UN REGNO DIFESO DA LAZZARI E BRIGANTI
E’ un secolare vuoto storico che oltraggia il valore e la dignità di un popolo, insultato, massacrato ed incarcerato nella propria terra, occupata dallo straniero! Anche nei fatti della rivoluzione anti-napoletana, anti-cristiana ed anti-borbonica del 1799, non si racconta la verità! Ma quegli accadimenti storici non possono essere dimenticati o, peggio, falsificati. Il popolo napoletano, che ha subito e poi combattuto sanguinose guerre di spoliazione e di soprusi, non può più essere vilipeso ed oggi invochiamo la verita storica per inorgoglire i figli del grande Sud, prima “lazzari”, poi “briganti” ed infine oggi ancora emigranti.
Ma che accadde in quei convulsi anni di sterminio di lazzari?
La fine del Seicento è l’epoca della filiazione della Massoneria speculativa dalla Massoneria operativa. Nelle Logge corporative entrano luminari della nobiltà, chiamati “Massoni Accettati”, che si assumono il compito di abbattere le monarchie assolute e riformare i costumi in tutto il mondo occidentale. Fra i massoni francesi ci sono Montesquieu, Rousseau, Voltaire, Lalande, Petion, Mirabeau, Danton , Lafayette e Napoleone. In pochi decenni, la Massoneria Universale si radica in Europa e penetra nei salotti buoni degli stati feudali europei. Nel 1750, nasce a Napoli una Gran Loggia, che designa Gran Maestro Raimondo di Sangro, principe di San Severo.
E’ l’inizio della fine della monarchia assoluta di Carlo Borbone, sorta nel 1734. Per affermare gli ideali massonici dei Landmarches, non c’è che un modo: distruggere le monarchie e lo Stato della Chiesa. E’ quello che succede. La monarchia borbonica di Ferdinando IV, ne da l’occasione. Nel 1796 le truppe francesi, guidate dal generale Napoleone Bonaparte cominciano a riportare significativi successi in Italia, l’una dopo l’altra vengono proclamate delle repubbliche “sorelle”, filofrancesi e giacobine (la Repubblica Ligure e la Repubblica Cisalpina nel 1797, la Repubblica Romana nel 1798). Nel 1798, le truppe francesi occupano Roma e proclamano la Repubblica romana. Ferdinando IV con le truppe napoletane, corre in difesa dello Stato Pontificio ed entra nella città del papa, Roma. L’esercito napoletano, forte di 70.000 uomini reclutati in poche settimane e comandato dal generale austriaco Karl von Mack entra nella Repubblica Romana con l’intenzione dichiarata di ristabilire l’autorità papale. Dopo solo sei giorni Ferdinando IV arriva a Roma, ma una immediata e risoluta controffensiva dell’armata francese del generale Jean Étienne Championnet sbaragliò rapidamente l’esercito napoletano alla battaglia di Civita Castellana così i borbonici furono costretti alla ritirata, l’armata francese poté avanzare agevolmente fino a Napoli dove venne costituita, con l’appoggio dei giacobini filofrancesi locali, la Repubblica Partenopea. Le truppe francesi entrate nel Regno di Napoli, devastarono e saccheggiarono il territorio, abbandonandosi a gravi violenze, e raggiunsero Napoli il 23 gennaio 1799 dove entrarono con la collaborazione dei democratici locali e schiacciarono la resistenza dei lazzari legittimisti e clericali.
Il 23 gennaio i giacobini napoletani proclamano da Castel Sant’Elmo la Repubblica di Partenopea.
