Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

USI E COSTUMI DI NAPOLI E CONTORNI

Posted by on Dic 11, 2021

USI E COSTUMI DI NAPOLI E CONTORNI

MOLTE collezioni di costumi si pubblicano tuttodì in Napoli, ma non vi è stato ancora alcuno che ne abbia falla un’opera compiuta, (aggiungendo a ciascun costume o scena popolare una corrispon- dente descrizione atta ad illustrarla. G però, volgendo in mente da qualche tempo il pensiero che un’opera di tal genere avesse dovuto riuscir gradita sì a’ napolitani che agli stranieri, mi animai a fare quella che offro al cortese lettore. —Essa contiene tutti quegli usi, costumi o scene popolane che, in Napoli e nei suoi contorni, si ren- dono affatto originali della nostra nazione, lasciando stare qualun- que subbietto potesse avere alcun che di comune co’ costumi degli altri paesi stranieri.

Ma per quanto facile mi sembrava a prima vista questa impresa, la rinvenni altrettanto ardua e difficile quando posi mano all’opera; dappoiché per illustrare i nostri costumi in maniera da farsi chiara- mente e con tutta verità comprendere, massime agli stranieri, non poca fatica è costata si a me che a’ collaboratori miei per isvelare, con l’aiuto della storia o della tradizione, la origine di un uso; per narrare donde sia derivato un per descrivere la vita che mena il lazzaro o la donnicciuola; per dilettare col racconto di una di quelle tante scene popolari che ad ogni momento vediamo accadere in- nanzi a’ nostri propri occhi; per dire in qual modo si esercitano da taluni del basso popolo de piccoli mestieri delle industrie tutte par- ticolari, tutte proprie della nostra bella Napoli; e perché infine l’opera avesse il doppio scopo d’istruire e dilettare nel tempo stesso. Oltre a ciò, se la parte letteraria offriva tante difficoltà, non minori se ne presentavano per la parte artistica, avendo io in mente di pubblicare una collezione di costumi che dovesse superare tutte quelle che già erano state fatte in litografia e col bulino; ma, coadiu- vato dall’egregio amico mio sig. Filippo Palizzi, non che da altri buoni artisti di questa capitale; ed affidata la cura delle incisioni al chiaro sig. Francesco Pisante, mi accinsi coraggiosamente a comin- ciare questa opera. E stimando poi che noiosa avesse potuto riusci- re scritta da un solo, credetti valermi de’ migliori nostri scrittori, che avevano più rinomanza in tal genere e che potevano variare nel- la leggiadria dello stile a seconda del soggetto che s’imprendeva a trattare.

L’opera dunque contiene 100 costumi incisi acqua forte e dili- gentemente coloriti, con la corrispondente illustrazione, di cui cin- quanta sono in questo primo volume e cinquanta nel secondo. Inol- tre ò fatto precedere all’opera un breve cenno su Napoli, affinché il lettore si formi una idea generale della città di cui s’imprendono a descrivere gli usi ed i costumi.

Quindi io non ò risparmiata né cura, né spesa acciò l’opera intera riuscisse utile per la parte letteraria, bella per la parte artistica e di lusso per la edizione, ond’è che spero i cortesi leggitori le facciano buon viso, e condonino qualche piccola cosa che avesse potuto sfug- gire nel dare alla luce un’opera affatto originale, e che può dirsi la prima in tal genere.

L’Editore proprietario

FRANCESCO DE BOURCARD

A provincia di Napoli si divide in quattro distretti, di Napoli, cioè, Casoria, Pozzuoli e Castellammare. Napoli, ch’è il capoluogo della provincia, contava nel 1851, secondo l’ultimo lavoro del censimento, una popolazione di 418, 347 anime e 90, 278 ne contava il rimanente

del distretto; Casoria faceva 126, 546 anime, Pozzuoli 68, 659; e Ca- stellammare 153, 170. —Or siccome nel corso di questa opera si parlerà particolarmente dei contorni della provincia, cosi ci limiteremo a fare superficialmente una breve descrizione di tutto ciò che può riguardare la città capitale, toccando soltanto di quelle cose che più sieno degne della osservazione di chi prenderà a leggere questa opera, nel fine di potersi formare quasi di volo una idea della città di cui ci è venuto in mente descrivere i particolari costumi.

Napoli è posta al grado 11. 55’45” a levante del meridiano di Parigi, ed al grado 40. 5147’di latitudine, osservata dalla reale Specola. —È di- sposta a guisa di anfiteatro, sopra di un cratere che sembra quasi chiu- so dalle isole di Capri da una parte, e di Procida e d’Ischia dall’altra.

La prima al mezzogiorno di Napoli n’è distante 17 miglia e 15 l’ulti- ma; il cratere à 73 miglia di circonferenza dal capo di Minerva alla pun- ta di Posillipo, e le aperture che lasciano le dette isole inno,

la prima dal capo di Minerva a Capri 3 miglia, e l’altra da Capri ad Ischia 14 miglia. A Napoli dappresso scorre il Sebeto

Quanto ricco d’onor povero d’onde

come disse Metastasio. —Ad oriente si eleva isolato il Vesuvio, il quale ampiamente compensa i piccoli e passaggieri nostri terrori con lo spettacolo magnifico e sublime delle sue eruzioni, i guasti parziali con la fertilità che spande ad esso d’intorno, [‘aspetto terribile e minaccioso di pochi istanti con le perenni sue bellezze e con le contemplazioni che fa nascere nel filosofo. A vista di Napoli, all’est, quasi tra loro concate- nati veggonsi a’ suoi piedi i bei villaggi di Portici, di Resina, delle due Torri del Greco e dell’Annunziata con gli avanzi preziosi di Ercolano e di Pompei; all’ovest il colle di Posillipo con le tombe di Virgilio e di Sannazzaro, il capo Miseno, non che le isole d’Ischia, di Procida e di Nisida. Da lontano si vede la catena degli Appennini, di cui un braccio circondando il Vesuvio si distacca per abbracciare parte del cratere di Napoli verso il capo Minerva. Sopra questo braccio di rimpetto a Napo- li sono Castellammare, Vico, Sorrento e Massa, villaggi amenissimi ove trovansi magnifiche case di diporto, ridenti colline coperte di vigneti e deliziosi boschetti.

Questo paese, si rinomato per la dolcezza del clima, per la  fertilità del suolo e per la bellezza delle situazioni che vi s’incontrano a ciascun passo, à un suolo per lo più sovente calcareo, argilloso per strati e sab- bioso lungo le coste, fedi natura vulcanico e di una estrema fecondità. Le lave, le ceneri, le acque e i vapori solforosi vi s’incontrano ad ogni passo. Esso fu frequentemente danneggiato da eruzioni; e nell’anno 79 dopo Gesù Cristo, Ercolano, Pompei e Stabia furono sepolte sotto le lave del Vesuvio: nel 1558 il Monte Nuovo usci con la subitanea esplo- sione di materie vulcaniche: la solfatara non è che un vulcano estinto; e la Torre del Greco è stata rifabbricata più volte sopra le rovine del paese distrutto dalle lave del Vesuvio: pur nulladimeno non troverete angolo del mondo cosi popolato come le falde di questo nostro amenissimo vulcano.

In Napoli il cielo è quasi sempre puro e sereno: l’aria vi è salubre e libera, e non vi si sentono mai gli estremi del caldo e del freddo: nulla si può immaginare di più delizioso quanto una bella giornata d’inverno a Napoli. Questo sito, in cui la natura fa mostra di tutte le sue bellezze,

CENNO SU NAPOLI VII

questo cielo che à una sembianza si ridente ed una quasi perpetua dolcezza di stagioni, questi elementi diciam cosi si docili, che espongono gli abitanti a minori bisogni della vita, se non sempre formano le anime forti e pazienti, danno però grande energia al cuore, ed eccitano una felice illusione alle facoltà dell’anima. Egli sembra che qui più che altrove si creano gl’ingegni per la musica, per la pittura, per la poesia.

