Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

UN PASSATO COSI’ ATTUALE

Posted by on Giu 30, 2018

UN PASSATO COSI’ ATTUALE

L’8 novembre 1830, a soli vent’anni, Ferdinando II di Borbone (1810-1859) divenne sovrano del Regno delle Due Sicilie. Finì un’era e si… cominciò con un nuovo ordine di cose con la rapidità e la fermezza con la quale un re così giovane caratterizzò, attraverso i suoi primi atti, la nascita del suo regno.

Lo stesso giorno dell’insediamento, il sovrano indirizzò alla nazione un energico proclama, definito dai contemporanei un «monumento di sapienza civile», attraverso il quale tracciava le linee guida del suo programma di governo: «Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri Augusti Antenati […] faremo tutti gli sforzi per riamarginare quelle piaghe che già da più anni affliggono questo regno». Tre erano i punti che Ferdinando aveva individuato per caratterizzare l’opera di miglioramento. Il primo era la conservazione e la difesa della religione cattolica, il secondo era la retta ed imparziale amministrazione della giustizia, il terzo era il risanamento delle finanze dello Stato. In materia di giustizia affermò e promise: «Noi vogliamo che i nostri tribunali siano tanti Santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagli intrighi, dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse. Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono eguali e procureremo che a tutti sia resa imparzialmente la Giustizia». Sulle finanze assicurò: «Noi non ignoriamo esservi in questo ramo delle piaghe profonde, che vanno curate, e che il nostro popolo aspetta da noi qualche sollievo dai pesi ai quali è stato sottoposto». Ricordiamo infatti che, in conseguenza dei moti del 1820, il Regno era stato per un lungo periodo occupato dagli austriaci e ciò aveva comportato un pesante gravame economico per le casse dello Stato, dovuto alle spese per il mantenimento dell’esercito di occupazione, costituito da ben 35.000 uomini. In seguito ed a causa di tali avvenimenti, si era verificato un deficit di bilancio, su cui gravavano ingenti interessi. Il giorno successivo a quello della salita sul trono, con il Real Decreto 9 novembre 1830, Ferdinando II dette al popolo delle Due Sicilie il suo personale esempio, effettuando i primi consistenti «tagli alla spesa pubblica» con la decurtazione di 180.000 ducati annui dal proprio appannaggio e di 190.000 ducati annui dalle rendite dei beni della famiglia reale, per complessivi 370.000 ducati annui, somma corrispondente a circa 18 milioni e mezzo di euro attuali. Un comportamento veramente inusuale fra i regnanti dell’epoca, per non dire fra i politici di oggi. Ma il suo primo vero e proprio atto di governo consistette in un provvedimento che dovrebbe essere studiato, capito ed imitato – nella logica economica e nella correttezza della prassi politica – dall’attuale classe dirigente italiana. Infatti, il re Borbone, con l’Atto Sovrano 11 gennaio 1831, enunciò una serie di interventi finalizzati ad azzerare il debito pubblico esistente, adottando criteri e scelte di metodo ammirevoli ed efficaci, non solo per quell’epoca, ma senza dubbio validi anche ai giorni nostri. Ferdinando esordì con una coraggiosa denuncia pubblica dell’esatto ammontare del vero deficit dello Stato: «La somma ne ascende a ducati 4.345.251,50 [pari ad oltre 217 milioni di euro attuali, cifra davvero enorme per quei tempi]. Il primo passo indispensabile alla prosperità delle finanze è quello di estinguerlo a gradi. Posta così al nudo la cosa, il vuoto effettivo ch’esiste nello stato discusso da formarsi pel 1831, inclusa una parte del pagamento del debito galleggiante di sopra indicato, è di 1.128.167». Egli aveva, in pratica, suddiviso l’intero ammontare del debito in quattro parti, da estinguersi in altrettanti anni. Quindi dettò alcune severe regole di risparmio, che non solo fece applicare nella Capitale e nelle province del Regno, ma che osservò egli stesso e che fece rispettare dalla propria Corte. Aveva deciso di risanare il bilancio a tutti i costi; ma ciò che soprattutto sorprende è il fatto che, dopo quella sincera e puntuale ammissione coram populo, il re programmò di estinguere gradualmente il pesante debito pubblico senza fare ricorso a nuovi tributi. Il risanamento doveva avvenire attraverso una politica di austerità, chiedendo sacrifici solo ai ricchi e per di più, come vedremo, alleviando nel contempo le condizioni di vita del popolo. Alle parole seguirono puntualmente i fatti! E, tanto per cominciare, molti funzionari corrotti vennero perseguiti e destituiti dai loro incarichi; qualcuno fu anche esiliato.