Con un decreto del generale Championnet viene costituito e insediato il Governo Provvisorio. “In quei 4 giorni i francesi, con la collaborazione dei giacobini locali, massacrarono – come riferisce il generale Thiebault nelle sue memorie – non meno di ottomila napoletani”. Nei giorni successivi, la stessa sorte tocca alle città di Troia, Lucera, Bovino, Manfredonia, Foggia e San Severo. A Monte Sant’Angelo, invece, viene spogliata degli arredi in oro del Santuario di san Michele e tutti gli stemmi araldici, posti all’ingresso delle abitazioni signorili, sono distrutti con colpi di scalpelli. Nelle piazze sono alzati gli alberi della libertà, mentre la parola “cittadino” è sostituita ai titoli nobiliari. Il governo repubblicano, intanto, promulga leggi sulle libertà ed anche oltre millecinquecento (1500!) condanne a morte contro coloro che si oppongono a quella conquista e all’offesa quotidiana dei valori tradizionali popolari e cristiani di cui quegli alberi – abbattuti decine di volte – rappresentano il simbolo più odiato; intanto il commissario repubblicano francese Faypoult timbra le nostre opere d’arte e le spedisce a Parigi. La vita della neonata Repubblica è difficile fin dagli inizi: manca l’adesione popolare e quella delle province non occupate dall’esercito francese; sebbene i repubblicani siano spesso personalità di grande rilievo e cultura, appaiono anche eccessivamente indottrinari e lontani dalla conoscenza dei reali bisogni del popolo napoletano. Inoltre la Repubblica ha un’autonomia estremamente limitata, sottoposta di fatto alla dittatura di Championnet e alle difficoltà finanziarie causate principalmente dalle richieste dell’esercito francese costantemente in armi sul suo territorio. Non si riuscirà mai a costituire un vero e proprio esercito ottenendo solo limitati successi nella democratizzazione delle province. A questo si aggiunge una repressione spietata e sanguinaria contro gli oppositori del regime, che certo non aiuta a conquistare le simpatie popolari; difatti durante i pochi mesi della repubblica moltissime persone vengono condannate a morte e fucilate dopo sommari processi politici. Nel frattempo, nel resto delle province, la situazione comincia a precipitare. Il cardinale Fabrizio Ruffo sbarca il 7 febbraio in Calabria con l’assenso regio e con pochi compagni, riuscendo a costituire in poco tempo un’armata popolare (l’Esercito della Santa Fede) e ad impadronirsi rapidamente della regione e poi della Basilicata e delle Puglie. Nell’esercito di Ruffo militano anche diversi briganti come Fra Diavolo, Panedigrano, Mammone e Sciarpa. Una squadra navale inglese tenta la conquista dal mare, ma dopo una breve occupazione dell’isola di Procida è costretta alla ritirata dalle navi comandate dall’ammiraglio repubblicano Francesco Caracciolo, ex ufficiale della marina borbonica.
La marcia su Napoli dei “sanfedisti” diventa inarrestabile ed annienta, con la conquista di Castel Sant’Elmo, l’ultima sacca di resistenza repubblicana che termina al Ponte della Maddalena nonostante la strenua resistenza del Forte di Vigliena. Pochi giorni dopo, tra il 18 e il 22 giugno si arrendono gli ultimi forti cittadini in mano ai giacobini: Castel dell’Ovo, Castel Nuovo e Castel Sant’Elmo.
Il 13 giugno del 1799, in tutte le città del regno di Napoli, l’albero della libertà viene sradicato ed al suo posto trovano visibilità gli antichi crocifissi. Ottenuta la resa dei repubblicani, restava da decidere come trattare le centinaia di persone che avevano partecipato al governo di Napoli durante l’occupazione francese. Erano state diverse centinaia le persone che avevano prestato servizio alla Repubblica napoletana. Dal punto di vista giuridico la loro posizione era molto difficile. Siccome la Repubblica napoletana non era stata riconosciuta ufficialmente (lo stesso governo francese aveva rimandato indietro senza riceverla una delegazione inviata allo scopo di ottenerne il riconoscimento), essi non erano considerati prigionieri di guerra (con tutte le garanzie connesse). Rischiavano pertanto di essere giudicati da un tribunale penale come traditori. Il reato di tradimento era punito con la condanna a morte. Ai repubblicani trincerati in Castel Sant’Elmo, il Comandante Generale del Re, Fabrizio Ruffo offrì un’”onorevole capitolazione”, concedendo loro di optare per la fuga, imbarcandosi o seguendo le guarnigioni francesi, che avevano già abbandonato la città. Ma appena questo accordo fu sottoscritto ed accettato anche dai comandanti delle truppe regolari presenti all’assedio, sotto consiglio inglese, Ruffo viene esautorato dal comando. L’ammiraglio inglese Lord Orazio Nelson, non aveva tollerato la sconfitta navale a Procida e succube di Emma Hamilton amica della regina Maria Carolina, (a cui i giacobini avevano ghigliottinato la sorella a Parigi), non voleva perdonare i giacobini napoletani rei di essersi affrancati agli omologhi francesi. Pochi giorni più tardi, verrà impiccato ai pennoni de “La Minerva”, l’ammiraglio, Francesco Caracciolo, membro della loggia “Perfetta Unione”. Lo seguiranno in estate Domenico Cirillo, Michele Natale vescovo di Vico Equense e Gennaro Serra duca di Cassano, tutti patrioti-massoni, appartenenti all’Officina “Vittoria” di Napoli, e due donne, Luisa San Felice e Eleonora Pimentel Fonseca.