La origine di Napoli è cosi antica che si perde nella oscurità delle fa- vole e della più remota età. Tutta l’antichità è d’accordo che una Sirena detta Partenope avesse edificata su questo lido una città dandole il suo nome. Ma chi erano coteste Sirene? La stessa antichità non ce ne lascia che idee stravaganti e contraddittorie. Secondo alcuni questa Partenope vuoisi figliuola di Eumelo, conduttore di una colonia Fenicia, ma  più verisimilmente fu costei qualche principessa, o piuttosto figura di un paese delizioso, abitato da un popolo pieno di spirito, renduto molle dalla ridente amenità del cielo e dall’abbondanza del suolo, e però de- dito fuor di modo al canto, al giuoco, agli spettacoli, alla crapula. In fatti gli abitanti in ogni età sono stati tratti dall’ozio e dai divertimenti  e corrivi agli eccitamenti di allegria e di piacere. Gli antichi scrittori ci àn tramandato che due colonie erano state condotte a Napoli, cioè la Cumana e l’Attica; ma Martorelli à creduto trovare una colonia più an- tica, cioè la Fenicia. Livio poi à detto che sotto lo stesso cielo vi erano due città, abitate da uno stesso popolo e dette Mepoli e Napoli.

Napoli (città nuova) fu così detta, per quanto si crede, allorché ven- ne la colonia Ateniese; e quindi Partenope fu naturalmente chiamata la città vecchia, ossia Palepoli: nella riunione delle due città prevalse il nome di Napoli; e nell’antichità non viene conosciuta che come città greca..

È stata Napoli una delle più antiche repubbliche d Italia, molto anteriore alla stessa città di Roma. Essa non fu bellicosa e non fu che la  sede delle arti e dei piaceri. I Romani, che ridussero tutte le città df Ita- lia sotto il loro giogo, furono moderati e generosi verso Napoli, forse per meglio godere del suo soggiorno: rimase dunque libera e loro alleata, somministrando però in tempo di guerra galee, marinari, soldati e danaio. Divenuti i Romani padroni del mondo allora conosciuto, i più ricchi concorrevano a Napoli per vivervi con libertà, per apprendervi le scienze, per ricuperarvi la sanità e vi solevano tenere modi di vivere  alla greca: essi la chiamarono dolce, ridente, seduttrice, favolosa, dotta, oziosa. Augusto  la  favorì e la protesse.  Virgilio vi apprese il buon gusto.

L’imperator Claudio dimorò in Napoli come un particolare e vesti  alla greca con tutta la sua famiglia. Nerone venne a Napoli per darvi prova di esser valoroso poeta, e per farvi ammirare il suo canto. Tito ed Adriano non isdegnarono di esercitare a Napoli le cariche di Arconte e di Demarco. L’imperatore Commodo vi fu nominato decemviro quinquennale. Fu celebre il ginnasio napolitano pe’ giuochi, e venne frequentato da quasi tutti gl’imperatori che precedettero Costantino. Essendone stato rovinato il magnifico edilìzio per un tremuoto, venne riedificato da Tito. La repubblica di Napoli possedeva Capri, che Augu- sto prese per sè, cedendole in cambio l’isola d’Ischia. Da Napoli e da Velia i Romani tiravano le sacerdotesse di Cerere. —Sebbene Napoli fosse una città greca df lingua, di governo e di costumi, tuttavia vi abi- tavano molti Campani. Ricusò la cittadinanza Romana, quando con da legge Giulia nel 663 di Roma si ammisero a tale prerogativa i Latini e di Socii; e conservando cosi la sua libertà e la sua indipendenza, gli esuli Romani vi trovavano ricovero. Ma col commercio del popolo do- minante, come era inevitabile, essa ne acquistò a poco a poco i costumi e la lingua. Napoli con tutto ciò fu oziosa e pacifica per tutto il tempo che durò l’impero Romano di Occidente: le vestigia del grecismo vi si conservarono fino a re Angioini. —Nel declinare dello impero Romano Napoli si distingueva ancora per la palestra, pel ginnasio, pel teatro, per le terme, per gli spettacoli e pel portico delle pitture descritto da Fi- lostrato. Cassiodoro ne parla al conte che doveva governarla come di un paese popolatissimo ed estremamente delizioso. — Caduto l’impero Romano Napoli incorse nella sorte generale di quasi tutte le città d’lta- lia; fu travagliata dalle armi straniere e lacerata dalle interne discordie. In uno de’ suoi vicini castelli detto Lucullano, nel 476 si ritirò Augusto- lo ultimo imperatore Romano, dopo che fu detronizzato da Odoacre re degli Eruli. Napoli soffrì il giogo di questo barbaro. Quando i Goti se ne fecero signori era Napoli. una città grande e ben fortificata. Essi la go- vernarono per mezzo di un conte, ma s’ignora la forma del suo gover- no. Belisario, generale dello imperadore Giustiniano, l’avrebbe inutil- mente assediata, se non si fosse trovata la maniera d’introdurvi i solda- ti per un acquidotto sotterraneo, onde fu presa nel 536. Napoli fu quin- di governata da’ duchi che si mandavano da Costantinopoli. Con tutto  il disastro sofferto da Belisario, ne furono le mura riedificate ed am- pliale nel 542, e fu in istato di sostenere un assedio contro Totila re de’ Goti. Fu costretta rendersi per fame nel 545, ma Totila la trattò con umanità, contentandosi solamente di farne abbattere le mura. Essendo caduto il regno de’ Goti in Italia con la venuta di Narsete, si fece costui padrone di Napoli nel 555, e la nostra città fu soggetta agli Esarchi, che furono stabiliti a Ravenna Panno 567. Narsete, veggendo diminuito il suo potere dall’autorità di codesti esarchi, invitò per vendetta i Longobardi alla conquista d’Italia.

Fondarono questi barbari nel 568 un potente regno in Italia, ma non possederono Napoli. Gl’imperadori di Oriente vi mandavano i duchi a governarla in loro nome: tuttavolta ella ostentava un’immagine di re- pubblica sotto la loro protezione, poiché veggiamo che in questi tempi batteva moneta, e che aveva i propri magistrati e le proprie leggi. Se- condo Giovanni Diacono nel 751 cominciarono i duchi eletti dal popo- lo, senza dipendere da Costantinopoli: essi non erano che capi di un governo libero e prendevano il titolo di consoli e di duchi di Napoli. Estesero anche per qualche tempo la loro autorità sopra i ducali di Sor- rento e di Amalfi, Furono rifatte le mura di Napoli, per difendersi da’ Longobardi, i quali invano l’assediarono nel 581. Tuttavia i primi Longobardi Beneventani la resero loro tributaria nell’830, e nel 1027 il principe di Capua Pandolfo IV se ne fece signore; ma dopo tre anni Sergio duca di Napoli con l’aiuto de’ Normanni ricuperò il suo  ducato, —Le invasioni de’ barbari e le calamità della guerra resero Napoli igno- rante e tapina. Nulla vi è restato della sua antica magnificenza prima de’ Romani, ed appena pochi ruderi delle opere costrutte sotto di essi, cioè l’acquidotto detto de’ Ponti rossi, le colonne avanti la porta della chiesa di S. Paolo e pochi resti del teatro nel luogo detto l’Anticaglia. — 1 nostri paesi erano allora divisi in piccioli principati, dove il papa ed i due imperadori di Oriente e di Occidente volevano dominare. Siffatta situazione favorì le conquiste e lo stabilimento de’ Normanni. Napoli nel 1139 si sottomise a Ruggiero re di Sicilia, come avevano fatto tutte le città del regno. Il re Ruggiero venne in Napoli nel 4140, ed avendo fatto misurare di notte il circuito delle sue mura, le trovò essere di  2363 passi, cioè meno di due miglia e mezzo. In questo tempo finisce la storia particolare di Napoli e si confonde in quella di tutto il regno.

Una parte interessante della storia particolare di Napoli saranno sempre le ampliazioni che à ricevute in diversi tempi, finché è giunta nello stato in cui oggi la vediamo.

