UNITA’………..
un altro articolo sull’unità da parte dal nostro biologo laborino Fiorentino Bevilacqua sulla famosa, ma per pochi intimi, Unità che non ha bisogno di commenti, va solo letto.
Era da poco passato il primo centenario dell’unità d’Italia,
A scuola, quando studiavo storia, dovevo avere, evidentemente, sussidiari (e poi veri libri di storia) che ridondavano di retorica risorgimentale. Garibaldi mi veniva presentato come un eroe, un eroe disinteressato, filantropico, altruistico (non dicevano forse quei libri che, a cose fatte, si era rifugiato a Caprera portando con sé nient’altro che un sacco di fagiuoli e pochissime altre derrate alimentari? Ma quegli stessi testi non parlavano dei prestito mai restituito, dei finanziamenti della massoneria avuti dal nizzardo e di tante altre cose simili…); Cavour: in quei testi, era descritto come un abile politico (del fatto che avesse una qualche responsabilità nei disordini scoppiati nella sua Torino per l’incetta di grano e farina avvenuta nei suoi mulini, disordini nei quali, pare, fu sparato sulla folla affamata e inferocita, non trovavo traccia in quei libri); Vittorio Emanuele II (a cose fatte avrebbe dovuto avere l’ordinale I del Regno d’Italia, ma allora questo non lo sapevo): era colui che, distante dalle cose dei comuni mortali (nobles oblige…), “prendeva atto”, qui vicino, a Teano, dell’avvenuta liberazione (liberazione !?) del popolo delle Due Sicilie. Anche lui, ovviamente, generosamente: avrebbe dovuto, infatti, spendere qui, per risollevare noi, si diceva, parte della ricchezza prodotta dal suo popolo, nel suo Regno. E, se così fosse stato, non sarebbe stato quello, un atto di generosità con pochi eguali nella storia? Se così fosse stato, sì; ma così non erano andate le cose; ma questo, quei libri, non lo dicevano.
Sentivo, però, che uno zio di mio padre, un fratello di mio nonno, classe 1880, spesso canticchiava un motivetto facilmente orecchiabile: sulle note di quella che poi scoprii essere la marcia dei bersaglieri, profferiva parole di oltraggio nei confronti dell’eroe dei due mondi.
Ohibò: non me lo spiegavo!
Come era possibile, riflettevo più tardi negli anni, che uno come lui, uno “vecchia maniera”, uno rispettoso di ogni autorità, di qualsiasi simbolo del potere costituito, dileggiasse l’eroe che ci aveva liberato dalla miseria (dicunt!), dall’oppressione dei Borbone (narrant!)?
Non me lo spiegavo, perché non coincideva con quello che a scuola mi avevano insegnato, con quello che sentivo e vedevo intorno a me a che avrei visto per tanti anni ancora … senza contraddittorio alcuno.
Chi gliela aveva insegnata quella canzoncina? Chi l’aveva composta, e perché?
Non lo sapevo.
Più tardi, mio padre mi raccontò che suo nonno, classe 1860, il padre di suo padre e dello zio che mi appariva, per quello che allora sapevo, come un “dissacratore”, aveva avuto un incontro con i Briganti.
Lo diceva e mi sembrava di cogliere nella sua narrazione qualcosa di strano. I briganti, si sa (…!?), erano tutti cattivi, malfattori, dei poco di buono in somma. Ma lui, nel raccontarmi quell’episodio, non se ne vergognava. Non c’era vergogna, non abbassava la voce come si fa quando si racconta qualcosa di disdicevole, di imbarazzante, quando si dice di cose che sarebbe stato meglio non fossero mai avvenute: c’era, anzi, quasi orgoglio nei suoi toni … Anche questo, fanciullo cresciuto dalla Scuola di allora a Viva VERDI e a Grida di dolore che prima (prima!?) del 1860 si levavano, dicevano, da ogni parte d’Italia (tranne che dal Piemonte!), anche questo non me lo spiegavo.