Con lo stesso Decreto, mentre da un lato fu dimezzato il dazio sul macinato – famigerata tassa invisa al popolo, che verrà poi abolita del tutto nel 1847 – dall’altro fu introdotta una ritenuta proporzionale sugli stipendi degli impiegati dello Stato e sulle pensioni.
Drastici furono anche i tagli apportati al bilancio dell’Amministrazione statale. Le spese dei Ministeri, infatti, furono rigorosamente tenute sotto controllo: tutti i relativi importi, anche se preventivati, dovevano essere autorizzati dal Ministero delle Finanze e tutte le somme non utilizzate dovevano andare a beneficio della Tesoreria. Ne conseguì che fu il risparmio ad accrescere le entrate finanziarie. Si ottennero, in questo modo, due immediati risultati: un aumento progressivo delle entrate non imputabile a nuovi balzelli ed una costante moralizzazione pubblica attraverso il risparmio e l’economia su tutte le spese. Infatti, con Decreto 4 febbraio 1831, ridusse alla metà lo stipendio dei ministri e diminuì di altrettanto i bilanci della Guerra e della Marina, recuperando sui costi di queste due sole amministrazioni 340.000 ducati. Ulteriori 531.667 ducati derivarono dall’insieme delle economie degli altri ministeri. Si ottenne così un risparmio annuo complessivo di 1.241.667 ducati, con i quali si sopperì al deficit erariale relativamente alla quota preventivata per l’anno 1831.
Lo storico Paolo Mencacci osservò: «La saggia economia che prometteva il Re nel suo proclama veniva rigorosamente osservata, e produceva frutti superiori ad ogni aspettazione… contemporaneamente affrancava i popoli dal gravoso dazio della macinatura dei cereali; aboliva altri diversi dazi…».
Pareggiato il bilancio del 1831, Ferdinando rese immediatamente disponibile la residua somma eccedente di 113.500 ducati, ordinando «…di impegnarli a sollievo della parte più bisognosa del nostro popolo…», cioè per compensare, quantunque in misura minima, i minori introiti fiscali dovuti alla riduzione della tassa sul macinato.Tuttavia, poiché quest’ultima imposta procurava di norma un gettito erariale annuo di ben 1.253.000 ducati, il re si rese conto che, a fronte della sua riduzione al 50%, la somma di 113.500 ducati avrebbe apportato un «poco sensibile alleviamento». Pertanto, «non potendo chiedere né alla proprietà né all’industria altri sacrifizj, senza portare grave ferita a queste sorgenti della pubblica prosperità» [si osservi quanto profondo fosse il rispetto che questo grande statista nutriva per il lavoro e per la proprietà privata.], dopo aver preventivamente acquisito in merito il parere favorevole del «Consiglio di Stato ordinario», egli decise di applicare una ritenuta sugli stipendi e sulle pensioni che superavano l’importo di 25 ducati (equivalenti a circa 1.250 euro attuali) mensili, applicando aliquote moderatamente progressive, in modo che il peso maggiore ricadesse in proporzione crescente sui redditi più elevati. I redditi pari od inferiori ai 25 ducati mensili erano esentati da questo prelievo. Onestà e senso di giustizia caratterizzavano l’impianto fiscale in esame.
Ferdinando II introdusse, poi, dei severi controlli sulle spese dei Comuni per alleggerire le loro imposte; non di rado, sindaci, intendenti ed esattori locali vedevano giungere all’improvviso il re, al quale dovevano esibire registri e conti di cassa.
Drastici furono anche i ridimensionamenti delle rendite private, concesse in passato troppo generosamente ai nobili di Corte; il re abolì in gran parte quelle istituite da suo padre e dimezzò quelle concesse da suo nonno. Il Principe di Canosa, don Antonio Capece Minutolo, ad esempio, invece di 8.000 ducati l’anno (circa 400.000 euro), se ne vide assegnare soltanto 3.500 (circa 175.000 euro) e cercò invano di parare il duro colpo, poiché quel «ragazzo taccagno», come egli definiva Ferdinando, fu sordo alle sue indignate proteste.
Presso la stessa Corte (istituzione questa paragonabile al nostro Quirinale) fu rispettato un serio regime di economia e di parsimonia. In breve scomparvero lacchè e cortigiani vari; furono eliminate le cacce e le pesche reali; i cavalli (paragonabili, latu sensu, alle odierne auto blu) furono ridotti all’indispensabile. Furono inoltre abolite diverse regie riserve di caccia, spalancandone i cancelli al pubblico. Per effetto della «politica di risanamento» voluta da Ferdinando II, con poca spesa ed in soli 4 anni, il pesante debito pubblico che gravava sulle casse dello Stato borbonico fu estinto. Nel 1835, a coronamento di un quinquennio di successi finanziari dello Stato napoletano, il re fece coniare dalla zecca la bellissima moneta d’oro di 30 ducati, divenuta preziosa per la purezza della lega (titolo millesimi 996) e l’alto valore nominale (pari a circa 1.500 euro attuali); un primato che resta tuttora ad orgoglio della numismatica del Sud.