La sua prima ampliazione fu l’unione di Napoli con Palepoli, ossia Partenope; una seconda n’ebbe da Augusto, il quale più probabilmente ne rifece solamente le mura e le torri; ed una terza si crede dal Pontano accaduta al tempo di Adriano, ma non adduce veruna positiva  autorità

della sua asserzione. L’imperadore Valentiniano, per quanto si ritrae  da una iscrizione, le aggiunse nuove fortificazioni ed altri ingrandimenti ebbe sotto i duchi dalla parte del mare. Fu poi maggiormente ampliata da Guglielmo 1 figlio di Ruggiero II, e la città acquistò nuovo lustro e fortuna sotto l’imperatore Federico II, non che sotto Carlo 1 di Angiò, Carlo 11, Giovanna 11, Ferdinando I d’Aragona, che vi stabili le arti della seta e v’introdusse la stampa. Sotto Carlo V, il viceré Pietro di Toledo dilatò le mura di S. Giovanni a Carbonara fino alla collina di S. Eremo e da qui fino a Castelnuovo. Con 1 acquisto che si fece di un pro- prio Sovrano nel 1734 Napoli divenne la città principale d’Italia per popolazione, per ricchezze e per comodi della vita; e però non pochi ab- bellimenti e non poche opere di pubblica utilità furono mandati a fine sotto il re Carlo Borbone, e durante il regno di Ferdinando suo figlio; e moltissime ora se ne sono fatte e se ne fanno sotto quello del provvido re Ferdinando li che felicemente ne regge.

Il governo civile e municipale di tutta la città si divideva prima in 29 piazze o seggi, che poi vennero ridotti a sei, cioè cinque pei nobili ed uno pel popolo: ora si divide in dodici ottine o quartieri e sono: — S. Ferdinando Chiaia — 5. Giuseppe Montecalvario Avvocata Stella Vicaria—Pendino — S. Lorenzo Porto Mercato e S. Carlo all’Arena.

Formano bella una città le strade, le piazze, il lastricato, gli edifizi, gl’ingressi. La nuova e la vecchia città presentano nelle strade due op- posti estremi. La prima à molte strade eccessivamente larghe e piazze poco belle ed opportune; la seconda, strade strettissime e piazze piccole e de ” formi. Questo disordine è comune a tutte le città antiche, che han sofferto gran cambiamenti di stato e grandi vicende, e che in diver- si tempi sono state riparate ed accresciute.

Le strade di Napoli, oltre all’essere in gran parte irregolari, anguste e senza proporzione con l’altezza degli edifizi, non sono tutte ben livellate con un dolce pendio; oggi però, mercé le benefiche cure dell’attuale Regnante può dirsi che la città prende un nuovo aspetto, poiché moltissime strade sono state già ampliate e livellate per quanto meglio pote- vasi; ed altre nuove del tutto se ne sono aperte o vanno ad aprirsi al transito del pubblico, le quali più ne facilitano la comunicazione. Eccellente però n’è il lastricato di lave del Vesuvio, che sono il più solido ma- teriale da lastricare le strade. Nel 1792 furono la prima volta messe su’ cantoni delle strade le iscrizioni dei loro nomi e si affissero i numeri a tutte le porte.

Fra strade, vie, vichi, vicoletti, larghi, salite, calate, rampe, sopportici e fondaci se ne contano meglio che 1400.

Napoli generalmente à case altissime con quattro, cinque e sei appartamenti, nella massima parte fabbricate con poco gusto di architettura: queste sono quasi tutte coperte da altane e da terrazzi battuti, i quali se sono di non piccolo vantaggio per Paria che vi si va a respirare e per le delizie onde sono spesso ornati, portano pure l’incomodo di rendere gli ultimi appartamenti freddi o umidi d’inverno e troppo caldi la state; questi terrazzi sono formati con lapillo vulcanico e calce, e si battono in modo da formare un masso solido. Le acque piovane di tali terrazzi raccolte nelle grondaie piombano in mezzo alle strade con gra- ve incomodo di quei che passano; ma anche a ciò à curato di porre ri- medio la provvida mente che ci governa e già si vedono oggi le princi- pali strade e gran numero di case delle vie secondarie prive di questo inconveniente, ond’è a sperare che in breve la città tutta ne sia libera. Gli edilizi essendo costruiti di una pietra detta tufo, che si taglia in tutte le forme che si vuole e che fa una forte presa con la calce e pozzola- na, ne risulta che essi siéno forti e leggieri. Quindi ancora deriva la sin- golarità che per ordinario si rifanno le case senza smantellarle, ricostruendole a pezzo a pezzo e tante volte gli abitanti continuano a dimo- rarvi mentre si rifabbricano. Per gli ornati o per aver maggiore solidità si usa il piperno.

Assai numerose sono le chiese di Napoli: esse sono cariche di marmi, di pitture e di altri ornati, ma pochissime ànno quella maestosa semplicità tanto conveniente a’ tempi. Di fontane, di guglie, di porticati, di colonne, di archi trionfali, di statue Napoli non ne à molte né sempre  di buon gusto: di passeggi ne ha un solo, a Chiaia, ma veramente dell’ozioso e magnifico. Del resto l’altezza, se non il gusto degli ediflzi, dà alla città un’aria di magnificenza; e l’amenità del sito, congiunta al movimento della sua gran popolazione, fa poco avvertire la mancanza di essenziali vantaggi che ànno le altre grandi capitali di Europa.

La illuminazione notturna cominciò a Napoli nel 1806: prima la di- vozione suppliva al difetto di polizia, giacché per tutti gli angoli di stra- de veggonsi immagini della Vergine o de’ Santi con fanali mantenuti accesi dalla pietà dei complateari: i fanali pubblici che illuminano la città sono più di 1925; e le principali strade ora sono tutte illuminate a gas.

Napoli à sei principali ingressi magnifici più per le scene incantevoli che presentano, che per decorazioni; cioè quello pel ponte della Mad-

CENNO SU NAPOLI XII

dalena sul mare; quello di Porta Capuana; quello del Campo, perché mena al campo di esercizi pe’ soldati che fu aperto nel 1809; quello di Capodichino; quello di Capodimonte; e quello della Grotta di Posilli- po, senza tener conto dello ingresso del Vomero.

Si può dire che a Napoli vi sieno quasi: tutte le arti e manifatture, e che molte di esse sieno in uno stato florido. Meritando particolar menzione le fabbriche di lastre, di porcellana, di maioliche, di guanti, di se- terie d’ogni sorta, di cappelli di feltro e di paglia, di fiori artifiziati, di oro e di argento filato, di galloni, di corde armoniche, di lavori di pietre dure del Vesuvio, di lavori di ferro e di bronzo dorato, di orificeria e di gioie. L’arte tipografica per la parte meccanica si è di assai migliorata.

Napoli per la sua situazione, per la sua popolazione e per le sue ricchezze potrebbe esercitare il più florido commercio.

Per la giustizia ogni quartiere di Napoli à un giudice conciliatore ed un giudice di circondario, i giudizi del quale sono inappellabili fino a 20 ducati ed appellabili fino a 300. La città con la provincia à un tribunale civile ed una Gran Corte criminale; non che quattro giudici istruttori, presso i quali è la polizia giudiziaria nella dipendenza della corte criminale. Oltre a ciò vi è un tribunale di commercio ed una camera consultiva di commercio per proporre tutto ciò che possa favorire la prosperità del commercio nazionale.

La Gran Corte civile è il tribunale di appello per la provincia di Napoli e per sei altre province più vicine alla capitale.

La Corte Suprema di giustizia non è che l’antica Corte di Cassazione, ed abbiacela tutto il regno al di quà del Faro. Il suo oggetto è di mantenere l’osservanza delle leggi e di richiamare alla loro esecuzione i giudici che se ne fossero allontanati.

Per l’amministrazione, la città con la provincia à per capo un Intendente, assistito da un segretario generale e da un Consiglio d’Intendenza. L’autorità suprema amministrativa è presso la Gran Corte de’ Conti, che abbraccia gli affari di tutto il regno al di quà del Faro.

Per ambedue i regni poi vi è la Consulta di Stato, il cui voto è sempre consultivo e verte sopra quelli oggetti, sieno particolari sieno legislativi, de’ quali viene incaricata per ispeciale commessione del Re.

Pe’ reati militari vi è uno statuto penale militare, restando per tutto il resto, che non è compreso in quello statuto, soggetti i militari alla giurisdizione ordinaria. Vi sono per quei reati i Consigli di guerra detti

di corpo, di guarnigione e di divisione, ed a tutti soprasta l’Alta cor- te militare per la sola osservanza delle leggi.

