Una curiosa utopia sadiana

Nelle sue opere, il Marchese di Sade (1740-1814) descrive un mondo brutale, in cui dominano violenza e sopraffazione, spinte alla loro massima espressione. Esiste però un suo romanzo meno noto in cui, al contrario, descrive una immaginaria società, l’isola polinesiana di Tamoè, in cui regna una perfetta e pacifica convivenza, grazie alla costituzione imposta da un re-filosofo. Sarebbe un’utopia realizzabile?
Gianandrea de Antonellis
Il romanzo epistolare Aline et Valcour, ultimato – dopo una decennale gestazione – nel 1788[1], quando il Marchese di Sade era in carcere alla Bastiglia «schiacciato dal dispotismo ministeriale»[2] – un dispotismo così schiacciante da avergli permesso di scrivere almeno questo romanzo e Le 120 giornate di Sodoma – è incentrato sul tema dell’amore elettivo contrapposto al matrimonio di convenienza. Aline ama, ricambiata, il giovane Valcour, ma il padre della fanciulla, il presidente di tribunale Blamont, ha altri disonesti progetti su di lei. Attraverso settantadue lettere, Sade descrive i vari personaggi coinvolti nella trama: i protagonisti, Aline e Valcour, sono sostenuti da un amico di quest’ultimo, Déterville, e dalla madre di Aline, Madame Blamont, donna sensibile e virtuosa, al contrario del marito, che è invece l’archetipo sadiano dell’anti-eroe: un libertino dissoluto, un crudele materialista che ha organizzato il matrimonio della figlia con il proprio compagno di nefandezze.
Nel depravato Presidente Blamont, in grado di impegnare tutto se stesso negli oltraggi più atroci e immediatamente dopo giustificarli con cinici argomenti, Sade, incarcerato per dodici anni a causa di una lettre de cachet inviata dalla suocera, si vendica estendendo la più turpe immoralità di carattere all’intera classe della magistratura. Ecco cosa mette in bocca al giudice:
Più di venti volte nella mia vita ho dato la mia opinione a favore di un’ingiusta condanna a morte con il solo scopo di dare un esempio. […] Solo noi siamo immuni a ciò, e sai perché?… Perché abbiamo il coraggio di accusare. Così è nata un’impunità che è estremamente deliziosa per le anime come le nostre.[3]
Solo ostentando scrupolosamente tale rigidità alla morale altrui possiamo giungere ad arte a nascondere la nostra più intima depravazione. riusciamo a coprire con arte la depravazione dei nostri. Concretamente, si tratta d’ispirare rispetto: dal momento che ci è impossibile con la virtù, lo sia almeno con il rigore.[4]
Va detto che comunque Aline et Valcour è uno dei romanzi di Sade meno espliciti in materia di perversione sessuale, che viene semplicemente accennata e non raggiunge mai le dettagliate descrizioni presenti in altri suoi lavori.
A fare da intermezzo è posta la Storia di Sainville e Léonore, altri due giovani che vorrebbero sposarsi, ma sono osteggiati dalle famiglie: decidono pertanto di fuggire alla volta di Venezia, dopo veloci nozze a Lione coram nullis testibus, ma nella città lagunare la giovinetta viene rapita. Hanno inizio così i rocamboleschi viaggi di Sainville attraverso l’Europa, l’Africa e l’Oceania alla disperata ricerca dell’amata perduta.
I più interessanti elementi della vicenda di Sainville sono costituiti dalla descrizione del terribile Regno africano di Butua e successivamente della serena isola di Tamoé, nell’oceano Pacifico.
La prima è una spaventosa utopia negativa: Si tratta di un regno abitato da una popolazione dedita alla più feroce violenza, caratterizzata dal cannibalismo e dalla brutalità (innanzitutto sessuale) verso donne e bambini.
