UNA TRUFFA CHIAMATA UNITA’ D’ITALIA!
l popolo viene indottrinato fin dalla più tenera età a considerare costoro dei veri eroi, gli artisti li raffigurano esaltando il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda. Innumerevoli sono le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossa la celebre camicia rossa, altre volte si regge su un paio di stampelle come un martire.
Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi, privo dei lobi delle orecchie. E dire che nessuna raffigurazione potrebbe essere più realistica poiché al nostro falso eroe furono davvero mozzate le orecchie, la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame, si vocifera che fosse un ladro di cavalli. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Insieme a Garibaldo anche il Cavour, nella storiografia italiana, si divide la popolarità d’essere considerato tra i grandi padri della Patria. Così ha decretato l’intellighentia massonica. Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? La notte del 18 ottobre del 1853 una moltitudine di popolo si affollò sotto la casa del Conte Camillo Benso di Cavour. Quei cittadini non volevano inneggiare al loro primo ministro, volevano solo dimostrare la loro rabbia nei confronti di uno speculatore. Cosa era successo? In quell’anno i raccolti di grano erano stati scarsissimi in tutta Italia, persino nel Regno delle Due Sicilie, di solito superproduttore di tale primaria fonte di nutrimento. Ma, mentre Ferdinando II di Borbone, per calmierare i prezzi ed evitare rivolte e speculazioni, ne faceva acquistare subito grandi quantità all’estero, in Piemonte, governato dal primo ministro massone, le cose andarono diversamente. Il liberalissimo ed osannato ministro piemontese approfittò subito della carestia, fece incetta di grano a fini speculativi, riempì i granai personali anziché far sfamare i poveri. La folla inferocita, fra grida e vituperi, mandò in frantumi i vetri delle finestre della villa superprotetta del ministro speculatore che diede ordine alla forza pubblica di sparare sulla folla. Molti popolani morirono, altri furono incarcerati. Quella notte Cavour, oltre che speculatore, divenne anche assassino. Il giornale l’Indipendente ammonì il primo ministro ad aprire i suoi granai per far sfamare i poveri torinesi che lo accusavano di incetta immorale e contro legge. Il giornale fu denunciato per diffamazione e difeso dall’avvocato liberale Brofferio della Bigongia. Questi confutò davanti alla Corte le accuse dimostrando che il Cavour aveva ammassato grani, in violazione della legge. Dalla difesa fu esibito anche un atto notarile attestante la partecipazione del primo ministro al 90% delle azioni della Società Mulini di Collegno, il cui presidente, fu dimostrato, era il Cavour stesso. La magistratura era a quel tempo completamente asservita al potere politico in Piemonte e nonostante ciò gli imputati furono assolti. Angelo Brofferio così commenta la sentenza su “La Voce” del 24 novembre del 1853: <<… il conte di Cavour è magazziniere di grano e farina, contro il precetto della moralità e della legge, e sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, i telegrafisti, e gli speculatori sulla pubblica sostanza, mentre geme, soffre e piange l’università dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte e il sangue innocente sparso dal conte di Cavour nella capitale dello Stato senza aggressione, senza resistenza, per una semplice dimostrazione che potevasi prevenire, fu atto barbaro e criminoso…”. L’Indipendente fu assolto ma i morti rimasero sul selciato. Alla sua morte, ci fa sapere il De Sivo, l’onesto Cavour “…con la sua morale si fece quattordici milioni, raspati in pochi anni…” (Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner, Vol. II, pag. 420).