In quanto alla polizia, Napoli à un commessario per ogni quartiere; un altro commessario è addetto alle prigioni e sei ispettori invigilano alle barriere della città. Soprasta a tutti un Prefetto, agente primario della polizia ordinaria non solo per Napoli ma anche pel suo distretto.

Finalmente pel governo generale del regno al di quà del Faro vi sono nove Ministeri, cioè: l.° della presidenza del consiglio de’ ministri; 2.° degli affari esteri, 3. di grazia e giustizia; 4.° degli affari ecclesiastici e della istruzione pubblica; 5.° delle finanze; 6.° dello interno; 7.° de’ la- vori pubblici#. 0 della guerra e marina, 9.° della polizia generale: inoltre vi è un ministero per gli affari di Sicilia e la Soprantendenza Gene- rale di Casa Reale.

L’amministrazione municipale è affidata al Corpo di città, composto del sindaco e di dodici eletti. Il sindaco è il capo della città e ne dirige tutta l’amministrazione. Ognuno dei dodici quartieri o sezioni, nelle quali è divisa la città, à un eletto con due aggiunti che sono nella im- mediata dipendenza del sindaco. Ogni eletto è uffiziale dello stato civile nel suo quartiere, e membro nato dell’amministrazione de’ pubblici stabilimenti che vi esistono. Gli aggiunti sono i collaboratori ed i sup- plenti dell’eletto. Al corpo della città appartiene la polizia annonaria.  La città di Napoli à una rendita di oltre a 400 mila ducati. Il vescovato di Napoli è de’ primi secoli della chiesa e conta S. Aspreno per suo primo vescovo, instituito da S. Pietro stesso nel suo primo viaggio d’Italia. La serie degli arcivescovi comincia dal 105.

La cattedrale vien servita da tre ordini di preti, dal capitolo de’ canonici, dal collegio degli eddomadarii e da quello de’ quarantisti. Dopo il capitolo di S. Pietro questo di Napoli è riputato pel più insigne. È stato sempre un seminario di vescovi: molti tra essi sono promossi alla por- pora, e tre sono stati elevati ai triregno, cioè Urbano VI, Bonifacio IX, e Paolo IV. ‘ La città è divisa in 40 parrocchie, le quali dipendono dalla cattedrale: le nazioni straniere ne ànno tre, che sono quelle de’ Greci, dei Fiorentini e de’ Genovesi; ma esse sono meramente personali e non locali. Vi sono poi sette parrocchie regie, le quali dipendono dal Cap- pellano maggiore, che su di esse esercita l’autorità episcopale.

Attualmente sono in Napoli 38 conventi di religiosi, 22 monasteri di monache e meglio di 34 conservatorii.

Le Chiese di Napoli sono 257, ed oltre a queste vi si trovano 57 altre più piccole dette cappelle serotine.

La direzione della pubblica istruzione è affidata ad un Consiglio Generale di più membri sotto la presidenza di un prelato. Essa dà ancora i permessi per la stampa de’ libri, che debbono essere sottoposti alla censura. Se un libro non oltrepassa dieci fogli, il permesso di stamparsi può essere anche dato dalla polizia.

Uno dei primi corpi scientifici è la Reale Società Borbonica, divisa in tre accademie, la prima col titolo di Accademia Ercolanese di Archeolo- gia à 20 soci; la seconda detta delle Scienze ne à 36; e la terza delle Bel- le Arti ne à 10, oltre un numero maggiore di soci corrispondenti ed onorari: queste accademie tengono le loro sedute nel Reale Museo Borbonico.

L’Istituto d’Incoraggiamento per le arti, e la Società Pontaniana per le scienze, letteratura e belle arti sono protette dal Governo.

Le biblioteche pubbliche sono tre, cioè quella del Reale Museo Bor- bonico, quella di S. Angelo a Nilo e quella della Università.

La Università degli Studi al Salvatore à congiunti vari gabinetti scientifici. Oltre a questo, vi sono in Napoli tre osservatorii, il primo sulla collina di Miradois, l’altro a S. Gaudioso, ed il terzo all’officio to- pografico, co’ rispettivi professori; un’officina per isvolgere i papiri ercolanesi nel Real Museo; un Orto Botanico; una scuola di veterinaria, un’altra di paleografia presso il grande archivio; una scuola di pittura, scultura ed architettura nel Real Museo; una di musaici a pietre dure  a S. Carlo alle Mortelle; un officio topografico a Pizzofalcone, ed una scuola bene istituita pe’ ponti e strade.

Per l’educazione della gioventù abbiamo il real liceo e collegio del Salvatore; cinque altri collegi, due retti da’ PP. Barnabiti, uno da’ Ge- suiti, uno da’ PP. delle scuole pie, uno da’ PP. Cinesi; ed un collegio medico cerusico; due collegi militari, uno alla Nunziatella e l’altro a Gaeta non à guari istituito dal regnante nostro Augusto Sovrano; un collegio di marina ed altro di piloti: inoltre, fra Portici e Napoli, nel sito detto Pietrarsa fu instituita nel 1842 una scuola utilissima, destinata ad istruire un gran numero di giovani nelle arti meccaniche, formandone de’ buoni macchinisti, degni di ogni encomio e di particolare osservazione, perché già vi sono state costruite molte macchine a vapore con tanta perfezione da non far desiderare quelle che ci pervengono dallo straniero. Poi un collegio di musica a S. Pietro a Maiella; due seminari ecclesiastici, uno detto Urbano e l’altro Diocesano. Nel Real Albergo dei poveri vi è una scuola pe’ sordi e muti, ed a S. Giuseppe a Ghiaia un’altra pe’ ciechi. Per la educazione delle donzelle vi sono la Real casa de’ Miracoli e quella di S. Marcellino, entrambe sotto la speciale prote- zione di S. M. la Regina (N. S.); e l’altra di Regina Coeli Vari monasteri e conservatorii prendono anche cura della educazione delle fanciulle, sotto la direzione delle Suore della Carità.

Vi sono inoltre molte scuole primarie per fanciulli ed altre per le fan- ciulle; senza parlare delle scuole e pensionati privati che sono in gran numero, come nulla abbiamo detto delle molte biblioteche, de’ musei, dei gabinetti, delle quadrerie de’ privati, che sono oggetti senza stabilità, dipendendo dal gusto individuale, il quale ben di rado si comunica agli eredi.

Vanta poi Napoli due amenissime e deliziose ferrovie; una che da Napoli mena a Portici, Torre del Greco e Torre dell’Annunziata, donde bipartendosi, da un lato continua per Castellammare e dall’altro procede per Pompei, Scafati, Angri e Nocera: la seconda che da Napoli va sino a Capua, toccando Casalnuovo, Acerra, Cancello, Maddaloni, Ca- serta e Santamaria, con una traversa da Cancello sino a Nola in Terra  di Lavoro.

Nello scorso anno fu inaugurato un telegrafo elettrico che dal palaz- zo Reale di Napoli, avendo corrispondenza con quello di Caserta, giugno sino a Gaeta; ed ora si prolunga per molte altre province de’ domini continentali.

Infine nello scorso anno fu pure menato a termine un vasto bacino  da raddobbo, eseguito in brevissimo spazio di tempo sotto la direzione del Ministro di guerra e marina Maresciallo Principe d’Ischitella, don- de già sono usciti belli e rifatti uno de’ nostri più grandi vascelli ed altri legni da guerra e piroscafi mercantili.

In Napoli, come quasi per tutta l’Europa, si possono fare tre distin- zioni di classi, cioè di nobiltà, di ceto medio e di plebe: distinzioni oggi meno notabili che in altri tempi. Se tutte queste classi confondonsi per alcuni costumi, quelli che ciascuna serba in particolare servono a di- stinguerle fra esse. Ma è naturale che i costumi del basso popolo richia- mino di più l’attenzione degli stranieri, perché da quelli son propria- mente formati i distintivi delle nazioni. La coltura e le ricchezze tendo- no a ravvicinare le altre classi di tutte le culte società europee.

