Alta Terra di Lavoro

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Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta GIUSEPPE BUTTÀ …..(pagg. 107-112)

Posted by on Mag 30, 2019

Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta  GIUSEPPE BUTTÀ …..(pagg. 107-112)

Sarebbero state sufficienti queste prime scene inqualificabili, perpetrate da’ Camorristi capitanati da D. Liborio, Prefetto di Polizia liberale, per far conoscere anche agli sciocchi, e principalmente a chi potea e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che la proclamata Costituzione serviva come mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono.

Ma si proseguì sulla medesima via de’ cominciati disordini, i quali si accrescevano giorno per giorno, ora per ora con selvaggia energia, ed a nulla si dava riparo. Ciò dimostra la tristizia e l’infamia degli uomini che allora aveano afferrato il potere e la dabbenaggine di colore che si dicevano, ed erano realmente tutti pel Re e per l’autonomia del Regno.

Se mi si dicesse che nulla potea farsi, perché operando in contrario alla proclamata costituzione sarebbe stato lo stesso di compromette il Re in faccia all’Europa, la quale non avrebbe ritenuto come un atto sincero del Sovrano le date franchigie costituzionali; risponderei in primo, che reprimere i disordini interni di uno Stato è dovere d’ogni Sovrano, sia assoluto o costituzionale, maggiormente quando i ministri sono fedifraghi: in secondo che i Sovrani d’Europa guatavano biechi il nuovo ordine di cose proclamato a Napoli, e que’ baccanali giudicavano forieri di disordine europeo.

Ad eccezione di qualche parvenu, tutti avrebbero approvato e fatto plauso ad una pronta ed energica repressione di que’ disordini, ad un solenne colpo di Stato: e lo stesso Napoleone III, il quale avea furbescamente consigliato a Francesco II quella fatale ed inopportuna costituzione, almeno in apparenza, si sarebbe mostrato contento al pari degli altri Sovrani.

Del resto, è un assioma, che di due mali si debba sempre evitare il maggiore: or proseguendo i disordini e le fellonie cagionate dalla costituzione, la caduta della Monarchia era inevitabile; al contrario il colpo di stato l’avrebbe assodata; solamente avrebbe fatto braitare un poco i settarii, ma si sarebbe salvato Re, Regno e benessere de’ Popoli; risparmiando in prosieguo tante lagrime e tanto sangue che si è versato: a tempo opportuno, Re Francesco avrebbe potuto rimettere la costituzione, se l’avesse giudicata buona pe’ suoi popoli.

Mi si potrebbe anche dire: che dopo i fatti compiuti è facile schiccherar sentenze a proposito ed a sproposito; ed io rispondo, ma quando i fatti e le condizioni interne ed esterne del reame di Napoli fossero — ed erano tali — quali io le ho raccontate fin qui, il voler persistere in alcune idee senza base né di logica, né di storia, non sarebbe il solito ripiego de’ peccatori ostinati? Brenier, ministro di Francia presso la Corte di Napoli, era stato il fabbro principale della proclamata Costituzione, della quale ebbe tuttavia un saggio niente piacevole.

Egli usciva in carrozza dal Palazzo del Nunzio Apostolico; il cocchiere sferzava i cavalli per farli andare di trotto; il popolo già sovrano se ne risentì e bastonò il cocchiere. Il Brenier levandosi in piedi, disse al popolo il suo nome e la sua carica, si aspettava scuse e plausi, in cambio si ebbe due mazzate sull’onorevole capo, e così malconcio e pieno di sangue ebbe a gran fortuna di potersene andar vivo a casa sua, ove fu poi visitato da due aiutanti di campo del Re e di S. A. il Conte d’Aquila.

L’aggressione di Brenier non credete che fosse un puro accidente, ma essa fu bene una premeditazione de’ rivoluzionarii per fare impedimento e dispetto al Re. In effetti si spacciò come notizia certa di essere un borbonico colui che diede le due busse al ministro di Francia, ma si finì di metterlo in libertà sotto il governo che successe a quello di Francesco II.

Si fece al Brenier un indirizzo a nome del popolo, firmato da tre anziani, in cui si deplorava l’insulto ed il male che gli aveano recato, gettando la colpa sopra i borbonici fedeli al Re. Don Liborio, da uomo politico, facea stampare quell’indirizzo nel giornale uffiziale. Il Brenier rispose all’indirizzo il 4 Luglio, e dicea: “Essere convinto del rispetto dei Napoletani al rappresentante di un Sovrano che avea compiuto fatti mirabili pel bene dell’Italia.” Brenier avea provato pure gli effetti di quei mirabili fatti compiuti dal suo padrone in Italia.

La sua testa rotta dalle mazzate popolari, ne era una mirabile prova, mai vista o intesta in que’ tempi quando ancora non si erano compiuti i mirabili fatti napoleonici in Italia. Il Ministro della guerra, Leopoldo del Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista dell’anarchia sempre crescente a causa de’ camorristi diretti e sostenuti da D. Liborio Prefetto di polizia liberale, tolse dal comando della Piazza il generale Polizzi, il quale non avea fatto impedire da’ soldati que’ baccanali; e quegli eccessi perpetrati da’ camorristi, e dal resto della bruzzaglia napoletana. In cambio nominò il Duca S. Vito, e costui proclamò lo stato di assedio. Si proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e l’esportazione d’armi e di grossi bastoni. S. Vito uomo risoluto e secondo l’ordinanze di Piazza, volea procedere al disarmo.

