Una certa idea della Calabria
Due romanzi di Mimmo Gangemi che – credo – sia già scrittore abbastanza affermato, conosciuto ed apprezzato anche al di fuori della “nostra” Calabria, mi offrono lo spunto per parlare della nostra regione. Forse dovrei ulteriormente circoscrivere l’ambito del quale intendo trattare e ridurlo alla sola provincia di Reggio, che oggi pomposamente, quanto vanamente, si fregia del titolo di “città metropolitana”. Le Calabrie continuano ad essere diverse e l’antico solco che separava le varie parti di questo estremo lembo della penisola, si è ulteriormente accentuato per cui l’unità istituzionale è solo una copertura amministrativa. Non penso, quindi, che il discorso possa essere generalizzato ed esteso automaticamente ad altre aree della regione nonostante esso tragga spunto da storie tipicamente calabresi.
I due romanzi di cui si tratta sono “Il prezzo della carne” (Rubbettino Editore, 2014) e “Il patto del Giudice” (Garzanti, 2013). In realtà il primo è la riscrittura del precedente “Un anno d’Aspromonte”, pubblicato circa vent’anni fa sempre con lo stesso editore. Al di là delle storie magistralmente intrecciate e narrate dall’A., due storie di mafia, meglio di ndrangheta, è possibile ricavare alcuni caratteri del nostro essere, della cultura calabrese, della mentalità calabrese andando ben oltre i classici luoghi comuni relativi all’omertà, al favoreggiamento, alla contiguità, o al fatalismo.
In primis mi piace evidenziare che tutta l’opera di Gangemi infligge finalmente un durissimo colpo a quella idea dominante, che va da Alvaro a Repaci fino ai più accreditati intellettuali calabresi, che ha stabilito, quasi fosse una regola aurea, che per poter conoscere realmente la Calabria occorra andare lontano poiché da lontano la si capisce meglio.
Invano Fortunato Seminara tentò di demolire questa rocciosa credenza che gli causò un “…ostinato e, per tanti versi, fiero isolamento”. (Giorgio Barberi Squarotti). Malgrado tutto, a dispetto delle molte vicissitudini, dei tanti torti subiti, dei numerosi sgarbi e perfino degli attentati, egli ribadiva, ancora una volta, il proprio amore per il paese natio e la terra di Calabria, fonte della sua ispirazione, del suo realismo e della sua “…clartè solaire et mèditèrranèenne apprise dans les classiques italiens et egalèment francais”. (Discorso del 14 maggio 1981, all’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo).
In questo suo discorso, tutto in francese, lingua che padroneggiava molto bene, Seminara ci tiene ad evidenziare le differenze tra lui ed Alvaro perché afferma:
-Alvaro, voit la rèalitè par la mediation du mythe et de la lègende; moi l’ai vue et reprèsentèe en prise directe et sans voiles…
e sottolinea che loro due non hanno abitato nella stessa regione, perché Alvaro può definirsi un emigrato “pratiquement dèracinè”, mentre lui
-…avec des racines profondèment encrèes à ma terre et un des rares ècrivains qui aient resistè dans l’enfer calabrais.
E’ vissuto e ha resistito nell’inferno calabrese! E’ una dichiarazione di amore e di odio, ma fortemente realistica e sincera. Non si tratta di privilegiare un determinato punto di osservazione, in realtà la Calabria non la si capisce se non la si guarda dall’interno con gli occhi della razionalità e del disincanto.
L’ambiente, nonostante una modernizzazione imposta dall’esterno e da un consumismo sfrenato, quindi importati, nella sua sostanza autentica rimane “desolato” e si presenta come un problema, avviato inesorabilmente verso la catastrofe. Se si continua a descrivere invece che rappresentare la realtà, si finirà per costruire una grande sovrastruttura fantastica al cui interno si è riusciti a raggiungere un amalgama che ha livellato tutto e tutti senza alcuna distinzione. Quell’idea terrificante secondo cui, in fondo, siamo tutti nella stessa barca e vogliamo tutti la stessa cosa e cioè lo sviluppo della nostra regione (i politici direbbero “il Bene” della nostra terra), ci conduce ad un conformismo di maniera, falsamente tollerante. I nemici, “i veri” nemici della Calabria, secondo questa logica perversa, sono tutti esterni e si trovano a Roma, a Milano, a Bruxelles, a Strasburgo, a Londra in tutti quei luoghi in cui il denaro “non dorme mai”.
Siamo di fronte ad una chiamata a coorte di stampo assolutamente mistificatorio, neo-corporativistico, per fare in modo che nella notte i gatti continuino ad essere tutti neri.
Se non si riesce ad individuare chi sono i veri “commedianti” e gli autentici “tragediatori”, se non si svela l’arte della mistificazione e della simulazione, allora si è portati a credere che l’apparenza corrisponda alla realtà ed invece le cose, in Calabria, non sono mai come sembrano.