L’alta nobiltà godeva di molte prerogative e di molti privilegi, ed esercitava una grande influenza per mezzo de’ sedili e de’ feudi. Nei 1799 furono abolite le prerogative de’ sedili, e nel 1807 fu distrutta la feudalità. A’ nobili di sedile è rimasto un notamento di famiglie sopra un libro detto di oro, ed a quei che godevan feudi un titolo. Fra questi ultimi coloro che non erano ascritti a’ sedili, furono registrati in un  al-

tro libro detto di argento. Prima i matrimoni erano insuperabile osta- colo tra la nobiltà e le altre classi: al presente si è meno difficile ed un ricco borghese può aspirare alla parentela delle più illustri famiglie.

A Napoli si dà onorifico nome di civili a quei del ceto medio, come se si volesse indicare che in essi era ristretta la civiltà tra le estreme classi ignoranti. Ma la vanità fa riguardare come insultanti tal come a coloro che voglion passare per nobili. Noi, che non dobbiamo tener conto di tutte le categorie della vanità, comprendiamo in questa seconda classe  i nobili proprietari, i primari mercadanti, i magistrati, gli avvocati, i medici e tutte le persone che ànno una educazione più accurata: in questa classe si rinviene la maggior coltura e quivi si sviluppano i mi- gliori ingegni. Col progresso della civiltà essendo divenute le distinzio- ni di classi meno notabili e più facili a confondere, si veggono ogni giorno genti nuove prodursi nella società, secondo che il merito personale acquista valore.

La terza classe, di tutte la più numerosa, presenta moltissime gradazioni e sensibilissime differenze, secondo le diverse arti e i diversi mestieri, cui addiconsi le persone. La necessità di lavorare rende più che non si crede morale il maggior numero di questa classe, nella quale moltissime persone manifestano un’attitudine singolare per ogni indu- stria. Degl’individui di questa classe, ben educati e passati a professioni o ad impieghi distinti, non lasciano ravvisare la loro origine; ma con la stessa educazione, se rimangono nel loro stato, appena serbano traccia della educazione ricevuta.

Generale è l’uso in que’ che vendono o fanno lavori dei domandare un prezzo di assai maggiore del giusto; e la prevenzione è tale, che non si crederebbe a chi chiedesse l’esatta valuta.

In Napoli la bellezza è più degli uomini che delle donne. Queste vi sono rispettate dalle leggi e da’ costumi.

Le mode, che influiscono sopra altro più che abiti e cuffie, sono l’occupazione principale delle nostre donne educate; e nelle donne di bassa condizione cresce di giorno in giorno l’ambizione di gareggiare con le prime nelle mode del vestiario.

Generale ed assai lodevole è il costume del popolo Napolitano di prender nell’ospizio de’ proietti qualcuna di quelle creature infelici e di allevarle con la stessa tenerezza che i propri figliuoli: talora si prendo- no in compenso de’ figli perduti. Essi sono qualificati col bel nome di figli della Madonna, nome ben conveniente a tali vittime innocenti,  che la colpa, il pudore o la povertà allontanano per sempre dal seno materno. La compassione è inerente nel napolitano: nelle risse il   mal-

CENNO SU NAPOLI XVII

concio è sempre il protetto dagli astanti.

Gli abitanti di Napoli, che vivono sotto un clima salubre e ridente, che ritraggono da un feracissimo terreno i prodotti più opportuni alla vita umana, sono dediti naturalmente a festive allegrezze, e molto di- sposti e corrivi alla pigrizia ed alla mollezza.

Mostrano grande golosità, ed osservano varie formalità nei piaceri della mensa. Si conosce ciò nel Natale, nella Pasqua, nel S. Martino, nel carnevale, ne’ quali tempi tutto è rito e profusione. Nelle case de’ facoltosi si osserva molto gusto nelle mense ed una varietà di prodotti anche intempestivi della natura, che è una vera sontuosità per gli stranieri. La plebe però ed anche gli artigiani serbano poca decenza nella mensa e son poco delicati ne’ cibi.

La qualità più spiccata del Napolitano è di esser portato al fracassio: va di leggieri in collera e di leggieri si calma; a sangue caldo nelle risse è capace di qualunque eccesso, ma cessato quell’impeto di furore, di- mentica tutto, non serba odio ed è incapace di vendicarsi con qualche tradimento.

Parla ad alta voce, è curioso, vuol decidere di tutto. È docile al gover- no: borbotta, ma obbedisce: i nostri lazzaroni, su i quali si sono scritte tante sciocchezze che i viaggiatori si ànno gli uni con gli altri copiate, furono formidabili sotto il governo debole e dispotico de’ Viceré, ed oggi sono tranquilli e sommessi sotto un Re nato nel loro paese.

La spensieratezza è un’altra qualità del Napolitano, la quale più che dal clima deriva dalla facilità della sussistenza e degl’impieghi. I Napolitani sono stati sempre abilissimi nel maneggio della spada e dei caval- li Son dessi schietti, aperti, cordiali. Amano il loro paese, poco viaggia- no; e come ànno scarsi bisogni, si contentano facilmente del necessa- rio. Si rimprovera ad essi la mancanza di coraggio, perché non si sa o non si vuol risalire alle cause di certi avvenimenti; e si dimentica che la plebe napolitana, sola e senza truppa di sorta alcuna, disputò palmo a palmo il terreno all’esercito francese nel 1799, e che in ogni duello tra i Napolitani e gli stranieri la vittoria è stata sempre de’ primi. 11 coraggio de’ popoli niente à che fare con la difficile e complicata arte della guerra, che ad essi non appartiene.

Sono pure i Napolitani vivi, ciarlieri, gesticolatori all’eccesso. Le danze, i canti, i suoni formano un gusto continuo e generale. Il popolo usa il tamburino, le nacchere ed il liuto, che sono tutti strumenti anti- chissimi, come si rileva dalle pitture di Pompei. Il ballo prediletto è la tarantella, ballo pieno di grazia e di espressione, che si esegue al suono di nacchere e tamburini, mentre qualche altro canta sullo stesso tuono.

In Napoli la religione è vivamente sentita: il lusso del culto è riguar- dato come parte importante di essa. I tempi ne’ di solenni, decorati di stoffe di cera di musiche, sono affollatissimi ed i Napolitani convengo- no con gran divozione a tutte le funzioni di chiesa. Il popolo fe divoto per la Vergine Santissima: non vi è bottega che non abbia la sua immagine con una o due lampadi accese, ed altre se ne veggono per tutti gli angoli delle strade con fanali accesi di notte.

Ne’ mesi estivi si fanno a queste immagini belle macchine decorate  di ricchi parati, di altari, di musica, di fuochi artifiziati: il tutto con le volontarie contribuzioni de’ vicini e della plebe. Vedrete non di rado le persone indirizzare a tali immagini le più affettuose apostrofi ed espor- re ad esse i propri bisogni; ed altri prosteso nel silenzio della notte ora- re avanti un crocifisso o sul limitare di una chiesa.

Il dialetto del popolo Napolitano vien credulo goffo da quei che non l’ànno né esaminato né compreso. Costoro àn confuso la natia sua lepi- dezza con la goffaggine, che sono ben diverse cose. L’ingenita allegria del popolo napolitano e la ridente natura che lo circonda, àn creato un linguaggio scherzevole e buffonesco, ma nello stesso tempo pieno di immagini, di grazie, di bei concetti, di sali e di proverbi. Sono cono- sciuti i napolitani per la prontezza del motteggiare. Il popolo non vi parla che con allusioni e con metafore, mostrando cioè ingegno; ed unisce alle parole un gesto animato e grazioso. Il Napolitano, che ado- pra il pretto italiano, è meno, degli altri Italiani conosciuto dall’accento. Ci abbiamo molte opere di vario genere scritte nel dialetto napolita- no, ed alcune sono assai più che ingegnose. Non si ànno canti nazionali, ma molti de’ popolari piacciono per la loro giovialità o per la loro dolce malinconia.

Napoli fu anticamente celebre per le scienze e per le belle lettere, avendola Cicerone e Seneca chiamata la madre degli studi. Virgilio, Se- neca, Orazio, Tito Livio, Claudiano, Boccaccio, il Tasso ed altri uomini insigni vi soggiornarono, e quivi scrissero parte delle loro riputatissime opere. Il primo vi tiene anche il sepolcro.