D. Liborio però si oppose energicamente, conciosiaché disarmando i camorristi, egli Prefetto di polizia liberale rimaneva senza armata e senza prestigio: e sostenuto come era dalla setta e da’ traditori che circondavano il Re, la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di Napoli, cioè erano costoro la sola autorità dominante. D. Liborio non contento ancora di avere a sé i camorristi, volle pure che costoro fossero riconosciuti e pagati dal Governo; di fatti ottenne un decreto in data del 7 luglio col quale si aboliva l’antica polizia, e se ne creava una nuova di camorristi, con nuovo uniforme, e nuovi principii, già s’intende.

Fu uno spettacolo buffonesco quando si videro in Napoli i camorristi dalla giaccia di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie di pubblica sicurezza, e i loro caporioni vestiti da Ispettori. Que’ custodi dell’ordine pubblico faceano paura agli stessi liberali, e molti di questi si dolsero con D. Liborio, il quale rispose di aver fatto benissimo, dappoiché i camorristi doveano essere compensati e protetti a preferenza, per la grande ragione de’ servizii che aveano resi, e di quelli che doveano rendere ancora: diversamente, si sarebbero buttati co’ reazionarii. E disse, ch’egli si augurava di fare tanti onesti impiegati governativi di que’ camorristi sino allora (che peccato!) negletti e perseguitati; ed essere suo divisamento cavare l’ordine dal disordine.

Queste massime antipolitiche ed antisociali, specialmente pel modo come l’applicava D. Liborio, erano imitate dallo stesso Ministero negli altri rami amministrativi, cacciando via gli impiegati antichi ed onesti, surrogandoli con gente o ignorante, o dubbia o disonesta. Il ministro liberale per effettuire i suoi piani di sovversione, che tendeano sempre ad abbattere la dinastia ed il Regno, indusse il Re a destituire tutti quelli impiegati e funzionarii che gli erano devoti e fedeli: ed in cambio furono innalzati uomini ignoti a tutti, solo conosciuti dalla setta.

Si videro pubblici funzionarii con missioni delicatissime, giovani imberbi, e giovani che mai aveano visitato le Università, ma invece aveano bazzicato tra bische e luoghi di corruzione; si videro innalzati a pubblici funzionari degli Speziali, de’ Parrucchieri, de’ tavernai e simile genìa, e tutti con la missione di congiurare contro il Re e contro l’autonomia del Regno. Il ministero liberale con la firma del Re, scrollò tutto l’antico edifizio, e ne ricostituì un altro con elementi anarchici tendenti ad abbattere l’augusto Trono e la dinastia.

Non dee far maraviglia dunque se in poco tempo tutto andò a rotoli, anzi dee far maraviglia che la durò per altri sette in otto mesi. E si può francamente asserire che l’antico governo resse dal 25 giugno 1860, giorno della proclamata Costituzione, al 13 febbraio giorno della Capitolazione di Gaeta, perché i soldati figli del vero popolo, e la gran maggioranza degli uffiziali, erano veramente devoti al Re, ed amavano l’autonomia del Regno.

E l’esercito napoletano avrebbe salvato trono e dinastia, anche dopo che il Re abbandonò Napoli se i traditori non gli avessero legate le mani. I soldati di guarnigione in Napoli fremevano contro la rivoluzione, ma ubbidivano. è vero che i camorristi vedendo un buon numero di soldati, gridavano: viva la truppa, ma non gridavano: viva il Re, e per questo i soldati s’indegnavano, e faceano progetti poco rassicuranti per la rivoluzione. I liberali poi aveano l’impudenza di esaltare e mettere in cielo Garibaldi sotto i baffi de’ soldati, i quali odiavano costui a morte; quindi nascea quell’antagonismo foriero di baruffe e disastri.

II 15 luglio, sorta a caso una rissa lungo la strada del Carmine, tra soldati e camorristi, quelli gridarono viva il re, questi viva Garibaldi. I soldati dopo di aver dato a camorristi una lezione alla soldatesca, corsero per la via della marina e pe’ bassi quartieri sino a Toledo, ove ruppero alcune vetrine di magazzini, e sfogarono l’ira contro i ritratti di Garibaldi, e di altri personaggi amici di costui.

Questo fatto spaventò i rivoluzionari, i quali dimostrarono un sacro orrore alla profanazione perpetrata da’ soldati, e pieni di santa indignazione, dissero: — ma sotto voce — i soldati sono reazionarii! Veramente ell’era una peregrina scoperta che aveano fatta! In Napoli era allora lecita qualunque sfrenatezza liberale, si potea dir male di tutto e di tutti, ma non era libero alcuno dir male di Garibaldi, sarebbe stato accusato come reazionario.

Si potea gridare viva Garibaldi con tutte le altre appendici, ma guai a chi avesse gridato, viva Francesco II! D. Liborio l’avrebbe imprigionato qual reazionario, qual sanfedista, qual brigante. La stampa liberale, sorta in quel tempo infamava tutte tutte le oneste riputazioni: nulla vi era di sacro: tanto che un uomo politico inglese dicea: “Se in Inghilterra vi fosse la libertà di stampa simile a quella di Napoli, la Regina Vittoria sarebbe stata detronizzata in poco tempo.”

Quella stampa liberale, oltre di essere un continuato libello famoso contro tutto quello che avea di bello e di buono Napoli ed il regno, esaltando sempre le cose del Piemonte, oltre d’infamare il Re, e far splendere le nefandezze de’ tristi, mentiva spudoratamente su di tutto.

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