Il mio bisnonno veniva mandato nei boschi a pascolare il gregge di pecore della famiglia. Un giorno tornò a casa mostrando una manciata di monete. Evidentemente dovette essere quasi aggredito dai suoi genitori, ora in difficoltà, probabilmente, ma onesti e nati “sotto” i Borbone, durante il regno di SM Ferdinando II, in un periodo in cui erano gli Svizzeri che venivano qui da noi, quando il Salernitano era la Manchester delle Due Sicilie, quando Londra mandava alla Zecca di Palermo le sue monete per farle controllare, quando il Piemonte acquistava da noi le sue prime sette locomotive e non dal confinante Gran Ducato di Toscana (segno che le nostre erano migliori), quando Nicolò Miliani, in Alta terra di Lavoro, zeppa di opifici tessili e cartiere, si stupiva nel vedere fogli di carta “grandi come lenzuoli”, fogli che loro non riuscivano a produrre, quando il Times lo si stampava sulla carta prodotta in quella che poi, con dileggio, sarebbe stata chiamata “Ciociaria”, quando i Cantieri navali di Castellammare erano i più grandi del Mediterraneo e rivaleggiavano con quelli di Anversa … etc.etc.etc.
Il bisnonno raccontò che mentre era a guardia delle pecore che pascolavano a qualche miglio dal folto bosco di Vallemarina, arrivarono diversi cavalieri con le cavalcature lanciate al galoppo furioso. Lo videro e si fermarono bruscamente: non doveva essere messo bene perché uno di loro, probabilmente il capo del gruppo, gli chiese cosa stesse facendo e da dove veniva. Senza neanche attendere risposta si chinò e gli diede le monete che aveva con sé al ritorno a casa: “Tieni – gli aveva detto quell’uomo – e di’ a tuo padre che ti compri le scarpe e dei vestiti nuovi”. Detto questo i cavalieri ripresero la corsa lanciandosi ventre a terra in direzione del bosco di Vallemarina, a quell’epoca abituale rifugio dei Briganti. Avevano i cappelli a punta e dei grandi fucili – così li descrisse il mio bisnonno – … e a Vallemarina, dalla cui fitta vegetazione si poteva raggiungere in pochi minuti il confine dello Stato Pontificio, a quei tempi non ci andavano né le milizie della Guardia Nazionale né l’esercito Piemontese. I Gattopardi, oltretutto, i Calogero Sedara del posto, a quei tempi si tenevano ben lontani dai boschi…perché non si sentivano sicuri neanche in paese, da dove riuscivano comunque, affamando i contadini, ad organizzare l’acquisto delle terre destinate dai Borbone agli usi civici.
Allora cominciai ad avere gli elementi per capire: i nonni dello “zio”, quelli nati durante il regno di SM Ferdinando II, avevano vissuto il prima ed ora, conoscendo la miseria, le ristrettezze, le umiliazioni del “dopo Borboni” (condizioni che avrebbero di li a non molto costretto un popolo che mai aveva emigrato, ad abbandonare in massa le terre che occupavano da centinaia di anni) non potevano non vedere nel biondo nizzardo altro che lo strumento grazie al quale era stato operato l’infausto cambiamento (infausto per noi, si intende, strumentalmente solo per noi).
Probabilmente sapevano della sorte toccata a Pontelandolfo, a Casalduni e ad altre decine di paesi messi a ferro e fuoco dalla truppa piemontese, dai bersaglieri di allora: l’eco di avvenimenti tanto drammatici e spaventosi doveva essere arrivata anche qui, dentro la caldera sommitale del vulcano spento. E chissà che l’eco confusa non fosse peggiore della chiara consapevolezza…
Loro, dunque, non potevano non dileggiare Garibbaldo e loro, i loro figli, i loro nipoti…certamente non avrebbero festeggiato nessuna ricorrenza che avesse avuto a che vedere anche lontanamente con gli episodi … cosiddetti unitari.
Come dar loro torto? Se le cose fossero poi cambiate, se la gestione fosse diventata veramente unitaria e diversa, quindi, da quella dei primi anni, se fosse cambiato il programma unitario che ispirò i …padri fondatori, forse anche noi, oggi, potremmo non disertare i festeggiamenti.
Ma nulla è cambiato, anzi: pare che quel Programma prenda nuovo vigore.
Ed è per tutto questo che io, dunque, non festeggio.
Non sapendo, forse avrei festeggiato; ma so, e quindi, per me, che a festeggiare siano i … fratelli dal Tronto in su: loro sì che ne hanno ben donde.
Ah, mannaggia a marina…
Fiorentino Bevilacqua