È patria questa città dello storico Velleio Patercolo, del poeta Stazio, di Urbano VII, di Pontano, Capece, Rota; de’ poeti Costanzo, Sannazzaro, Gio Battista Marino, Tansillo e Salvator Rosa; de’ pittori Luca Gior- dano, Solimene e di molti altri; degli architetti cavalieri Bernini, Fuga e Vanvitelli; di Ferrante Imperato e Fabio Colonna, naturalisti; del fisico e matematico Giambattista La Porta; de’ filosofi e fisici Francesco Fon- tana ed Alfonso Borrelli; del letterato e giureconsulto M. Mazzocchi; di Giannone lo storico; di Filangieri il legista; del medico Cotugno; de’ celebri Vico, Genovesi, Gravina. Nè vogliamo obbliare di far qui men- zione di un Ambrosi, di un Alessandri, di un Galiani, di un Mattei, del Galanti, di Palmieri e di Pagano, senza nominare gli uomini di fama ancora viventi.

Se nelle altre belle arti vari paesi d’Italia possono pretendere il primato, nella musica nessuno può contendere con Napoli. La nostra scuola musicale moderna fu stabilita nel XV secolo da Ferdinando 1 di Aragona, sotto la direzione di Garnerio e di Gafforio, i quali pubblica- rono a Napoli le prime opere sulla musica: altre opere poi sullo stesso subbietto furon pubblicate nel principio del secolo XVII da Pietro Ce- roni, che facilitò le regole musicali de’ tre collegi di musica che allora esistevano e che poi vennero nel 1808 riuniti in uno. Fra i caposcuola metteremo Alessandro Scarlatti, Niccola Porpora, Leonardo Leo, Fran- cesco Duranti, Giambattista Jesi, Davide Perez, Niccola Jommelli, Giambattista Pergolesi, Nicola Piccini, Fedele Fenaroli, Giovanni Pae- siello, Domenico Cimarosa, Niccolò Zingarelli e Vincenzo Bellini, senza far menzione di tutt’i grandi maestri stranieri usciti dalla scuola musi- cale di Napoli.

Francesco De Bourcard

NAVIGATORI, PESCATORI, REMATORI E PESCIVENDOLI.

Quando si volge un guardo alle categorie di popoli che ci o preceduti, all’impulso sociale di tante diverse na, alla fratellanza che gli uomini hanno pel commercio a fra loro, allora la grande alleanza degli uomini col, si mostra all’occhio dell’economista, come un punto)ria luminosis- simo e quasi come un movente del globo intorno al suo centro. Per essa le razze selvagge spogliate della scoria nativa, per essa le consuetudini sottomesse al culto, per cosa le città rabbellite, le aride spiagge mutate in città, le industrie confortate dal traffico, e la gran catena degli esseri rannodata fra lontane terre e paesi.

E Tiro e Creta e l’Ellesponto vi ricordano imprese guerriere e sempre commerciali, e dai campi della favola e dal mistero delle origini, scendendo accompagnato da questi nomi e da queste rimembranze vi ver- ranno innanzi i navigatori Castore e Polluce e la grande impresa degli Argonauti che pur di tanta favola è tramescolata, e le ricchezze di Tiro che le navi con preziosi legni costruite, propagavano ed accrescevano, e l’ardimento de’ Fenici che corseggiando armata mano facean bottino e vendean vesti, suppellettili adornamenti aurei e gemmati, e tanti altri fatti incancellabili che svelano l’elemento marittimo, come produttivo delle più ricordevoli fasi commerciali.

Quante terre non iscorscro i primi navigatorie quante mai non furon quelle che sorsero a luce ed ebbero rinomanza per approdi di navi. L’Arca stessa, nave primitiva, lanciata nel mare dello sdegno celeste, qual’era il diluvio, non fu forse lo stromento della salvazione universa- le? l’anello della gran catena che doveva poi stringere in tanti nodi le genti? Dalle statistiche più recenti e dalle opere di trentanni a questa parte, rilevasi quanto a certuni paesi dell’Inghilterra, tenuti in nessun conto, abbia giovato il periodico traffico delle navi, e quante abbando- nate coste, per lo transito di esse, sien divenute importanti; e gli Inglesi che spendono ogni loro cura e fatica per migliorare le condizioni marit- time dell’isola, fino a cercarne un perfezionamento non isperato mai, hanno assicurata la navigazione di coste difficili e sabbiose con le barche di salvezza e coi fari galleggianti. Ed ove per poco si volesse aggiungere quanto l’affluenza de’ Piroscafi di ogni specie abbia giovato alle condizioni manifatturiere ed anche agricole de’ luoghi di approdo, avrebbesi tale un quadro di progresso, da farne strabiliare più d’un vecchio carpentiere.

Basti pel nostro bel paese l’esempio della navigazione periodica de’ Piroscafi tra Napoli e la Sicilia, un dì sì difficile e scabra, da render lun- gamente pensierosi quelli che fatto avean proponimento di attraversa- re il canale e correr la linea talvolta in più d’una settimana.

Un dì alcuni legni a vela addetti a quel traffico partian con poco cari- co e poca gente, ed era d’uopo aspettar il ritorno d’uno o d’altro legno, a seconda de’ venti che spiravano. Or le spedizioni per la Sicilia sono continue, anzi cotidiane, e non ha guari i battelli Maria Teresa e Palermo nello spazio di sedici ore toccavano l’estremo porto, mentre oggi due bellissimi piroscafi in ferro Vesuvio e Capri partendo a sera, con- ducono il forestiero, come nel grembo di un sogno d’estate, più celere- mente assai dall’uno all’altro porto, però sembrami inopportuno dir  che a simiglianza di questa sola linea di navigazione, le altre apportano tanto e tal bene a questo marittimo paese, da doversi molto tenere in pregio gli uomini di mare del nostro regno, subietto di questo articolo.

Da tutte le storie italiane e da stranieri scrittori rilevasi la strenui là dei nostri marinai e l’antica loro altitudine alle marittime imprese, e basti l’esempio de’ Pozzuolani, che or dimenticati perché

agli altri marinai inferiori, tenevano un dì esteso commercio e trafficavan coi Greci e i Fenici popoli 1. E basti la lettura delle istorie di Fa- zello, a ricordare la perizia marittima de’ Siciliani e le glorie di Siracusa e di Agrigento. Napoli (dice il primo de’ citati scrittori) abbondava di vascelli prima che i Romani pensassero ad aver forze navali, di modo che le cinquanta navi e triremi che trasportarono l’esercito romano in Sicilia, furono tutte Napolitane, Tarentine e Locresi.

Siam quindi lieti di dover cominciare quest’opera di costumi, rivol- gendoci a’ marinai, parte sì viva ed integrale della nostra gloria, siam lieti di dover parlare di una classe generalmente onesta e laboriosa, schietta ne’ modi, ardita nelle sue determinazioni. Forse la penna che animata da tal subietto è scorrevole e pronta a ritrarre il pensiero, sarebbe ritrosa e dura nell’esprimere passioni più elevate e bugiarde, frutto avverso del secolo che corrompe gli uomini nel fasto anzi (come uno scorridor di campagna) aspetta al varco gli uomini più schivi, per dir quasi:—Ti ho pur colto o superbo; sprezzasti l’oro, ora affoga sotto l’oro che ti copre!

Però volentieri ci stringiamo al popolo, e parleremo prima de’ marinai che si veggono nell’interno della città, indi parlerem di quelli che lungo la riva se ne allontanano, e finalmente de’ così detti costaiuoli, non trasandando i siculi marinai che di prodezza non mancano e di perizia sull’elemento che li vide nascere e li cullò infanti.

I marinai di Chiaia, di S. Lucia, di Posillipo appartengono alla classe dei battellieri e pescatori. Essi vivono con l’amo e col remo alla mano, e la loro navigazione non si stende oltre il nostro golfo. Un dì, da S. Lucia a Posillipo vedevi una catena di povere abitazioni marinaresche, e un quotidiano raccogliersi di famigliuòie con famigliuole ad una stessa mensa, condita dall’amore de’ flgliuoletti, dall’affetto delle madri, dal previdente consiglio de’ vecchi. E tanto eran tra loro strette quelle schiatte marinaresche, che non molte, ma solo una famiglia, dagli usi e dalla dimestica fratellanza, apparivano.