Alla ferocia africana di Butua fa da contraltare la serena utopia orientale di Tamoé. Si tratta di una società in cui l’uguaglianza e la giustizia regnano sovrani, che è in buoni rapporti con le nazioni confinanti e che sembra non aver alcunché da temere per il proprio futuro, tranne l’avidità delle nazioni occidentali pronte a conquistarla per appropriarsi dei suoi beni (in particolare dell’oro, di cui a Tamoé non è noto il valore). Qui ancora regnano virtù, prosperità e felicità (tuttavia non senza ostacoli).
Infine, prima di tornare in Francia, Sainville cade nelle mani dell’Inquisizione spagnola, dipinta al solito modo della leggenda nera, la quale farà di tutto per incriminarlo al fine di appropriarsi dei lingotti d’oro donatigli da Zamé, il re-filosofo di Tamoé.
Dopo Sainville, sarà il turno di Léonore a racconta la propria storia. Giovane intelligente e abile, dotata di un carattere fiero e deciso, deve costantemente lottare per sfuggire ai suoi molestatori, ma appare disponibile ad adattarsi alle situazioni spiacevoli in cui si trova. Nella sua odissea attraversa le nazioni più diverse (tra cui lo stesso regno di Butua) e incontra i personaggi più disparati, mentre le persone più potenti cercano di sedurla a forza; ma trova anche alcuni che la aiutano, come Don Gaspar, un gentiluomo portoghese di nobile cuore, o il bandito Brigandos, patriarca di un clan di zingari adoratori del diavolo. Non è chiaro se – nella coppia di Sainville e Léonore – Sade adombri in qualche modo quella di Justine e Juliette, anticipando così il tema della virtù punita e del vizio premiato, al centro della coppia di romanzi (anch’essi, a loro modo, “filosofici”) La nouvelle Justine ou les Malheurs de la vertu (1799) e della sua seconda parte, l’Histoire de Juliette ou les Prospérités du vice (1800), uscita in 10 volumi illustrati da 101 incisioni licenziose, grazie al quale Sade realizzerà «la più grande impresa pornografica clandestina mai vista al mondo»[5] che lo porterà altri due anni in carcere, prima di essere definitivamente internato nel manicomio criminale di Charenton.
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Aline et Valcour è l’opera di Sade dove, esposte dai suoi personaggi, possiamo trovare le più diverse posizioni filosofiche.
Come accennato, nella lunghissima lettera XXXV, intitolata Histoire de Sainville et de Léonore[6], Déterville descrive all’amico Valcour le disavventure di Sainville che, alla ricerca dell’amata consorte, attraversa vari continenti: Europa, Africa, Asia ed Oceania.
In particolare, egli si sofferma a descrivere le legislazioni opposte di due diversi regni: quello di Butua, nell’Africa centro-meridionale, brutale dominio delle più perverse passioni; e l’isola di Tamoé, nel Pacifico, idillica sintesi delle più serene visioni utopiche della Francia illuminista.
L’utopia negativa africana del tiranno Ben Mâacoro è, in sintesi, l’apoteosi della sopraffazione del più forte nei confronti del più debole. In essa viene portato all’estremo giuridico di divenire legge ufficiale del regno la bestialità consueta della visione sadiana, negli altri casi relegata alla sfera privata: anche ne La filosofia nel boudoir a Le 120 giornate di Sodoma assistiamo a una regolamentazione della perversione, ma essa avviene nell’ambito di un ben chiuso salotto oppure di un inaccessibile castello sulle Alpi, circondato d’inverno dalla neve e quindi isolato dal resto del mondo.
A Butua, invece, la violenza è legge di Stato, a partire dai sacrifici umani in onore del loro mostruoso dio uomo-serpente, e il lettore si sorbisce – elevata a norma giuridica – l’esaltazione dell’antropofagia, dell’incesto e della pederastia, universalmente praticati in quella contrada, la teorizzazione della liceità dell’omicidio (in famiglia o per i più potenti), nonché le solite teorie sulla relatività dei valori morali, sulla sostanziale equivalenza di vizio e di virtù, eccetera.