Ma quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato. Difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento, una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di “Unità d’Italia”, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ ordine del giorno. Dopo l’annessione, il Piemonte attuò un’opera di estensione della propria organizzazione statale, con norme e persone piemontesi, all’intero territorio del neonato Regno d’Italia, cancellando leggi ed ordinamenti secolari, smantellando più o meno coscientemente le attività economiche del sud Italia a favore di quelle del nord. Ciò provocò un improvviso peggioramento delle condizioni economiche ed un forte contrasto sociale e culturale tra piemontesi e abitanti delle regioni meridionali annesse, che venne giustificato dall’intellighenzia piemontese per l’”inferiorità” del popolo meridionale, appoggiato da tesi pseudoscientifiche del prof. Lombroso, che razzisticamente etichettò i meridionali come razza inferiore e dedita alla criminalità. Nell’opera di annichilimento culturale e sociale che avrebbe avuto l’influenza delle teorie razziste lombrosiane si giustificarono le sanguinose repressioni in atto! L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. All’inizio il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 154 anni di distanza si parla ancora di questione meridionale. Anche i più distratti scoveranno diverse analogie con quella che oggi viene invece definita questione palestinese. Stesse tecniche di disinformazione, stesse mire espansionistiche e soprattutto stesse famiglie di banchieri. Solo che un tempo gli oppressi erano chiamati briganti, oggi invece sono i cattivi terroristi.
Pino Aprile: Insomma, se ci hanno detto che il Sud, al momento dell’Unità, era povero, arretrato e oppresso e scopro che non era vera nessuna delle tre cose. Non era povero, e ce lo avevano spiegato giganti del meridionalismo, da Giustino Fortunato (alla fine, disse che si stava meglio con i Borbone), a Francesco Saverio Nitti (da presidente del Consiglio, scoprì che quando si fece cassa comune, i due terzi dei soldi all’Italia unita li aveva portati il Sud, e il resto d’Italia messo insieme provvide all’altro terzo), ad Antonio Gramsci. E lo ha ora dimostrato il Cnr, con lo studio sulla ricchezza prodotta, regione per regione, anno per anno, dal 1861 al 2004. Non c’era differenza fra Nord e Sud e ci vollero ottant’anni di discriminazione e rapina per concentrare nel meridione tutta la povertà del paese. Ma, pur nella ferocia dei tempi, la distribuzione di quella pari ricchezza era tale che mentre dal Nord si emigrava a milioni, dal Mezzogiorno no. In millenni la gente cominciò ad andar via dal Sud solo dopo l’Unità e la creazione di quella che poi fu chiamata Questione meridionale. Prima il sud era sempre stato terra di immigrazione, in cui erano arrivati popoli da ogni dove. E non era arretrato. Si usa ricordare che mentre Piemonte e Lombardia avevano una vasta rete ferroviaria, il Sud, che pure era stato il primo a far viaggiare i treni, era rimasto indietro. Un confronto disonesto: se quelle regioni del Nord non hanno sbocco sul mare, il Regno delle Due Sicilie, con migliaia di chilometri di coste, aveva programmato decenni prima lo sviluppo dei commerci via mare, dotandosi della seconda flotta commerciale del continente; Napoli era la terza capitale europea, partoriva brevetti e nuove discipline (vulcanologia, archeologia, economia politica…). Se ricordi queste cose, ti rimproverano di essere nostalgico borbonico (ma anche fosse?), monarchico (boom!), e di descrivere quel Sud bello e perduto come un Eden (Galli Della Loggia, ma non solo), mentre c’erano i cafoni, le plebi. Vero, come nelle contemporanee Parigi dei Miserabili di Hugo e Londra di Dickens. E se le altrui eccellenze fanno dimenticare le plebi, le plebi meridionali cancellano le eccellenze. Quanto all’essere oppressi (in quel Sud tomba di Pisacane, fratelli Bandiera e oppositori indigeni), Lorenzo Del Boca rammenta che a giustiziare il maggior numero di patrioti italiani non fu l’Austria, ma il Piemonte. Ai meridionali, la liberazione per mano savoiarda costò centinaia di migliaia di morti (Civiltà Cattolica scrisse: un milione), con paesi rasi al suolo e la gente bruciata viva nelle case, dopo il saccheggio e gli stupri. Tutti «briganti»!
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