L’ipocrisia, la falsità, la doppiezza, la furbizia, il doppiogioco (se non il triplo) rappresentano altrettante doti necessarie per ottenere il proprio tornaconto personale in un ambiente che per definizione viene considerato infido, avverso, ostile. Il possesso di tutte queste doti è considerato necessario per poter vivere e diventa indispensabile per chi appartiene, per famiglia o per tradizione, alla ‘ndranghita. Esse, manco fossero delle stimmate, sono impresse nell’animo del mafioso, affiorano da ogni suo discorso con naturalezza, senza alcuna esibizione, senza ostentazione; mentre gli altri questo habitus lo devono acquisire, il mafioso lo eredita.
“E’ una favola, scrive Gangemi, che gli ndranghetisti siano intelligenti, geniali, che sappiano muovere i soldi, investirli. Sanno ammazzare e basta e anche male. Il resto, gli affari glieli mette in piedi la bella gente, galantuomini accorti a non sgarrare la tonalità della cravatta”.
Sono quelli che le Procure chiamano “la zona grigia” o “il terzo livello”, gente abile, accorta, furba, gente che sa vivere, che comanda, che è in grado di muovere cose ed uomini come pedine su una scacchiera. Gente per cui non è importante il “come”, bensì è importante arrivare, trovare la propria giusta collocazione ed ottenere il conseguente riconoscimento del ruolo e della funzione che hanno meritato. La zona grigia non corrisponde ad una classe sociale e neppure ad un ceto, forse è trasversale o forse si muove in verticale ed in forma ascendente, forse non è neppure mafia nel senso tecnico del termine. Certamente non si sente tale. Quel che è certo (e dimostrabile) è che si tratta di gente cui, in ogni caso, fa comodo la mafia perché copre con delitti, ruberie, estorsioni, minacce e vendette, le turpi azioni di chi sta in alto e non si mischia con gentaglia. Di chi il crimine semmai è da considerare tale, lo commette in guanti bianchi, stando dietro una scrivania o digitando su una tastiera collegandosi con mezzo mondo. Primi tra tutti, sicuramente, volenti o nolenti, tra i più esposti in quanto necessariamente, non fosse altro per dovere d’ufficio, collocati in prima fila, sono gli avvocati.
Nel secondo romanzo, il giudice Lenzi, lucido, razionale, realista, spietato, nè da un giudizio terribile:
-…merce esposta sui banconi al mercato, in vendita”.
Si dirà, ovviamente, che non bisogna fare di ogni erba un fascio, ma ho già anticipato, e non mi ripeterò, che ci muoviamo nell’ambito della demolizione dei luoghi comuni e perciò ogni cautela deve essere bandita.
Una volta che abbiamo accettato la teoria della stratificazione sociale per “zone” o per “aree”, pensare che questi segmenti si muovano in parallelo sarebbe veramente ingenuo.
L’osmosi è così palese che l’integrazione tra le diverse zone genera una complementarietà necessaria. Nella cultura della ndrangheta l’omicidio e la vendetta restano il “chiodo fisso” perché sono parte integrante della mentalità per la riaffermazione costante del rispetto e dell’onore, cioè dell’incutere terrore.
La salvaguardia e la difesa di questi valori può essere raggiunta anche con appoggi, sostegni, comparaggi, alleanze occasionali e transitorie, senza per questo doversi contaminare o compromettere.
La corruzione dilagante fa scorrere il denaro a fiumi ed il denaro permette di cambiare l’esistenza delle persone, da prestigio e da potere, copre qualunque vergogna e permette di dare a tutto un prezzo e perciò di acquistare tutto. Tranne l’onore, affermano gli ndranghitisti. Quello è come un pugno di farina, non lo riprendi più una volta che è volato via. Per questo è necessario uccidere, veder scorrere il sangue per ricordare agli infami che non conviene fare il furbo in Calabria, che l’ingordigia non paga.
L’omertà è una virtù che tutti possono imparare ad esercitare perché essa non è una caratteristica esclusiva del calabrese. Anche al Nord si può diventare omertosi, anche gli immigrati, i clandestini, i negri possono facilmente apprendere questo comportamento da uomini d’onore, saldi nei loro principi. L’omertà non è impastata solo di paura, non si fonda sulla debolezza, non deriva dalla collusione, è una scelta razionale, è una filosofia di vita, fa parte integrante del saper vivere.
Il “saper vivere” non è semplicisticamente il saper farsi i fatti propri e girarsi dall’altra parte al momento opportuno, non è il non vedere, il non sentire e il non parlare (a vanvera), bensì è “il rispetto” dovuto a chi è forte, abile, coraggioso, intraprendente, valente. E’ il riconoscimento dovuto ad una casta che ha conquistato con le armi e con il sangue il suo spazio all’interno della società.
E’ il non intromettersi per la considerazione verso persone appartenenti ad un ceto superiore.