Di segno opposto – e dunque, per il lettore di Sade, quasi una novità – l’utopia positiva, la eutopia di Tamoé che, pur non essendo rara nella produzione letteraria coeva[7], al di là dell’anticlericalismo d’accatto, rappresenta un unicum nella produzione del “Divin Marchese”: la costruzione ex nihilo di uno Stato che riesca a raggiungere l’obiettivo della felicità dei sudditi, rinunciando agli interessi privati, basato su una fiducia non sulla innata bontà umana[8], ma sulla serenità che deriverebbe dalla serena convivenza.
Uso il condizionale perché le teorie del Marchese (come le tante altre simili), pur essendo assai affascinanti sulla carta, si sono sempre – sempre – rivelate false una volta applicate. Già lo stesso autore si rendeva conto che la sua utopia poteva funzionare solamente se applicata in una regione limitata e di fatto separata dal resto del mondo, dal quale sarebbe certamente corrotta, anziché essere capace di influenzare positivamente, a macchia d’olio, i vicini.
D’altra parte in tutte le utopie, dall’eponima isola ossimorica[9] di Tommaso Moro alla Nuova Atlantide di Francesco Bacone, dai mondi lunari di Luciano di Samosata a quelli polari di Margaret Cavendish o sotterranei di Giacomo Casanova, un elemento fondamentale e ricorrente è quello di essere distanti dal resto del mondo ha reso possibile lo sviluppo di questi mondi (Mercier è il primo a immaginare una utopia spostandola nel tempo – avanzando nella Francia futura di 670 anni dopo – anziché nello spazio).
Nelle sue contraddizioni, Sade – che sta criticando la società degenerata da Luigi XIV in poi, con particolare riferimento agli arricchiti che comprano cariche pubbliche (soprattutto quelle di giudici), finisce per far consistere la felicità dell’isola nel governo dispotico di un monarca illuminato, che in tanto riesce a reggere lo Stato in quanto riesce ad imporre senza opposizione alcuna la propria visione del mondo.
Con l’accesso interdetto ai “borghesi” del romanzo, Tamoé sembra dunque configurarsi come un hortus conclusus pervaso di squisita sensibilità aristocratica; più in generale, come l’ultima dimora di una diversa umanità antitetica a quella di Butua. Fra la pornoutopia e l’utopia non sembrerebbe esistere dunque alcuna continuità. Ma non è così. Dietro due differenti soluzioni politico-sociali, Sade conserva un complesso di convinzioni teorico-filosofiche profondamente omogeneo. Il paternalismo assolutistico di Zamé, a ben guardate, non è meno autoritario del dispotismo di Ben Mâacoro. Nessuno dei loro sudditi possiede una autentica e autonoma individualità. Essi non agiscono ma sono agiti. Il popolo, non meno asservito qui che a Butua, è una massa informe in attesa di un’intelligenza dirigente e ordinatrice.[10]
L’amministrazione di Zamé, basata sul comunismo dei beni e sul disgusto – anziché sul divieto – del vizio, prevede la semplicità di costumi e la massima uniformità; tra l’altro, introduce il divorzio per eliminare «quasi tutti i vizi dell’intemperanza» e, ingenuamente (ma è difficile non porsi qualche dubbio in tal senso) il legislatore dell’isola sostiene che se sarebbe riuscito nell’intento di cancellarli tutti se avesse permesso anche l’incesto e la pederastia (che invece ha preferito combattere con il senso di disgusto e di ridicolo), come se ammettere il crimine (qualunque crimine, dall’omicidio all’aborto, magari inserendolo nella propria Costituzione) servisse a eliminare il danno sociale.
Vediamo nello specifico alcuni elementi della nuova “costituzione” data (o meglio imposta) a Tamoé.
