può considerarsi eccessivamente drastico il giudizio di questa parte della storiografia spagnola, è senz’altro vero che tra Filippo III ed il suo valido, il duca di Lerma, ed i rappresentanti regi nella provincia italiana, vi erano grosse divergenze quanto meno su una delle questioni centrali per uno stato moderno, quella della guerra. Ma non fu solo la guerra l’unico motivo di attrito; per quanto riguarda il duca d’Ossuna in particolare, i consigli centrali si trovarono spesso a dover moderare l’attivismo del viceré, che attraverso lo scavalcamento delle normali procedure “costituzionali”, portava continui attacchi alle strutture di governo locali e a molti rappresentanti della élite politica napoletana. Lo stesso può dirsi dell’organizzazione della milizia di stanza nel regno, per la quale l’Ossuna sconsigliava di porre al comando «naturali del regno», proponendo invece una drastica centralizzazione del comando a guida castigliana[13]. In tutto ciò è possibile intravedere una preferenza dell’Ossuna -che evidentemente era la preferenza di una parte della corte spagnola-, per una soluzione autoritaria del governo delle province, quella, per intenderci, che all’epoca di Filippo II era propria della fazione del duca d’Alba. Certamente, queste soluzioni dovevano andarsi ad innestare in uno scenario, come quello napoletano, attraversato da contraddizioni e conflitti, terreno tradizionalmente ostico per quei viceré che tentavano di sminuire il valore e la portata politica dei privilegi locali. La sconfitta del progetto ossuniano, seppur compresa all’interno di un cambio di potere nella corte di Madrid, se testimonia della scelta della monarchia di portare avanti l’opera di governo lasciando comunque intatte, almeno formalmente, le strutture di governo napoletane e le garanzie dei ceti privilegiati, segnala anche una difficoltà interna al percorso conservativo: l’Ossuna, nel suo tentativo di rendere più flessibile il governo napoletano alle esigenze della monarchia, si era imbattuto nell’opposizione di parte del gruppo togato, su cui la corte faceva affidamento per tenere sotto controllo gli umori dell’alta aristocrazia. Tale gruppo, secondo il viceré, se non vincolato strettamente alla volontà vicerale, rischiava di costituire un blocco di potere comunque pregiudizievole nei confronti del potere sovrano.

Nelle vicende che caratterizzarono il regno di Napoli tra Cinquecento e Seicento dunque, vi sono poteri diversi che si intrecciano e che finiscono con il costituire la specificità del contesto napoletano. Da una parte il viceré, rappresentante del potere regio, impegnato nel tentativo di applicare le direttive di Madrid, mediandole attraverso pratiche soggettive di comando. Dall’altra, la dinamica cetuale cittadina, con i vari gruppi che si contendono la guida del governo e con l’emergere di un sapere specificatamente giuridico-politico, utilizzato come strumento di lotta cetuale e come difesa dell’autonomia del regno dagli attacchi di una certa pratica dell’assolutismo che mirava a restringere i margini delle libertà e dei privilegi locali[14]. Il diritto, codificato o consuetudinario, dunque, si configura come elemento di conservazione dello status quo, ma anche come possibilità di apportare delle innovazioni all’interno dell’apparato di governo napoletano. In tal senso infatti, si esprimevano le scritture politiche di parte popolare, tra le quali vanno segnalate, in particolar modo, le opere di Giovanni Antonio Summonte e  di Francesco Imperato e la scrittura -pochi anni prima della rivoluzione del 1647- di Camillo Tutini[15]. Mentre dunque, da un punto di vista storico-politico, le vicende dell’Ossuna si svolgono sullo sfondo di due questioni politiche essenziali, i rapporti dinamici tra centro e periferia dell’impero e l’aperta conflittualità tra poteri cittadini diversi, in particolare tra Piazze nobili e Piazza popolare, il macrocontesto teorico-politico è rappresentato dalle teorie e pratiche di conservazione politica elaborate e sperimentate in varie parti d’Europa tra la fine del ‘500 e la prima metà del secolo successivo, che vanno sotto il nome di Ragion di Stato. Il viceregno dell’Ossuna allora, sarà considerato alla luce di tali emergenze di conflittualità, alle quali il vicerè tentò di dare uno sbocco positivo attraverso l’elaborazione di una politica pratica fondata sull’accentramento dei poteri nelle mani del vicerè con l’appoggio dalla Piazza popolare. Per portare a termine tale opera occorreva neutralizzare politicamente la potente nobiltà di piazza e subordinare al potere viceregio quel ceto togato nelle cui mani era concentrato il governo politico, amministrativo e giudiziario.

fonte

Un caso di ragion di Stato nella Napoli spagnola del XVII secolo: il governo vicereale del duca d’Ossuna.

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