Dopo sei mesi, il sogno della repubblica napoletana termina in un bagno di sangue. L’8 luglio re Ferdinando IV di Borbone, dichiara decaduta la repubblica.
Su circa 8000 prigionieri, solo 124 vengono mandati a morte, 6 sono graziati, 222 condannati all’ergastolo, 322 a pene minori, 288 alla deportazione e 67 all’esilio. La perfidia di Nelson destò una forte impressione anche in Inghilterra, dove Charles Fox pronunciò un acceso discorso alla Camera contro il comportamento dell’ammiraglio.
«L’odio dell’inglese, contro i francesi e i loro partigiani, lo accecasse e lo spingesse ad atti selvaggi e sleali […] e anche l’ipotesi che egli ubbidisse ad ordini segreti del governo inglese, che volevano perpetuare nell’Italia meridionale l’antitesi e la discordia tra sovrani e sudditi, in modo che l’Inghilterra avesse sempre un piede in queste regioni, e potesse valersi delle due Sicilie pei suoi scopi militari e commerciali. »
(B. Croce, La repubblica napoletana del 1799, pp. XV-XVII, cfr. anche Filippo Ambrosini, L’albero della Libertà. Le Repubbliche giacobine in Italia 1796-99, Edizioni del Capricorno, Torino 2014, p. 242-47))
Voglio nuovamente ricordare il giovane popolo del ceto popolare napoletano “I LAZZARI” che in questi avvenimenti tumultuosi sociali e politici, di una rivoluzione mancata, combatterono contro l’esercito napoleonico, percepito come giacubino, ed in nome della tradizione cattolica, difesero Ferdinando IV, quale legittimo re. I lazzari si batterono per tre giorni ininterrottamente, il 21, 22 e 23 gennaio 1799 sulle mura di Napoli. Le forze francesi li soverchiarono; morirono in oltre diecimila per difendere la città. In seguito, i lazzari si allearono alle truppe sanfediste che riconquistarono Napoli tra giugno e luglio dello stesso anno, ponendo termine alla Repubblica Napoletana. Alcuni capi lazzaro, quali Antonio D’Avella detto Pagliucchella e Michele Marino (detto ‘o pazzo), per opportunità economiche, aderirono alla causa repubblicana e anch’essi furono impiccati in piazza del Mercato il 29 agosto del 1799 come gli alleati giacobini.
Storie avvolte nel mistero del silenzio di una storia reticente.
Il movimento sanfedista si inserisce a pieno titolo nei movimenti europei controrivoluzionari della fine del XVIII secolo, come ad esempio quello sorto durante le guerre di Vandea nella omonima regione.
Gli invasori furono largamente invisi agli strati popolari (per una serie di ragioni tra cui l’ostentata irreligione, i saccheggi, le depredazioni, le imposizioni fiscali e l’imposizione della leva militare), mentre l’aristocrazia e la borghesia benestante videro con favore la loro presenza. I francesi furono protagonisti di episodi di crudeltà. Nel Regno di Napoli l’elenco fu tristemente lungo: nel basso Lazio avvennero le prime feroci stragi di civili: 1.300 persone furono massacrate a Isola Liri e nei dintorni; Itri e Castelforte furono devastate; 1.200 persone furono uccise a Minturno nel gennaio 1799, più altre 800 in aprile; gli abitanti della cittadina di Castellonorato furono tutti massacrati; 1.500 furono le persone passate a fil di spada nella sola Isernia, 700 a Guardiagrele, 4.000 ad Andria, 2.000 a Trani, 3.000 a San Severo, 800 a Carbonara, tutta la popolazione a Ceglie, ecc.Di fronte a queste violenze, la popolazione si sollevò in ogni parte del Regno. Le masse popolari armate assunsero nelle diverse regioni vari nomi: “lazzari” a Napoli, “montanari” in Abruzzo, “contadini” nella Terra di Lavoro. La «monarchia napoletana — come osserva Benedetto Croce —, senza che se lo aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede”»
Fabrizio Dionigi Ruffo dei duchi di Bagnara e Baranello detto il cardinale generale.
