Un parallelo tra il suicidio letterario di Ugo Foscolo e quello reale di Francesco Lomonaco di Giuseppe Gangemi

Nel 1796, Ugo Foscolo concepisce un romanzo epistolare, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in cui data, a sei giorni prima della firma del Trattato di Campoformio, la famosissima frase che apre il romanzo e fa esplicito riferimento alla sostanza di quel Trattato: “Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto: e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?” Questa apparente anticipazione della data non è un’incongruenza. Il Trattato di Campoformio definisce nei particolari la consegna di Venezia agli Austriaci già concordata, e sicuramente nota nelle linee generali, il 18 aprile 1797 alla firma del Trattato di Loeben.
La prima edizione del romanzo è del 1798. Sotto la supervisione di Foscolo vengono pubblicate a puntate le prime 45 epistole, su un totale di 67. Le esigenze della guerra riscoppiata nel 1799, spingono Foscolo a interrompere le pubblicazioni. L’editore affida ad Angelo Sassoli la cura dell’opera che viene pubblicata con ampi rimaneggiamenti volti a togliere le parti politiche (esempio la lettera del 17 marzo 1798) a favore di quelle sentimentali. Foscolo rinnega la pubblicazione e riprende in mano l’opera, a guerra terminata dopo la sconfitta degli Austriaci a Marengo. L’opera viene ristampata nel 1802. Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, viene realizzata la terza e definitiva pubblicazione, con ampi rimaneggiamenti. Risulta edita a Zurigo nel 1816 , ma l’indicazione è: Londra 1814.
Nella lettera del 13 ottobre 1797, Ortis-Foscolo accusa i Francesi: “Devastatori de’ popoli, si servono della libertà come i Papi si servivano delle Crociate … perché farci vedere e sentire la libertà, e poi ritorcerla per sempre? e infamemente!” Nella già citata lettera del 17 marzo, omessa dall’edizione 1802 perché, altrimenti, avrebbe portato al divieto di pubblicazione dell’intero volume, è contenuta una risposta alle denunce dei Meridionali Cuoco, Lomonaco, Pignatelli Strongolo e Ricciardi: molti Italiani si lamentano “d’essere stati venduti e traditi; ma se si fossero armati sarebbero stati vinti forse, ma non mai traditi; e se si fossero difesi fino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli”. Foscolo prosegue chiamando Napoleone “Giovane Eroe nato di sangue italiano; nato ove si parla il nostro idioma” e denuncia che egli “ha riempito l’Italia di proscrizioni, d’emigrazioni e d’esilio”.
Nella seconda parte del romanzo, nella lettera dell’11 novembre 1798, Foscolo inserisce un aneddoto che sembra descrivere un problema politico databile al 1805, a una dichiarazione di Napoleone, ormai re d’Italia, su come usare la scuola per addestrare i giovani Italiani alla libertà. “Occorre aver cura di stirare un elenco di mille libri francesi, fare ciò che può francesizzare gli studenti”. Ortis, raccontando l’aneddoto di cui sopra, spiega come gli Italiani si stiano spontaneamente francesizzando. “Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un libraio. – Non l’abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore; e allora quasi dispettoso mi disse, ch’ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente francese, e appena intende lo schietto toscano”.
Dopo l’ultima lettera del 25 marzo del 1799, Jacopo si uccide come Girolamo Ortis, studente dell’Università di Padova che ha dato, nel 1796, la prima idea a Foscolo per il romanzo epistolare. Più significativo del parallelo con Girolamo Ortis, il romanzo diventa politicamente significativo quando il parallelo viene realizzato con la vita e il suicidio del rivoluzionario repubblicano Francesco Lomonaco che Foscolo ha conosciuto bene e dai cui scritti è stato influenzato.
Come è noto, Foscolo, dopo aver sopportato il tradimento dei propri ideali, nel 1797 e nel 1806, e persino l’abolizione della propria cattedra a Pavia nel 1809, perché a Napoleone non piacciano i troppo liberi pensatori, sceglie l’esilio nel 1813. Lomonaco aveva scelto, invece, la soluzione più radicale, quella di Ortis, e si era suicidato nel 1810 perché la censura dei suoi Discorsi letterari e filosofici gli apparve, ed era di fatto, la negazione della produzione intellettuale di tutta la propria vita.
Una produzione incentrata sull’idea di una specificità nazionale italiana da illustrare attraverso le narrazioni delle Vite degli eccellenti Italiani (1802) e delle Vite de famosi capitani d’Italia (1804) per mettere in atto l’idea filosofica enunciata ne L’analisi delle sensibilità (1801): la sensibilità va valutata in direzione dell’azione, cioè non limitandosi a essere solo metafisici, ma anche militari e, quindi, attivi nella storia. L’idea di Vincenzo Cuoco che la rivoluzione napoletana, cui Lomonaco ha partecipato rimanendo fino all’ultimo a Sant’Elmo, possa essere stata passiva lo sconvolge perché, per lui, o una rivoluzione è attiva o rivoluzione non è. Egli attribuisce la responsabilità di questa passività all’illuminismo impregnato di razionalismo astratto. La vera ragione è, per Lomonaco, basata sul senso comune e prodotta dalla comunità sociale, non dalla sola comunità intellettuale. La vera ragione è quella strutturata intorno alla storia della comunità. La rivoluzione napoletana è fallita perché i Napoletani hanno cercato di imitare una rivoluzione riuscita altrove e non si sono proposti di radicarla nei propri costumi e nella propria storia.
Nel Rapporto al Cittadino Carnot, Lomonaco denuncia Louis-Joseph Méjan, comandante le truppe francesi di Sant’Elmo, per il tradimento a danno dei rivoluzionari napoletani e per essersi fatto comprare dagli Inglesi. La denuncia rimane senza effetto e, due anni dopo, Lomonaco alza il tiro su Napoleone che ha in mano i destini di due nazioni e non si sa cosa farà di esse. Nel 1805 ripeterà questo dubbio alla presenza dello stesso, ormai re d’Italia. Nel 1809, nei Discorsi letterari e filosofici, denuncia il Giovane Eroe che ha tradito la rivoluzione francese, facendosi console e imperatore, e quella italiana, facendosi re d’Italia e nominando i parenti monarchi di Napoli. Quando questo suo lavoro viene censurato, sceglie il suicidio.
Il suicidio di Lomonaco è una denuncia del trasformismo di quei rivoluzionari che, nell’adeguarsi, hanno obliato gli ideali repubblicano e dell’autonomia culturale e politica.