In primo luogo notiamo l’eliminazione di qualsiasi società intermedia, iniziando della famiglia: il matrimonio è infatti usato solo come metodo di procreazione (e dunque la donna è ridotta al rango di mera riproduttrice) e, appena svezzati, i bambini vengono allevati in una struttura pubblica (come nella Repubblica di Platone). Ma non è solo la famiglia ad essere azzerata (cioè limitata alla mera coppia): “coerentemente” sono eliminate tutte le altre forme di aggregazione, dall’associazione sportiva alla banda musicale, dal sindacato al gruppo di preghiera. Qualsiasi attività ricreativa viene condotta in massa (in massa amorfa, per essere precisi): dal teatro catartico alla ginnastica, come monadi intruppate, i cittadini si muovono assieme e singolarmente nello stesso tempo; la coppia (peraltro scindibile in qualsiasi momento per volontà o capriccio di uno solo dei due membri) serve soltanto alla riproduzione; per il resto lavora, passeggia o assiste alle rappresentazioni teatrali da sola o in compagnia del coniuge senza interagire con esso. Ne deriva – venendo meno una famiglia vera e propria – la mancanza di stimolo per far nascere altri tipi di aggregazioni sociali.
Lo Stato descritto (ed esaltato) da Sade è un “perfetto” regime comunista, più vicino alla Cina di Mao o alla Cambogia di Pol-Pot che all’Urss di Lenin e di Stalin, che prevedeva almeno la presenza (formale) dei soviet, i consigli di fabbrica: qui abbiano una società completamente priva di qualsivoglia corpo intermedio, senza quasi alcuna differenziazione di merito, in cui tutti portano abiti uguali ed abitano case simili; una “civiltà” i cui consumi sono forzosamente ridotti al minimo, in cui l’arte è scoraggiata, in cui a parte l’agricoltura (la pastorizia e l’allevamento sono stati eliminati e la popolazione è costretta al salutistico vegetarianismo) e qualche rudimento militare[11], sembrano essere note solo la produzione di tessuti per gli abiti e la carpenteria per la costruzione di case.
Una monotonia (che come detto si estende anche alle vesti ed alle case degli indigeni) favorita per evitare invidia e (checché ne dica Zamé) emulazione. Il tutto, ovviamente, basato sul mito del “buon selvaggio” (nonostante in un paio di occasioni lo stesso legislatore di Tamoé faccia riferimento alla «perversità naturale dell’uomo»[12]) e sulle teorie che vorrebbero l’uomo una tabula rasa, quindi naturalmente buono e guastato solo dalla società in cui è costretto a vivere.
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Un chiodo su cui Sade ribatte – da persona che si sente punita ingiustamente – è quello della materia criminale. In effetti, Sade fu imprigionato la prima volta per lo scandalo di Arcueil (1768), quando aveva “solo” frustato una ragazza; e successivamente condannato a morte in contumacia per quello di Marsiglia (1772), che lo aveva visto protagonista di un festino orgiastico (con cinque ragazze ed un valletto, il che comportò la accusa di sodomia, gravissima perché comportava la pena capitale) in cui il Marchese aveva fatto ingerire alle partecipanti alcune pastiglie di cantaridina (allora ritenuto un afrodisiaco, ma che poteva avere effetti tossici) ed esse lo avevano denunciato per avvelenamento; in entrambi i casi egli sostenne di aver ben chiarito fin dall’inizio il fine mercenario degli incontri, nonché l’intenzione di pagare le donne per i loro favori sessuali.
In queste pagine traspare quindi l’amarezza ed il livore di chi aveva passato già parte della propria esistenza dietro le sbarre (redasse l’ultima versione di Aline et Valcour appunto alla Bastiglia) e, senza sapere che vi avrebbe trascorso altri quattordici anni (dal 1801 alla morte nel 1814), si sfoga nell’immaginare uno Stato utopico che fonda il proprio sistema penale non sulla carcerazione o sulla pena di morte, bensì sulla compensazione.
Punire un criminale è del tutto inutile, mentre costringerlo a risarcire il danno è estremamente utile. Quindi, per eliminare i crimini, basta cancellarli dal codice pensale («sopprimendo la maggior parte delle vostre leggi, diminuirete necessariamente quella dei vostri crimini»[13] – e fin qui sarebbe lapalissiano), redigere tavole di compensazione come quelle presenti nell’Editto di Rotari (dunque non un inefficace occhio per occhio, bensì un ben più costruttivo denaro per occhio, a seconda della gravità del danno e della qualità della persona offesa) ed abolire la pena di morte, comminando l’esilio a chi meriterebbe la pena capitale.