Ricevuto il titolo di “Comandante Generale” del Re, ottenne una nave e sette uomini. Salpò da Palermo e sbarcò l’8 febbraio in Calabria, sua terra natale. I primi centri di raccolta dei volontari furono Scilla e Bagnara, suoi feudi. Schiere di contadini risposero all’appello, fino a raggiungere il numero di 25.000 uomini abili alle armi. Ruffo chiamò il suo esercito Armata Cristiana e Reale. La regina, considerava il Ruffo inaffidabile e gli preferiva l’ammiraglio inglese Orazio Nelson. Il cardinale, propose una pacificazione generale, iniziando delle trattative volte a sottoscrivere una capitolazione prima che arrivassero espliciti ordini contrari. Così facendo cercò – nei limiti del possibile – di attenuare le prevedibili sofferenze dei giacobini concedendo loro di optare per la fuga, imbarcandosi o seguendo le guarnigioni francesi, che avevano già abbandonato la città. Ma il 24 giugno l’ammiraglio Nelson giunse in rada. Il giorno dopo, quando i primi giacobini stavano già aspettando il momento di imbarcarsi, l’ammiraglio inglese fece sapere che il patto era “infame” e che non ne avrebbe permesso l’esecuzione. Il cardinale Ruffo viene praticamente esautorato dal comando. Un ufficiale inglese, quindi, decise la sorte dei prigionieri napoletani, di cui 124 furono giustiziati!
Il Canto dei Sanfedisti, riproposto nel Novecento da numerose compagnie di canto popolare: si noti il riferimento ironico alla Carmagnola (canto rivoluzionario). Il successo popolare che riscosse il movimento della Santa Fede dimostra che le idee rivoluzionarie e giacobine avevano fatto presa soltanto tra gli strati più istruiti della popolazione napoletana.
« A lu suone d’ê grancasce
viva viva ‘o populo vascie,
a lu suono d’î tammurielli
so’ risuorte ‘i puverielle.
A lu suono d’ê campane
viva viva ‘i pupulane,
a lu suono d’î viulini
morte a li giaccubbine!
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva ‘o rre cu la famiglia.
A Sant’Eremo tanto forte
l’hanno fatto comm’â ricotta,
a ‘stu curnuto sbrevognato
l’hanno mis’ ‘a mitria ‘n’capa.
Maistà, chi t’ha traduto?
Chistu stommaco chi ha avuto?
‘E signure, ‘e cavaliere
te vulevano priggiuniere.
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva ‘o rre cu la famiglia.
Alli trirece de giugno
sant’Antonio gluriuso
‘e signure, ‘sti birbante
ê facettero ‘o mazzo tante.
So’ venute li francise
aute tasse n’ci hanno mise,
liberté… egalité…
tu arruobbe a me
io arruobbo a te!
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva ‘o rre cu la famiglia.
Li francise so’ arrivate
ci hanno bbuono carusate,
et voilà, et voilà…
cavece ‘n culo a la libbertà!
A lu ponte d’â Maddalena
‘onna Luisa è asciuta prena
e tre miedece che banno
nu’ la ponno fa’ sgravà.
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva ‘o rre cu la famiglia.
A lu muolo senza ‘uerra
se tiraie l’albero ‘n terra
afferraino ‘e giacubbine
‘e facettero ‘na mappina.
È fernuta l’uguaglianza
è fernuta la libertà
pe ‘vuie so’ dulure e panza
signo’, iateve a cuccà!
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva ‘o rre cu la famiglia.
Passaie lu mese chiuvuso
lu ventuso e l’addiruso
a lu mese ca se mete
hanno avuto l’aglio arrete.
Viva tata maccarone
ca rispetta la religgione,
giacubbine iate a mare
ch’ v’abbrucia lu panare!
Sona sona
sona Carmagnola
sona li cunsiglie
viva o rre cu la famiglia. »
Stampa sacra sanfedista con una croce istoriata e rappresentazioni simboliche ai lati della stessa: in alto la raffigurazione dei sovrani borbonici, al centro Sant’Antonio che impugna la bandiera borbonica, e San Gennaro, in basso a sinistra un angelo scaglia fulmini contro il demonio che trascina nelle fiamme dell’inferno l’albero della libertà spezzato con in cima il berretto frigio, e la bandiera tricolore e sotto il motto “Muore la Libertà e Viva sua Maestà”, a destra raffigurazione delle esecuzioni dei liberali con due impiccati ed un terzo in corso d’impiccagione da parte del boia, sotto la scritta “Morte dell’infami Giacobini”. A legenda della stampa la scritta in latino Nos autem gloriari oportet, in Cruce, Domini Nostri Jesu Christi
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