Un altro piccolo monumento di saggezza e di liberalità fu l’istituzione della «Commissione di beneficenza», che altro non fu se non un ulteriore ed avanzato sistema di previdenza. Ricordo, a quest’ultimo riguardo, che il Paese borbonico, unico nell’Italia di allora, godeva dal 1818 del sistema pensionistico per i dipendenti dello Stato, realizzato attraverso la ritenuta del 2% (appena!) sugli stipendi. Dopo 20 anni di servizio si aveva diritto ad un terzo dello stipendio, dopo 25 alla metà, dopo 35 ai cinque sesti ed, infine, dopo 40 anni, all’intero stipendio. I benefici che poi seguirono alla descritta «manovra economica» ed agli altri provvedimenti politico-amministrativi di Ferdinando II, non tardarono a farsi sentire, generando una lunga fase di crescita, di incremento della ricchezza e di sviluppo produttivo. In vent’anni circa, la situazione finanziaria e socio-economica del Regno delle Due Sicilie raggiunse livelli tali che – per il tempo – erano di valore assoluto. Infatti, durante il regno di questo lungimirante sovrano, le finanze dello Stato borbonico conseguirono un’affidabilità ed una solidità tale che i titoli del debito pubblico, alla Borsa di Parigi, oscillavano tra i 115% ed i 120% rispetto a valori facciali di 100. Gli interessi, pagati con regolarità, erano in linea con la media degli interessi corrisposti per i migliori titoli d’Europa ed il capitale veniva puntualmente restituito.
In campo tributario, l’erario napoletano divenne il più prosperoso d’Europa, quantunque a fronte di un sistema impositivo giudicato il più mite del continente. Il sistema di tassazione era regolamentato da tre sole leggi e poneva il massimo rispetto per la proprietà e per l’iniziativa privata, agevolando in ogni maniera la ricchezza di ognuno e, quindi, quella generale. L’unica «imposta diretta» esistente era la Fondiaria (con la leggera aliquota del 10% sulla relativa rendita), mentre «imposte indirette» erano quella sulla Dogana (sale, tabacchi, polveri da sparo, carte da gioco, in sostanza tutte imposte di monopolio), quella sul Registro e bollo, quella sulla Lotteria e quella sulle Poste. Fra il 1815 ed il 1860 le aliquote di queste imposte non erano state mai aumentate, né furono istituite nuove tasse. Tuttavia, le entrate erariali erano sempre in espansione, in quanto crescevano con la crescita del benessere generale. In Sicilia si pagava solo la Dogana.
**Dopo l’unità d’Italia, Vittorio Sacchi (commissario governativo piemontese, inviato a Napoli da Cavour quale segretario generale delle finanze, incarico che ricoprì dal 1° aprile al 31 ottobre 1861), nel suo rapporto, riferì: «esser [il sistema tributario napoletano] meno costoso che in Piemonte»; egli, infatti, ammirava la semplicità dei mezzi di riscossione, lodava il sistema di tesoreria e la direzione del debito pubblico e gli pareva così buona che voleva «modellarvi il servizio del debito pubblico nazionale». Sacchi definì, quindi, «mirabile il meccanismo finanziario del Regno di Napoli», aggiungendo che: «nei diversi rami dell’amministrazione delle finanze napoletane si trovano tali capacità di cui si sarebbe onorato ogni qualunque più illuminato governo…».
I dazi comunali borbonici (trasformati in «imposte di consumo» dal successivo governo italiano) erano decisamente bassi. Nel 1900, i calcoli di Gaetano Salvemini dimostreranno come quelle imposte fossero lievitate, in 40 anni (dal 1860 al 1900), di oltre il 100% in tutta Italia e molto di più nel solo Sud. Questa levità fiscale, unita alla particolarità di dazi tendenti a far soddisfare prima le esigenze interne delle comunità ed aprire, poi gradualmente al mercato, le sempre più abbondanti produzioni eccedenti il fabbisogno nazionale, determinavano uno stato di prezzi molto bassi, una circolazione dei beni sensibilmente alta ed elevati livelli di impiego della ricchezza (il tutto, ovviamente, secondo i parametri del tempo). I dazi di importazione erano in linea con quelli di tutte le grandi economie del tempo, tant’è che le esportazioni delle Due Sicilie potevano tranquillamente crescere senza incontrare le difficoltà di «dazi ritorsivi» che ci sarebbero sicuramente stati qualora il Sud avesse praticato una politica protezionistica per le proprie produzioni.
