Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

UN EPISODIO DI BRIGANTAGGIO A SAN PIETRO INFINE, quando “piemontese” era un’offesa

Posted by on Giu 24, 2021

UN EPISODIO DI BRIGANTAGGIO A SAN PIETRO INFINE, quando “piemontese” era un’offesa

Dopo la ritirata nella fortezza di Gaeta del Re Francesco II e la sconfitta dell’esercito borbonico sul Fiume Volturno nel mese di ottobre del 1860, tutti i militari superstiti delle file borboniche si trovarono improvvisamente dispersi, sbandati e avviliti. Molti non poterono piú fare ritorno nei propri luoghi d’origine in quanto schedati come nemici del nuovo Regno. Unica loro speranza era quella di raggrupparsi e contare su un nuovo capovolgimento della sorte riorganizzando, come voleva il Re, l’esercito borbonico, e coinvolgendo anche delinquenti e detenuti per reati non solo politici ma anche comuni.

Quando questi uomini, ormai vinti, stanchi ed affamati, videro svanire anche la piú piccola speranza di rifarsi, abbandonarono il loro obiettivo e si diedero al brigantaggio. Le loro imprese interessarono la maggior parte dei paesi dell’Italia centro-meridionale. E la sera del 19 agosto 1861 anche l’antico villaggio di San Pietro Infine situato nell’allora Terra di Lavoro (oggi in provincia di Caserta), subí la devastazione ad opera di una grossa banda di briganti, forte di circa 150 uomini, molti dei quali a cavallo. A capo vi era Francesco Basile, nativo di Collo (Colle Sannita) in Molise, detto il Bravaccio del Beneventano. Suo luogotenente era un certo Caretti.

Entrambi erano degli ex Ufficiali dell’ormai smembrato esercito borbonico. La popolazione sampietrese allertata per l’arrivo della grossa banda preferì fuggire abbandonando il paese, visto che era sprovvisto di truppe difensive. Entrati in paese, la prima casa che saccheggiarono ed incendiarono fu quella del sindaco Ercole Raimondi, già maggiore garibaldino. Poi fu la volta della casa del capo della Guardia Nazionale e di suo fratello l’arciprete. Operando indisturbati, i briganti stavano saccheggiando e incendiando le principali abitazioni del paese. Presto il paese sarebbe stato ridotto in cenere, ma il caso volle che proprio il sindaco, di ritorno a casa dopo un giorno di assenza per affari di famiglia, vide i bagliori del fuoco che avvolgevano le abitazioni, si accorse da lontano del pericolo e in men che non si dica si recò a San Germano, l’odierna Cassino, a chiedere soccorso alla truppa dell’11° Reggimento “fanteria”. Furono inviati 36 uomini, i soli disponibili, comandati da un Ufficiale, che raggiunsero di corsa il paese di San Pietro Infine, distante da San Germano circa 12 chilometri.

Giunsero dopo la mezzanotte al paese, avvolto dalle fiamme. I briganti avevano stabilito in piazza San Giovanni, che si trovava nella parte piú alta del paese, il luogo di riunione, dove accumulare e caricare il loro bottino. L’Ufficiale in comando, organizzò l’attacco dividendo la truppa in due squadre, una comandata dall’Ufficiale stesso, l’altra da un sergente e nonostante il loro ridotto numero e l’elevata pendenza delle strade del paese, affrontarono i briganti con coraggio ed estrema rapidità. Questi ultimi allertati dai colpi di fucili cercarono in un primo momento di respingere l’attacco ma ben presto, trovandosi di fronte all’assalto con le baionette e disorientati dalle vampate di fuoco che ormai li attanagliavano, non si resero conto dell’esiguità del numero dei soldati e preferirono darsi alla fuga a cavallo o a piedi sparpagliandosi in tutte le direzioni nella campagna circostante.

Nello scontro un brigante rimase ucciso mentre molti dovettero essere i feriti, a giudicare dalle numerose tracce di sangue lasciate a terra e dalle notizie avute dai pastori il giorno dopo relative a richieste di bende per medicazioni. La stessa notte furono recuperati, perché abbandonati nella fretta dai briganti in fuga, cinque cavalli sellati e carichi di refurtiva. La banda, ormai sparpagliata si frantumò in vari gruppi che nei giorni seguenti si limitarono a compiere solo atti di ladrocinio di animali da pascolo, per poter sopravvivere. Braccati dalle truppe dell’11° “fanteria” i briganti non riuscirono piú a compiere alcuna scorribanda nei paesi delle Mainarde. Una pattuglia dello stesso reggimento riuscí ad avere la meglio in uno scontro con la piú numerosa delle bande rimaste. Nello scontro morirono due briganti tra cui anche il capo banda Fucillo. Da quel momento i superstiti decisero di abbandonare i monti delle Mainarde e si rifugiarono nel vicino territorio papale, unendosi alla banda del famigerato Chiavone. Durante questi spostamenti furono catturati e fucilati altri quattro briganti. Tra cui Caretti, che venne fucilato il 24 agosto del 1861 in San Germano dal maggiore Spinola dell’11° “fanteria”.

Il Caretti era, come già detto, un ex Ufficiale borbonico, a quanto si raccontava molto intelligente e molto animoso, il quale nutriva un odio particolare contro le truppe italiane, che egli stesso chiamava in modo dispregiativo, piemontesi, e contro di esse avrebbe combattuto fino alla morte. Era di corporatura grossa e di bell’aspetto. I suoi compagni di ventura lo definirono valoroso e pieno d’ingegno. Quando gli fu chiesto, in punto di morte, se voleva essere bendato rifiutò in modo sdegnato dicendo che lui aveva fatto eseguire piú di quindici fucilazioni senza prendere tali accortezze. Il capobrigante Francesco Basile riuscí a radunare in poco tempo circa cento uomini. Ed il 21 agosto 1861 la banda cercò di attraversare il territorio di Ceprano per entrare nello Stato Pontificio. Ma furono respinti dai francesi, che tra l’altro catturarono sette uomini, otto cavalli e dieci fucili. La banda fu costretta a ritirarsi. La stessa notte trenta briganti a cavallo, ritornarono nelle province napoletane, mentre altri sessanta briganti con dodici cavalli e muli, riuscirono ad entrare nello Stato Pontificio, passando per le montagne di Falvaterra, ma nei pressi di Pofi furono disarmati e arrestati dai francesi. Anche il capobrigante Basile venne catturato. Dai resoconti dei militari risulta che quando Basile fu preso si trovava in sella al suo cavallo e aveva addosso un’uniforme borbonica e i distintivi di ufficiale. Furono inoltre catturati quattro sergenti ed otto caporali dell’ex esercito napoletano ed inoltre vennero recuperati seicento scudi romani. Finirono cosí le imprese della banda di Basile, ma già veniva profilandosi un altro capobrigante, anche lui ex sergente borbonico, che imperversò per circa un decennio, e di cui ancora si racconta: Domenico Fuoco, di San Pietro Infine.

MAURIZIO ZAMBARDI

pubblicato sul settimanale “L’Inchiesta” del 1° Nov. 1998
da: www.sanpietroinfine.com

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