Se l’attacco alle prigioni, viste – non senza un po’ di retorica – come una fucina che affina la perversione, rendendo impossibile qualsiasi rieducazione[14], è accettabile nella parte in cui sostiene che il carcere serve soltanto per il processo e che l’accusato debba essere al più presto giudicato e prosciolto o condannato, ma non tenuto a languire in una cella; l’idea che qualsiasi delitto possa essere punito con un semplice risarcimento, ripugna ad ogni logica giuridica.
Per Sade invece bisogna depennare il delitto, ridurlo a mera infrazione cancellabile con una semplice ammenda, senza tener conto della pericolosità sociale del delinquente, semmai riversandolo su un altro popolo, magari ficcandolo su una piroga con viveri sufficienti ed imponendogli di andarsene in un’altra isola, come se lo scaricare i propri peggiori criminali sulle spalle dei vicini fosse un atto degno di elogio ed indice di una civiltà superiore… C’è quindi una notevole ipocrisia nell’affermare, a proposito dell’omicida esiliato: «ho liberato la patria della sua presenza e non devo rimproverarmi la sua morte»[15].
È però lecito chiedersi: come può essere immune dai crimini uno Stato in cui praticamente tutto è permesso? Per Zamé-Sade la risposta è semplice: il furto è dovuto all’invidia ed il comunismo (e la povertà) la fanno scemare; le intemperanze sessuali sono rese ridicole o riprovevoli e così l’alto senso dell’onore degli indigeni le ha fatte scomparire. Le passioni più complesse – sostiene il re-filosofo – sono dovute al desiderio di cogliere il frutto proibito: basta renderle accessibili per farle divenire meno appetitose e, al contrario (verrebbe da dire sadomasochisticamente…), basta mettere «qualche spina lungo i sentieri della virtù e l’uomo finirà per preferirla»[16].
Sembra che il mondo di Sade (e forse è così, non soltanto nell’isola di Tamoé) si riduca a sesso, soldi e passioni (criminali e non)… Ma l’intero sistema giuridico di Zamé sembra peccare di semplicismo e di supponenza verso i legislatori europei: «voi, che potendo impedirgli [al criminale] di fare il male mutando le leggi, le lasciate invece sussistere, nonostante siano odiose, per il piacere di punire chi le infrange»[17].
Legislatori e giudici accomunati da uno stesso principio maligno di godimento nell’infliggere il male, dunque. Molto sadiano, peraltro. E alla cattiva legislazione viene affiancata l’interpretazione, ulteriore fonte di abuso:
E d’altronde, la triste facilità data al magistrato di interpretare la legge come vuole, non fa di questa legge più uno strumento delle sue passioni che un freno a quelle degli altri?[18]
Meglio quindi eliminare le leggi, almeno quelle penali, e, per evitare i delitti, far leva sull’onore. Ma potrebbe davvero funzionare così? L’onore costituisce effettivamente un valore superiore per tutti?
In realtà, fin dai tempi antichi tale qualità è stata associata solo alla nobiltà e, dai tempi di Omero (con la contrapposizione di Ulisse a Tersite) fino a quelli in cui scriveva Sade, i maggiori pensatori hanno ritenuto che l’onore fungesse da stimolo imprescindibile non per tutti, bensì solo per i nobili, come proprio negli stessi anni sosteneva il Principe di Canosa, sulla scorta di Montesquieu, autore peraltro citato per ben tre volte anche da Sade)[19]. L’errore tipicamente illuministico di Sade – ad esempio nell’affermare che la pederastia cade nel momento in cui la si ridicolizza – consiste nel voler estendere a tutta la popolazione una qualità che è propria solo di una minima sua parte, l’aristocrazia, per altro distrutta dalla politica familiare vigente a Tamoé.
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Un discorso a parte va fatto sulla religione, utilizzato come semplice instrumentum regni: nonostante, forse come frase fatta, Sade-Zamé affermi che l’uomo sia «l’immagine del Dio creatore dell’universo» e di conseguenza non sia «fatto per una simile abiezione»[20] (la prigione), la religione di Tamoé è un monismo deista cui il legislatore ha fatto approdare gli indigeni, in precedenza adoratori del Sole.