L’omertà non è soggezione, è una scelta che può fare solo chi non si sente accerchiato, assediato, oppresso dalla mafia, solo chi è capace di convivere con la ndrangheta perché ha stabilito un “patto d’onore e di rispetto”, merita, nonostante tutto, di continuare ad essere trattato da uomo, merita, a sua volta, rispetto.
Questo riguardo, questa considerazione, questa stima, questa riverenza, quest’ossequio, questa deferenza – perché il “rispetto” racchiude in se tutte queste cose – possono essere accordati solo a chi è portatore di valori forti quali l’onore, la forza, il coraggio, la generosità, la solidarietà, il culto della famiglia e delle tradizioni, della religiosità. A chi ha il gusto della bella vita, dell’arte, del lusso. Se, però, a tutto questo non si accompagnano l’astuzia, la sagacia e l’ingegno non si può accedere ad un empireo riservato a pochissimi eletti. Non si parla del “furbo” che può, indifferentemente, vivere o morire; vivere perché colluso e di conseguenza protetto, ma pur sempre inferiore; morire per ingordigia o per infamità. Si parla di colui che sa vivere perché è un “teatrante”, pratica l’arte della simulazione, dell’adattamento, è capace di cambiare le carte in tavola, sa quando è il momento di capovolgere la realtà come fosse una clessidra. Sono quelli che riescono a stare anche dentro l’antimafia, che si accreditano come perseguitati o come vittime, sono quelli che spronano a resistere, che organizzano convegni, manifestazioni, fiaccolate, che vanno nelle scuole ed incitano gli studenti fingendo di non sapere che anche i figli dei mafiosi frequentano i Licei. Sono quelli che, quando è venuto fuori – ma lo si sussurrava da tempo – che la mafia, in tutte le sue forme, si è installata a Nord, hanno cominciato a gridare che dunque la mafia non è solo in Calabria omettendo di dire una verità elementare, intuita dai nostri nonni già all’inizio del ‘900. Non deve destare meraviglia che la mafia sia stata esportata nel Nord Italia e nel Nord Europa, come un secolo fa venne esportata a New York o a Chicago: la mafia va laddove ci sono i soldi, gli affari, i traffici, gli intrallazzi, in una parola la ricchezza facile ed immediata.
Quei calabresi che vivono al Nord, troppo occupati a “studiare” da lontano la loro regione di provenienza, non si sono mai accorti che la mafia si era installata anche alle loro latitudini; non ne hanno riconosciuto i segni, non hanno notato le manovre di infiltrazione, chissà perché?
E’ d’obbligo osservare che se voi da lontano vedete bene la Calabria e la vedete meglio di noi che ci viviamo, com’è possibile che vi fate sfuggire la presenza della ‘ndranghita nelle vostre contrade? Quando tornate in Calabria pontificate dall’alto delle vostre cattedre, dei vostri Studi, dei vostri Uffici, delle vostre imprese di successo e ci impartite lezioni di vita e di politica a noi che siamo rimasti qui e ci “confrontiamo” tutti i santi giorni con la mafia, ci viviamo gomito a gomito ed abbiamo imparare prima ancora che a filosofare, a vivere dignitosamente e senza scendere a compromessi di sorta. Vi assicuro, non è facile; è come camminare sull’orlo di un precipizio
Voi, esperti, studiosi, cattedratici, “mafiologi” di chiara fama – esiste, se non sbaglio, una cattedra di Storia della criminalità organizzata (meno male che non è disorganizzata…) – ci ammonite, ci rimproverate, ci dettate ciò che dobbiamo fare e dire e quali comportamenti tenere, raccogliete il plauso unanime degli intellettuali e degli uomini di buona volontà, però poi ripartite per le vostre tranquille città in cui si è installata la stessa ndrangheta, composta dalle stesse famiglie, e non la riconoscete! E’ un azzardo dire che questa vostra sottovalutazione, questa vostra distrazione ha favorito ed agevolato il radicarsi e l’espandersi delle cosche mafiose nelle aree del centro e nord Italia? Volutamente lascio l’interrogativo in sospeso.
A questo punto preferisco quei calabresi da anni emigrati, che scendono in Calabria, carichi di rimpianti e di nostalgia, per informarci di quanto siamo fortunati noi che viviamo qui, di quanto sia splendido il clima, stupendo il mare, buonissima l’acqua, di quanto sia incontaminata e selvaggia la natura, di come la vita sia ancora a misura d’uomo o meglio, mi permetto di dire, a misura di ciuccio. E giù lacrimevoli discorsi su una civiltà perduta, su un’infanzia dorata e privilegiata, sul bel tempo che fu, su com’era verde la mia vallata e com’era dolce quando papà ti mandava a prendere la ricotta fresca dal massaro, che, è vero, era un mafioso, ma vuoi mettere la mafia di quei tempi? Tutti uomini d’onore.
Li preferisco, perché almeno sono innocui.
Antonio Orlando
fonte
https://www.eleaml.org/ne/attualita/ao-una-certa-idea-della-Calabria-2017.html