Un padron di barche era ed è stimato nella contrada un ricco possi- dente. Coverto il capo del suo berretto e nudo sempre il piede, ei sospende di fumare sol quando emana i suoi ordini ai minori di lui, o fa- cendo lanciare in acqua una barca o traendo l’altra sul lido per darri su di pece o di catrame,

1 Vedi Signoreli, Vicende della coltura nelle due   Sicilie.

o nei cestelli facendo assettar l’amo dai seniori, che l’età rende pa- zienti ed acconci a lavori lunghi e riposati 1.

E fuori di un padron di barche, non troverete persona più dignitosa fra i Chiaiesi i Luciani e que’ di Posillipo, e fra questi, i secondi han rinomanza e quasi ereditaria celebrità per pescare sott’acqua e tufferai tutti col capo in giù, sia per visitare o turare la falla di un bastimento, sia per isbarazzare un’ancora ed accelerar l’uscita di una nave. I Luciani trasmettonsi questa virtù di padre in figlio, e fino alla più tarda vec- chiezza nel colmo del rigore invernale traggon sostentamento da cosif- fatte fatiche. Perù li vedete sfigurati dalla vampa del sole, nelle carni grinze e violacee, negli occhi cisposi e quasi lacrimanti, poiché il sai marino che vi filtra per entro, li corrode, sicché talune volte hanno a cessar dall’officio, non potendo tener gli occhi aperti a mirare il fondo delle acque. Son questi i così detti Sommozzatori.

Quelli poi che van cercando alimento dal minuto pesce e dai mollu- schi o frutti di mare, che van tastando uno scoglio, cercandovi i granchi o qualche altro abitatore aquorco della specie, hanno le mani e i piè per tal maniera guasti, gonfi, e quasi ostruiti, che fan pietà solo in mirarli. Poiché v’ha taluno di questi pesciolini o granchi che suol tendere a ven- dicarsi contro chi l’offende, prova incontrastabile che la provvidenza diede anche al piccolo armi per difendersi dal potente, armi che la se- dicente civiltà rinnovatrice di tutti gli ordini di cose, ha in gran parte distrutte fra gli uomini.

I barchettaiuoli o battellieri son del tutto dediti al traffico di piacere. E nulla riesce tanto gradevole, quanto ne’ be’ giorni di primavera una passeggiata marittima lungo la spiaggia voluttuosa che gli antichi dis- sero pausa delle tristezze (Pausilipo) entro una barca munita di due vi- gorosi rematori i quali alla loro volta, rasentando gli scogli e le secche fino a farvelo toccar con mano, vi mostreranno i pittoreschi avanzi di antichi fabbricati e le mura di opera laterizia, e vi parleranno con tradizionale credenza del Palazzo della Regina Giovanna e del misterioso trabocchétto, donde gli amanti oscuramente affogavano in mare, e vi diranno storie di sangue 2 all’approssimarvi dello scoglio de’ due fratelli e poi vi faran vedere la Gaiola e l’altro scoglio che per figura conica ha tolto un nome che modestia vuol taciuto, e non trasanderanno d’indi- carvi il palazzo detto delle cannonate e finalmente, poiché l’animo   del

Napoli, stamperia de Marco 1844.

marinaio è soccorrevole altrui, v’inviteranno a porgere un’elemosina all’Eremita della Gaiola che dall’alto del suo scoglio vi tenderà un bastone munito d’una borsa. E a’ forestieri non solo dovrà recar maravi- glia quel pellegrinaggio di costa allietato dalla vista di tante variopinte essine a fior d’acqua e di tanti giardini e viali ombriferi e fioriti che s’arrampicano, per così dire fino alla superior via nuova di Posillipo, ma dovrà pure recar maraviglia, il veder come due barchettaiuoli di quella spiaggia dopo avervi per un’intera giornata prestata l’opera loro, se ne andran contenti di buscare quattro o cinque carlini, ed a sera, banchettando nel mezzo della onesta e povera famigbuola diranno «il dì d’oggi è stato bello e lucroso, e tale, prego il cielo, sia il dimani». Questa parvità di desideri, questo tenor di vivere non solleticato che dagli affetti che si accendono presso al domestico focolare forman di quella classe di popolo un centro di virtù sconosciute.

I Battellieri, i Sommozzatori e i Pescatori, come ho già detto, abita- van lungo S. Lucia, Chiaia, (l’antica plaga) il Chiatamone (platamonio) la Torretta (una di quelle edificate lunghesso il lido contro gli scorrido- ri di mare) ed il leone di Posillipo, le cui acque han la celebrità delle

«Chiare, fresche e dolci acque» del Petrarca.

I nostri marinai sono buoni, servizievoli, sofferenti di freno, massi- me i Cbiaiesi, e i sentimenti religiosi han la stessa potenza de’ doveri di famiglia. Nel mese di agosto, la contrada tutta di S. Lucia, campo delle tende della milizia o della corporazion degli ostricari, divien campo dell’allegrezza marinaresca. I barchettaiuoli indossano il più bel calzo- ne che s’abbiano e’1 più nuovo de’ lor berretti, le famigliuole si lavano e si lisciano i capelli, facendo baldoria. Nelle circostanti osterie fumigano i manicaretti, il pesce in salse piccanti, i vermicelli avvoltolati nel cacio e nel sugo di pesce, il baccalà fatto verecondo dal pomidoro e mille altri intingoli, e ciò per la festività di nostra Donna della Catena. Marinai accorrono d’ogni parte cantarellando, altri con le nacchere e ’I tamburo accompagnano la nazional tarantella, altri scorron la riva chiamando avventori alla festa, e nel mezzo della gioia universale, i fanciulli e i gio- vinetti figli de’ così detti Sommozzatori, tutti in un attimo e pressocché vestiti, giù nell’onda si capovolgono, toccando il fondo, poi risalendo a galla alla supina come morti, poi guazzando e carolando tra loro e fa- cendo catena, in onor della Vergine. Sembra che gli antichi Tritoni onde la favola popolava quella riviera, emergano dal profondo, consa- pevoli della festa e guazzino con loro. E vedi braccia e gambe sossopra, e cavriuolo e gruppi fantastici, e poi un nembo anzi un manto di schiu-

ma che nasconde i guazzanti, ed odi evviva e batter di palme de’ padri e delle madri coi bimbi alla poppa. Pure gioie, pure come l’ampio padi- glione celeste che li covcrchia, pure gioie intemerate, non interrotte da sogni torbidi e ambiziosi, da rimembranze crudeli, da ambagi e sofismi viziosi di menti torte e perverse. Gioie perenni e vere che si riproduco- no come la schiuma del ma. re, come la nuvola che scorre il firmamen- to e che un fiato di rimorso non contamina.

Altre ricordevoli feste marinaresche sono in Giugno quelle che in onor di S. Pietro e S. Paolo per ben tre giorni si fanno, ardendo grandi botti di pece e girandovi intorno, e quella che prende occasione dalla incoronazione di nostra Donna detta di porto salvo, perché fondata da chi votò un tempio alla Vergine per iscampato naufragio. A tal festa i marinai tutti del molo piccolo che son marinai più dedicati ai commer- cio ed alle marittime industrie, danno emolumento, pagando nel corso dell’anno ciascuno il suo scotto per la pompa della festiva ricorrenza. E questo tributo pecuniario che ad onor della Vergine è costume di ri- scuotere, pagasi pria dai padroni di bastimenti, indi da quei di barche, indi dai marinai con amministrativa proporzione; e memorevole è fi- nalmente la festa di S. Niccolò detto, per la prossimità dello edificio, S. Niccolò della Dogana, e ciò nella ricorrenza dell’Assunzione di nostra Donna del Piliero. Ed in queste due ultime festività non mancan lumi- narie e fuochi artificiali non iscompagnati da quei grandi colpi di spa- ro, nei quali il napolitano mostra la sua tendenza al chiasso ed al fra- stuono, allo stordire ed all’essere stordito, quasiché la gioia crescesse col gonfiare de’ polmoni.