Naturalmente, nell’isola non esiste alcuna casta sacerdotale e si afferma esplicitamente la subordinazione non tanto di un eventuale clero, ma della religione stessa, agli interessi dello Stato:
Una religione è valida tanto quanto è in accordo con le leggi, tanto quanto si allea ad esse per operare alla felicità dell’uomo. […] La religione, in politica, è un’inutile ripetizione, è solo il puntello della legislazione.[21]
Ritengo che – per la mancanza di spazio adeguato – sia preferibile evitare ogni commento: per ribattere ad una simile assurdità – peraltro ampiamente condivisa nel mondo moderno – queste poche pagine non sarebbero certo sufficienti. Vorrei semplicemente notare che, con la coerenza che su questi argomenti lo contraddistingue[22], Sade va molto al di là del regalismo illuministico a lui contemporaneo, subordinando totalmente la Chiesa allo Stato dal punto di vista politico ed azzerandola sotto l’aspetto teologico.
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Infine va ricordato che paradossalmente (ma non troppo) il creatore del Regno di Tamoé, “l’uomo che volle farsi re”, giungendo sull’isola da ufficiale dell’esercito francese e sposando la figlia del re, nell’atto di mandare il proprio figlio, il futuro re-filosofo Zamé, in giro per il mondo ed illustrandogli i difetti del corrotto sistema occidentale, aveva affermato:
Amico mio, ho sempre detestato i re, e non è un trono quello al quale ho voluto destinarti, voglio che tu sia il padre, l’amico del popolo che ci ha adottati; voglio che tu ne sia il legislatore, la guida; in una parola: noi dobbiamo donare virtù e non catene.[23]
Leggendo queste parole, è difficile non pensare a quanti fieri “democratici”, un tempo sinceri giacobini e convinti regicidi – che magari si erano tatuati il motto «Morte ai re» (come si diceva avesse fatto Bernadotte) – giunto il ferreo governo del “console che volle farsi imperatore”, non disdegnarono di cingere una corona regale…
Una contraddizione ben più incoerente di quella letteraria di Donatien-Alfonse-François Sade.
Gianandrea de Antonellis
Da D.A.F. Sade, Uno stato perfetto. Il regno utopico di Tamoè, D’Amico, Nocera Superiore 2024
Si ringrazia l’Editore per il permesso di riprodurre l’introduzione al testo.
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La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja, mischiando cioccolato, caffè e latte, per stimolare, irrobustire e addolcire. La presente rubrica intende rivolgersi al lettore stimolandolo con il caffè delle considerazioni, irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto, rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.
[1] Infatti il frontespizio recita: Aline et Valcour ou Le roman philosophique. Écrit à la Bastille un an avant la Révolution de France, Girouard, Paris 1795.
[2] «Ecrasé par le despotisme ministériel», Avis de l’éditeur, in Aline et Valcour, Girouard, Paris 1795, t. I, p. X.
[3] Aline et Valcour, Parigi 1795, tomo III, lettera XXXVII, p. 35-36.
[4] Ivi, lettera XLIV, tomo IV, p. 201.
[5] «La plus importante entreprise de librairie pornographique clandestine jamais vue dans le monde». Jean-Jacques Pauvert, Sade vivant, tomo III, Robert Laffont, Paris, 1999, p. 299.
[6] La lettera prende l’intero secondo tomo (503 pagine) della edizione del 1795. All’inizio di tale lettera, l’autore avverte in nota: «Le lecteur qui prendrait ceci pour un de ces épisodes placé sans motif, et qu’on peut lire, ou passer à volonté, commettrais une faute bien lourde». Aline et Valcour, cit., tomo II, p. 1. Peraltro, a livello meramente narrativo, verso la fine del romanzo Léonore risulterà essere sorella di Aline.
