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Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

Posted by on Gen 23, 2019

Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

La sera del 30 settembre 1860 Francesco Di Paola Jadopi, figlio di Stefano, 19enne fu macellato a colpi di scure e pugnale. Infine gli furono strappati gli occhi.
Cosa aveva fatto, per subire una sorte così tremenda?
Figlio di Stefano, aveva la colpa di essere il figlio di un liberale, propugnatore dell’unità d’Italia.
Ma chi era Stefano?
Il vescovo di Isernia Adeodato Cardosa, lo descrisse in questi termini: “uomo di mente elevata, di animo informato a libero sentire, di cuore nobile e retto”.
Designato dal re di Napoli Ferdinando I quale membro della Giunta Provvisoria, istituita il 9 luglio 1820; aveva il compito di esaminare tutte le disposizioni del Governo, fino all’apertura del Parlamento democraticamente eletto.
Era un aperto riconoscimento, alla sua profonda cultura, alle sue idee progressiste, avanzate, liberali.
Tra le quindici personalità più influenti del regno, figurava il suo nome nella Giunta Provvisoria voluta da re Ferdinando I. Tutti “murattiani” (liberali moderati), esclusi i rappresentanti della Carboneria.
Con il nuovo regime Costituzionale, re Ferdinando concesse libertà di stampa, per cui in tutto il regno di Napoli, si sviluppò un dibattito di alto profilo culturale, di cui il nostro, faceva parte.
Sorsero quotidiani, riviste settimanali, giornali di informazione, e discussione politica.
Re Ferdinando I consentì anche spinte autonomistiche; nella Costruzione erano previsti Consigli Comunali elettivi, come elettivi erano i membri della Deputazione Provinciale, i cui Presidenti, dovevano essere approvati dal re.
Conquiste importanti e innovative, che avevano un compito propulsore di progresso a tutto campo, nel Regno di Napoli.
C’è da dire, che i sovrani italiani, il Papa, e Vittorio Emanuele I, non videro di buon occhio la Costituzione napoletana, temendo il diffondersi della Rivoluzione, e iniziarono forti pressioni per farla abrogare.
L’Austria corse in aiuto dei sovrani (lamentatori) e il 7 marzo 1821 sconfisse l’esercito napoletano, soffocando nel sangue l’esperimento liberale, ripristinando l’assolutismo borbonico.
A Isernia, il seme liberale, continuò a germogliare nella figura di Stefano Jadopi.
Fuse nella sua persona, i principi della dottrina cattolica, con le idee laiche e liberali.
Queste due concezioni apparentemente idiosincratiche, diedero vita ad un uomo equilibrato e moderato; credente, saggio amministratore della cosa pubblica, attento ai reali bisogni dei cittadini.
Queste lodevoli qualità, fecero la sua fortuna politica da un lato, dall’altro, furono fonte delle tragedie che si abbatterono sulla sua famiglia.
Le sue idee moderate e progressiste, lo resero inviso alla classe politica, e alle gerarchie ecclesiastiche.
Cresciuto severamente dal padre, fu sempre soggetto a crisi depressive, che rendevano il suo carattere nervoso e irascibile, specie nei momenti di forte tensione emotiva.
Sposato con Olimpia de Lellis, figlia di un potente politico isernino, da cui ebbe nove figli, tra cui lo sfortunato Francesco, massacrato la notte del 30 settembre 1860.
Ottimo amministratore dei beni pubblici, fu riconfermato nelle sue cariche, anche dopo i fatti inerenti il 1860.
Nell’adempimento delle sue funzioni, ricevette grandi elogi da parte delle autorità superiori.
Ricordiamo alcuni dei suoi meriti:
dimostrò grande zelo nella campagna contro il vaiolo arabo, che mieteva vittime nelle nostre zone; ridusse le disfunzioni e gli abusi commessi dagli esponenti della Commissione Vaccinica; si rese promotore della costruzione della Strada dei Pentri “compiuta perfettamente fino alla Centrale della Provincia, che apre l’adito con più facilità agli Abruzzi”; diede un forte impulso a tutte le opere pubbliche, in particolare, alla costruzione dei Campi-santi; si oppose strenuamente, al dissennato disboscamento; aumentò razionalmente, gli addetti all’agricoltura, definiti da lui stesso: “la classe più utile della società”; riuscendo a ottenere per loro, un miglioramento di vita e di lavoro; da Sindaco lottò per l’istituzione dell’ospedale, e il già citato cimitero cittadino, dando l’incarico nel 1818 a Michelangelo Petitti, ingegnere di Napoli.
Re Ferdinando I ordinò che nella Provincia del Molise fossero costruiti tre ospedali: a Campobasso, a Isernia, a Larino. Stefano Jadopi, si occupò anche di questo; portò a compimento il lavatoio pubblico, la fontana monumentale in Piazza d’Isernia (non più esistente); costruì la strada per Castelromano, onde valorizzare e sfruttare a fini economici, le acque termali; ottenne per la città, l’illuminazione pubblica, secondo “caso” dopo la città di Napoli, capitale del Regno.
Ma i suoi generosi successi, non lo tennero al riparo dal malanimo dei suoi concittadini, a causa delle sue idee liberali.
Nel novembre 1853, si giunse alle denuncie da parte dei suoi avversari politici, che miravano all’allontanamento dell’illustre personaggio dalla città.
Iniziarono così mille difficoltà, tra cui il domicilio coatto, ma Jadopi resistette a tutte le intimidazioni e le minacce.
Eppure la piccola città era molto amata da Jadopi; infatti, benché incompleta, una breve monografia su Isernia ha dato un contributo importante alla conoscenza storica della città.
La vittima predestinata fu Stefano Jadopi, che fortemente impegnato nella causa dell’unità nazionale, ne pagò un immane prezzo.
La reazione forte, da parte della città, durò dal 30 settembre al 20 ottobre 1860.
Tristi avvenimenti, che fecero versare fiumi d’inchiostro.
Il 7 settembre 1860, Garibaldi entrò a Napoli autonominandosi Dittatore, costrinse il legittimo sovrano del Regno delle Due Sicilie Francesco II a rifugiarsi a Gaeta.
Lo stesso giorno, ad Isernia, il sottintendente Venditti, nominò Stefano Jadopi sindaco, affinché, pacificasse gli animi, e creasse un clima favorevole allo storico passaggio di regime. Ad Isernia, però gli animi erano di fuoco, capeggiati dal vescovo Gennaro Saladino.
La dinastia Borbone in città era molto amata, si ricordava infatti la visita del re Ferdinando I nel 1837.
Inoltre, la città fa sfoggio di un notevole gioiello architettonico, un palazzo costruito dall’architetto napoletano Vanvitelli (lo stesso che costruì la reggia di Caserta), donato alla figlia del re; ospitò, per un breve soggiorno, l’augusto padre.
Il vescovo Saladino, avvisò il sindaco Jadopi di dimettersi al più presto dalla carica, paventando disordini e azioni rivoluzionarie, che potevano mettere in pericolo l’incolumità dello stesso, e della sua famiglia.
L’ amore per la sua città, e l’intenzione di traghettare la stessa, il più pacificamente possibile, verso il nuovo (osteggiato) regime, fallirono miseramente, la sera del 30 settembre 1860.
Al grido di viva Francesco, morte a Garibaldi, i contadini armati entrarono in città. Agli ordini del vescovo Saladino, i contadini, dapprima assaltarono la Guardia nazionale, per rifornirsi di armi; indi si diressero al palazzo del Governo, mettendo in fuga il maggiore Ghirelli, il sottogovernatore Venditti, un drappello di garibaldini, e uno sparuto gruppetto di liberali isernini. Subito dopo l’assalto al palazzo del Governo, si diressero alle abitazioni dei liberali, mettendole a ferro e a fuoco; tra cui palazzo Jadopi. Il giovane Francesco di Paola Jadopi, fu massacrato, e la dimora saccheggiata e data alle fiamme. Sulla ringhiera del suddetto palazzo, vi furono infilzate le teste di sette garibaldini trucidati.