Nel Regno esistevano 761 stabilimenti diversi di beneficenza ed oltre un migliaio di monti frumentari, il 65 per cento del totale italiano, che, fornendo anticipazioni per le attività agricole ad interessi quasi nulli, erano una sorta di credito agrario, sia pure embrionale. Sulla base dei dati relativi al Censimento Generale del Regno d’Italia del 1861, risulta che, su complessivi 9.179.322 regnicoli, nelle sole industria, agricoltura e commercio, la popolazione occupata ammontava a 5.000.680 unità, pari a ben il 54,47% del totale degli abitanti; la qual cosa sta a significare che, nelle Due Sicilie, tutti i capifamiglia, moltissime donne e la quasi totalità dei giovani in età lavorativa avevano un lavoro. Il Regno godeva decisamente di una invidiabile situazione economica, impensabile ed inarrivabile per noi meridionali di oggi; c’era, in tre parole: la piena occupazione.
In particolare, secondo lo stesso censimento unitario del 1861, oltre il 50% (cioè: 1.595.359 su 3.130.796) di tutti gli addetti alle manifatture protoindustriali ed industriali d’Italia (quelli che oggi si chiamerebbero addetti all’industria) erano concentrati nel Mezzogiorno. E, per capire l’abisso che separava – in positivo – le Due Sicilie industriali dal resto d’Italia, basti ricordare che tutti gli addetti manifatturieri di quello che, dagli anni ’80 in poi dell’800, diventerà «il triangolo industriale italiano» erano solo 759.000 a fronte di una popolazione uguale a quella delle Due Sicilie.
Non deve quindi meravigliare che, al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore a mezzo miliardo di lire-oro ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme; la qual cosa non era – come strumentalmente sostengono ancora oggi i soliti risorgimentalisti – indice della «scarsa possibilità di impieghi produttivi», che avrebbe lasciato spazio solo ad una «sterile tesaurizzazione», bensì, al contrario, la prova inconfutabile dell’abbondanza produttiva e della capacità di esportazione delle Due Sicilie.
A questo si aggiungeva poi la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata. Quindi, nelle nostre civili ed evolute Due Sicilie, anche quella fattispecie di furto aggravato e continuato, eufemisticamente chiamato inflazione, era un fenomeno del tutto sconosciuto!
Questi ottimali risultati furono raggiunti solo grazie alla straordinaria politica di investimenti e di risanamento voluta dal grande statista Ferdinando II di Borbone, il quale, ispirandosi alle teorie politico-economiche del santo filosofo Thomas Moore: «un poco a tutti e non tutto a pochi», rese reale quel «cattolicesimo sociale» descritto nella Utopia e fondò lo Stato su princìpi di equità, giustizia ed aiuto alle classi più deboli, costruendo una rigorosa amministrazione pubblica ed un giusto sistema fiscale e finanziario. La politica dello Stato borbonico fu, pertanto, rivolta al mantenimento dell’autentico benessere dei sudditi, piuttosto che al profitto di pochi; la qual cosa trovava il riscontro più evidente ed incontrovertibile nel dato di fatto che la disoccupazione era praticamente inesistente; il che significava concreta possibilità, per tutti, di lavorare e di vivere in modo decoroso e libero, come ad esempio il gran numero degli artigiani, con casa propria attigua alla bottega.
Nel 1863, un testimone insospettabile, il capitano italo-piemontese conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz scriverà che: «…II 1860 trovò questo popolo [delle Due Sicilie] del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comperava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto… La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita, cattedre letterarie e scientifiche in tutte le principali città di provincia. Adesso, invece…». Questa è un’eloquente risposta ai tanti denigratori di professione e non, che per oltre 154 anni hanno descritto il Regno delle Due Sicilie come un paese retrogrado e chiuso ad ogni forma di progresso; costoro dovrebbero studiare per bene le Leggi ed i Decreti di Ferdinando II, per capirne la ratio moderna e liberale e che, a parere di chi scrive, sono un esempio di buona amministrazione sociale. La medesima cosa dovrebbero fare i nostri economisti, politici ed amministratori, locali e nazionali.
Ed a ragion veduta, Sir Robert Peel (1788-1850), primo ministro britannico sostenitore del principio del libero scambio, dinanzi al Parlamento inglese ne fece le lodi profferendo le seguenti parole: «Io debbo dire – per rendere giustizia al Re di Napoli – di aver veduto un suo documento autografo, che racchiude principii così veri, come quelli sostenuti dai professori più illuminati di economia pubblica».

Dalla pagina Un popolo distrutto

segnalato da

Gianni Ciunfrini

 

 

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