[7] Cfr. ad esempio Il viaggio sotterraneo di Niels Klim, pubblicato originariamente in latino col titolo Nicolai Klimii Iter Subterraneum (1741) di Ludvig Holberg (1684-1754); l’Icosameron, ovvero Storia di Edoardo e di Elisabetta che passarono ottantun anni presso i Megamicri abitanti indigeni del Protocosmo nell’interno del nostro globo (1788) di Giacomo Casanova (1725-1798); o il più inquietante L’anno 2440 (L’An 2440, rêve s’il en fut jamais, 1771) di Louis-Sébastien Mercier (1740–1814).
[8] Anzi, si afferma esplicitamente che l’uomo è preda di passioni (cfr. Aline et Valcour, cit., III, 336, qui a p. 97) ma, proprio per questo, non è colpevole delle azioni delittuose che compie e quindi non deve essere condannato.
[9] Si noti che, a conferma dell’irrealizzabilità di Utopia (= luogo che non esiste), Tommaso Moro utilizza nomi come Raffaele Itlodeo (= raccontatore di falsità) per il narratore; Ademo (= senza popolo) per il governante di Utopia; Amauroto (= città nascosta) per la capitale; Anidro (= senz’acqua) per il fiume dell’isola.
[10] Sergio Bartolommei, Aline et Valcour. Pornoutopia e “silenzio delle leggi” nel pensiero del marchese de [sic] Sade, «Pensiero politico», IX (1976), n. 2-3, p. 468.
[11] Giusto qualche rudimento, perché l’isola è raggiungibile da un unico punto ben presidiato, mentre il resto è circondato da difese naturali che la rendono inaccessibile.
[12] Aline et Valcour, cit., III, 336, qui a p. 97.
[13] «Supprimez, en un mot, la quantité de vos loix et vous amoindrirez nécessairement celle de vos crimes». Ivi, II, p. 368, qui a p. 116.
[14] «Réduit à une solitude fatale, à une végétation dangereuse, à un abandon funeste, ses vices germent, son sang bouillonne, sa tête fermente; l’impossibilité de satisfaire ses désirs en fortifie la cause criminelle, et il ne sort de là que plus fourbe et plus dangereux». «Costretto in una fatale solitudine, a vegetare pericolosamente in un funesto abbandono, i suoi vizi germogliano, il suo sangue ribolle, la sua testa fermenta; l’impossibilità di soddisfare i desideri ne fortifica le cause criminali ed egli esce di là più furbo e pericoloso». Ivi, II, p. 338, qui a p. 98.
[15] «J’en ai délivré ma patrie, et n’ai pas sa mort à me reprocher». Ivi, II, p. 380, qui a p. 123.
[16] «[…] quelques épines dans les sentiers de la vertu, l’homme finira par la préférer». Ivi, II, p. 383-384, qui a p. 126.
[17] «Vous, qui pouvant l’empêcher de faire mal en variant vos loix, les laissez pourtant subsister, toutes odieuses qu’elles sont, pour avoir le plaisir d’en punir l’infracteur». Ivi, II, p. 362, qui a p. 91.
[18] Ivi, II, p. 356, qui a p. 108.
[19] Cfr. Antonio Capece Minutolo, Sul servizio militare dei Baroni (1796), in Saggi politici I (1796-1820), a cura di Gianandrea de Antonellis, Solfanelli, Chieti 2021, p. 78-79.
[20] «l’image du Dieu qui a créé l’univers n’est pas faite pour une telle abjection». Aline et Valcour, cit., II, p. 338, qui a p. 98.
[21] Ivi, II, p. 384 e 385, qui a p. 126.
[22] Mi permetto a tal proposito di citare il mio Sade o della coerenza, in «Veritatis Diaconia», n. 1, anno I (2015), riproposto come introduzione a D.A.F. Sade, Francesi ancora uno sforzo…, in corso di pubblicazione presso questa casa editrice.
[23] Ivi, II, p. 242-243, qui a p. 42-43. Peraltro in un’occasione Sainville, forse distraendosi, si riferisce a Zamé come «monarca» (ivi, II, p. 369, qui a p. 116).