Il ragazzo martoriato ed agonizzante, fu imprigionato. La mattina seguente, il vescovo Saladino diede l’ordine che venisse riconsegnato alla madre, nelle cui braccia spirò, dopo alcune ore, e dopo aver vanamente chiesto asilo al nonno (tramite la madre); che rifiutò ogni soccorso, per codardia.
I disordini si protrassero fino alla mattina del 20 ottobre, quando l’armata piemontese, nella piana del Macerone, sbaragliò le truppe borboniche, e la massa dei contadini armati.
Lo stesso giorno, trionfante, entrò in città il feroce Enrico Cialdini, preceduto dalle avanguardie del generale Griffini.
Il processo per i fatti di sangue, accaduti alla famiglia Jadopi, prende il via, dopo un esposto, presentato il 25 ottobre a Napoli, dinanzi al Commissario della Prefettura Antonio Reale, dallo stesso Stefano Jadopi, dopo che aveva riunito fortunosamente, a Roma, la famiglia superstite.
Lo svolgimento del processo, si tenne a Santa Maria Capua Vetere, dopo una fase istruttoria lunga e laboriosa, durata quasi due anni, 21 mesi per la precisione.
La sentenza fu emessa il 25 agosto 1864, che condannava sostanzialmente, gli esecutori materiali dello scempio, lasciando intatti coloro che Stefano Jadopi, considerava i mandanti; nel frattempo, anche il vescovo Saladino era morto. Al danno, la beffa:
una parte della sentenza (volutamente?), era così ambigua, “rifacimento del danno” a favore della parte civile, che alla fine, Jadopi, non ricevette nessun risarcimento.
La sentenza destò clamore, e si gridò allo scandalo, sopra tutte le pagine dei giornali, varcando anche le soglie, della neonata Nazione.
Nel frattempo, morì anche la moglie Olimpia, inconsolabile dal giorno in cui le ammazzarono il figlio.
Stefano come reazione alla delusione per gli esiti del processo, si chiuse in sé stesso.
Non tollerava che, chi un tempo aveva osteggiato l’unità d’Italia, oggi si ergeva a paladino della stessa; e disgustato, si isolò sempre più, nel suo casino di campagna in contrada Selverine a Isernia.
La sua unica consolazione fu erigere a museo della reazione di Isernia, la Cappella Gentilizia di famiglia, in cui riposavano anche i resti del padre Vittorio, stroncato dal colera nel 1838. Vi traslò in seguito, anche il corpo del figlio Francesco. Tutt’intorno alle tombe, collocò grosse lastre di marmo, con incisi passi del processo, tenuto a Santa Maria Capua Vetere; e le motivazioni della sentenza. Inoltre, importanti notizie riguardanti il palazzo dato alle fiamme, nonché il suo valore economico, fino al suo atto di vendita.
Lo scopo prefisso da jadopi, era di fissare sulla pietra le sciagure che si erano abbattute sulla sua casa, a motivo della unità nazionale.
La morte, lo sorprese la notte del 19 novembre 1872 nel suo rifugio di campagna in contrada Selverine. Venne seppellito nella cappella-museo, e sulla sua tomba, aveva fatto scrivere: “Questa dimora ultimo riposo, a sé a suoi apparecchiò Stefano Jadopi, con affetto di figlio, di marito e padre.
… il saccheggio, l’incendio della casa, l’uccisione del figlio. Esule volontario, visse lontano da ogni cosa diletta, provando a vincere la nequizia degli uomini. Non vale integrità di vita, amore del pubblico bene.
Anelò liberi tempi…
Rivolse alla tomba le deluse speranze”

Fonte: Stefano Jadopi, la proprietà illuminata
Fernando Cefalogli Editore Cosmo Iannone

Lucia Di Rubbio

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