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Uno scrittore antimoderno:Enrico Annibale Butti

Posted by on Gen 19, 2022

Uno scrittore antimoderno:Enrico Annibale Butti

Enrico Annibale Butti! Chi era costui?

A 150 anni dalla nascita (e a poco più di 100 dalla morte) chi ricorda più il nome e le opere del milanese E. A. Butti (così si firmava), nato a Milano il 19 febbraio 1868, ivi morto il 25 novembre 1912?

Eppure ai suoi tempi era una personalità di spicco, un autore di successo, un drammaturgo famoso come Gabriele d’Annunzio, con il quale condivideva la casa editrice (la Treves di Milano) e anche la compagnia teatrale (quella con la celeberrima attrice Irma Gramatica, la quale nel 1904 interpretò Mila di Codra ne La figlia di Iorio, il dramma più noto di Gabriele d’Annunzio, e qualche mese dopo fu Elisabetta Giustieri, la protagonista di Fiamme nell’ombra, il capolavoro del drammaturgo milanese). Ma, un secolo dopo, E. A. Butti non è altro che una breve voce nelle enciclopedie…

Eppure si tratta di uno scrittore affascinante, capace di muoversi, nella sua pur breve vita (morì di tisi a poco più di quarant’anni) in maniera decisamente controcorrente.

Autore di tre romanzi, L’automa (1892), L’anima (1894), L’incantesimo (1897); di poesie, di racconti – tra cui L’immorale (1894) – ma soprattutto di una ventina di drammi, lavori sempre rappresentati appena terminati (con l’eccezione de Il castello del sogno, più un poema drammatico che un dramma in versi, terminato nel 1910 e portato in scena solo postumo), nonostante il buon successo di alcune sue opere dopo la morte egli venne inesorabilmente dimenticato: ebbe forse il torto di operare a fianco di due giganti del palcoscenico, quali d’Annunzio e Pirandello, che finirono inevitabilmente per schiacciare lui e gli altri numerosi autori vissuti in un epoca in cui il teatro viveva l’ultima sua grande fase creativa e soprattutto vitale, producendo – prima dell’avvento del cinema e della televisione – a ritmi ai nostri giorni impensabili.

Ma fu dimenticato soprattutto per il fatto di essere profondamente “antimoderno”: nelle sue opere sono ritratti – e dileggiati – anarchici, utopisti, atei, socialisti, comunisti, femministe… Quanto basta perché egli venisse volutamente lasciato nell’oblio nel secondo dopoguerra, mentre il Fascismo – pur non avendo potuto Butti conoscerlo per ragioni anagrafiche (era morto nel 1912) aveva invece cercato di valorizzarlo, pianificando la pubblicazione delle sue opere in due volumi con una edizione popolare impaginata in maniera da poter essere “sciolta” in vari sedicesimi ed utilizzata dalle compagnie teatrali.

Passiamo velocemente in rassegna alcune sue opere: ne Il frutto amaro (1892) si attacca la morale libertina del libero amore; ne Il vortice (1892, peraltro con un finale irrisolto che anticipa addirittura Pirandello!) si critica la società dei consumi (il “vortice” del titolo è quello delle spese in cui si lascia travolgere il protagonista); ne La fine di un ideale (1900) si distrugge il femminismo; in Lucifero (1901), l’ateismo; in Tutto per nulla (1906), si osservano gli effetti di una educazione “libera” (va bene aver rigettato l’educazione di vecchio stampo, ma poi non lamentiamoci se il ragazzo, divenuto adulto, si dà a tutti i vizi possibili!). La corsa al piacere (1900) smaschera l’ipocrisia di un libertino che, guarda caso, è un deputato socialista; mentre ne Il gigante e i Pigmei (1903) e in Intermezzo poetico (1905) si dileggiano ferocemente gli intellettuali da salotto…

Più decisamente politici sono i drammi Una tempesta (1903) – che Giosuè Carducci, contro le proprie abitudini, accettò che gli venisse dedicata, e ciò dimostra la fama raggiunta al suo tempo da Butti – in cui si stigmatizza la violenza delle cellule comuniste; L’utopia (1894), che ha al proprio centro il libero pensiero, l’ateismo, il libero amore – in una parola la rivoluzione – tutti puntualmente stroncati; e Sempre così  (1911), in cui si prendono di mira i radical-chic :il protagonista è un Duca, diventato deputato socialista, che vive nell’avito palazzo, servito da camerieri in redingote e guanti bianchi e che, per dimostrare il proprio attaccamento agli ideali progressisti, ostenta un busto di Marx… tra due antiche armature!

Ce n’è quanto basta perché la società “democratica”, quella “nata-dalla-resistenza”, fatta appunto di libertini, comunisti, socialisti, femministe etc., preferisse evitare di riportare sulle scene un tale autore.

In compenso, nulla ci vieta di leggerlo: recentemente è stato ripubblicato il suo principale romanzo politico, L’incantesimo (1897 – adesso ristampato da Solfanelli, Chieti 2017). Si tratta di una sorta di ideale continuazione – calata nella vita quotidiana – del dannunziano Le vergini delle rocce (1896), a sua volta il capolavoro politico del vate, con il tentativo di ripristinare un regime aristocratico, spazzando via i cascami dell’Italietta liberale fin de siècle.

Seguendo le vicende e i pensieri di Aurelio Imberido, conte decaduto ma molto attivo, monarchico, elitario e fieramente antidemocratico (non accetta il suffragio universale ed il fatto che «due di quei malviventi, purché sapessero scombiccherare il loro nome, pesino più di lui sulla bilancia della Democrazia»), Butti riesce a realizzare un romanzo ideologico affascinante, perché allo stesso tempo, oltre che affrontare profondamente alcune importanti problematiche politiche (il peso della massa, che allora stava prendendo piede; la forza del potere economico, rappresentata da un odioso avvocato socialista di origini ebraiche; la difficoltà delle élites aristocratiche di imporsi sull’oligarchia borghese: in una parola, la “lotta del sangue contro l’oro”) riesce ad essere nel contempo anche un vero capolavoro di introspezione psicologica, attento com’è a seguire tutti i moti dell’animo del protagonista.

«Combattere per un’idea, o sia pure per un sogno». Questo, in sintesi, il nucleo de L’incantesimo di Enrico Annibale Butti, un autore che merita di essere riscoperto e rientra, a pieno titolo, tra gli autori (e sono tanti) che possono essere definiti di “Destra”. E che perciò devono subire l’ostracismo degli intellettuali à la page

Gianandrea de Antonellis

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