I marinai del molo piccolo sono più navigatori, e la vicinanza del porlo li rende adatti alle industrie speculative. Essi han più cespiti al sostentamento della vita e sono estremamente destri nello eludere la vigilanza di certi birri che vivono nell’acqua e di taluni decorati satelli- ti, che per iscrupoli di coscienza metton le mani nella roba altrui, e non han ritegno di cacciarvele in tasca, se non siete pronti a dar loro un’occhiata significativa. Taluni fra essi marinai o barchettaiuoli, che riconoscerete agevolmente dai ricciolini pendenti, dall’aria di valentuo- mini, dal berretto, vanno a prendere le loro merci con grosso mare e con vento, sotto la prua di una nave ancorata in rada, quando pur non debbano andarla a scontrare fin sotto Capri a dispetto dei marosi e dei Doganieri.

Estese generazioni marittime son pur quelle del molo piccolo e par- camente vivono tra  i viottoli  di basso  porlo,  ma  più comunemente la

loro linea segue quella della spiaggia, poco più innanzi della porta del Carmine, e più famigliuole han dimora ne’ vicoli che dalla così detta Marinella riescono al Borgo di Loreto, e quelle famigliuole, come il giorno appare, saltan fuori dalle auguste camerette e van poi con le al- tre a sedersi sulla opposta spiaggia, ove il forestiero soffermasi a mira- re que’ gruppi che tra uomini e donne, vecchi e fanciulle, tra botti, bar- che, reti, tinelli, fiscelle, nasse formano i quadri onde è maestra natura. Dòpo il desinare, su quella stessa spiaggia, soglion le donne acconciarsi l’un l’altra le chiome e rassettarsi le vesti allo specchio limpido delle ac- que, indi prender l’ago e i fusi e tesser amie reti d’ogni guisa. Nella esti- va stagione quella stessa piaggia formicola di gente che va a bagnarsi, ed allora molta parte di quelle donne s’occupa in far bucato di lenzuoli, dì tovagliuoli e di camicie.

Come dicemmo de’ Luciani e de’ Chiaiesi, i marinai del piccolo molo son pur distinti fra pescatori, pescivendoli e barchettaiuoli. I pesciven- doli, come dalla figura si vede, han quasi le stesse fogge di vestire, se non che invece del pastrano a scapolare, portano una giubba gittata in sulle spalle. Essi son dedicati unicamente alla vendita e traffico di quel- la specie. Il loro campo è la pietra de) pesce, luogo ove il pesce si racco- glie, librasi in bilance, ed alla presenza de’ capo paranza e degli anno- nari si distribuisce colla imposizione del prezzo.

Da un momento all’altro i pescivendoli sia ne’ cestelli, sia nelle spor- ticciuole di giunchi invadono tutto quant’é l’abitato, gridando e repli- cando intorno il nome di quel che portano in mostra ed a) nome ag- giungono una serie di epiteti vezzeggiativi e chiamano i pesci, garofani, perché i golosi solluccherati dal nome, s’affaccino ed invitino il pesci- vendolo a venir su.

Così tra ascéndere e discender lunghe e non comode scalinate, tra gi- rare e rigirar, vie, viottoli, viottolini, il pescivendolo vuota la sportclla, la riempie, e per seguir l’andamento delle cose umane e mostrarne l’applicazione, mette sempre i più grossi pesci a giacer sui pcsciottdi e i pesciolini; con la sinistra mano li fa odorare a que’ che dubitano della loro freschezza, con la destra gl’inaffia di acqua salsa che porta in un otre, e i suoi movimenti sono sì rapidi, i suoi passi sì misurali e solleci- ti, che tra rimestare e pesare, tra vendere e rendere il soverchio, mette sì poco tempo, che sarebbe a desiderarsi, potessero tutti i mondani ne- gozi discutersi e compiersi a quella guisa.

Il pescivendolo napolitano ha i requisiti propri di ciascun altro ven- ditore. Egli domanda sempre il doppio del prezzo che vuole, e per  gua-

dagnare un obolo soverchio, ascende, discende e torna indietro, bor- bottando, senza danno delle scarpe che abbomina, ed appagandosi, ove gli venga fatto, di carpirvi un oncia di peso a suo favore. Difetto del quale il napoletano che compera è tollerante per vecchio abito, il fore- stiero si sdegna.

Dopo aver brevemente discorso del pescivendolo, diremo alcuna  cosa de’ pescatori che son pur membri assai proficui delle marinare- sche famiglie dedite alle fatiche del mare.

Pittoresca e dilettevole è la pesca de’ polipi o de’ cefali che fassi nelle circonferenze del Lucullano castello, detto oggi Castel dell’Ovo e pria nominato Isola del Salvatore. Siffatta pesca si esegue nelle barche aventi in sulla prora o viceversa una fiaccola che nell’acqua isfavilla e la rischiara fino a certa profondità. Entro la barca sta un uomo intento a vogar pianamente, un altro sta più binanti e guarda fisso nell’acqua spargendo stille di olio ove i raggi percuotono, fino a che l’abitatore di quella regione, adescato dalla luce, non si faccia a seguire il solco ra- diante, e resti così mortalmente percosso dalla lancia onde il pescatore è munito.

È soavissimo incanto l’aspetto di queste barche che in sulla sera e spesso a sorger di luna si veggono strisciar lentamente nell’acqua, ra- dendo gli scogli e talora l’una dietro l’altra passar sotto l’arco d’un pon- te che la terra congiunge all’insulare castello che i tremuoti e la prigio- nia di Àugustolo han renduto illustre anco nelle sue rovine.

L’insieme delle sue proporzioni imbrunito dalle ombre che la luna fa grandeggiare appunto ove è più dispensiera di luce, staccasi mirabil- mente dal fondo diafano e velato delle isole lontane e dall’acqua ceru- lea ed in più luoghi spruzzate di stille argentine. Da un lato il Vesuvio, dall’altro le colline Pausilipane fan corona alle acque, e compiono il quadro 1.

Da queste tre classi uopo è ora ch’io ritorni al primitivo tema dal quale mi dipartii, quello de’ marinai napoletani in generale, tema che pari ad uno arbore annoso offre molti e svariati rami tutti rigogliosi di vita.

E però i rami più rigogliosi della progenie hanno a tenersi i Procida- ni e i Sorrentini che per esser valenti, sono rivali tra loro. I Procidani arditi, gagliardi, di animo fermo nelle calamità di mare e nelle traver- sie, nascono marini e si abituano assai di buon’ora ai pericoli della na- vigazione del loro canale e del golfo; né a quella si fermano, ma come

1 V. la fig.

meglio possono, cercan pane ed alimento ne’ viaggi di lungo corso. Il Procidano dai suoi vicini è detto rischioso e temerario..

Ischia e Procida, come due nemici, stan quasi l’una a fronte  dell’altra. Esse guardansi di lontano, ma senza potersi ben discernere in volto. Ogni giorno dall’una e dall’altra riva partir deggiono le barche che mettono le isole in comunicazione con la capitale e si fan cambio di uomini e di cose, ma il tempo imperversa, l’orizzonte s’annebbia e i ca- valloni si frangono nelle brune punte degli scogli, come arieti di guerra nelle irte mura d’un castello.

Il canale è sfrenato a tempesta, l’onda fa paura — gl’isolani stanno come le isole a fronte l’uno dell’altro, e giudicano severamente de’ loro compagni. Ambo le rive hanno pronte alla vela le barche…

Chi partirà prima? Il marinaio di Procida o quello d’Ischia?

Il vento fortunale scorre sibilando sui fluiti e pare che gridi—Non v’aflidalc a fragile barchetta.

Chi vincerà nella tenzone?

Ma sulla riva Procidana i marinai si stringon tra loro a consiglio, danno un bacio ai fanciulli, e lanciansi nelle barche. Il bollaccone 1 bat- te con istrepito, la scolta si tende, i remi d’ambo i lati come natatoi  d’un pesce, si allungano ~ la barca di Procida cavalca i marosi, gli evvi- va misti a qualche singulto di pianto accompagnano il fremer del ven- to. I cavalloni nascondono il piccolo legno che dura fatica a risorger sull’onda, e affonda poi in vortici più spaventosi.

Il marinaio Ischiaiuolo stima perduto il rivale isolano, ma questi si fa maggiore della traversia, e giunge vittorioso nel porto napolitano, pen- sando all’entrata di esso, assai più che non avesse pensato nel mettersi in mare.

I marinai Procidani rendono onorala ed illustre la loro terra. Essi forman quasi una ricca colonia, poiché non è famiglia che non abbia un tetto suo cd un legno in mare. ll loro vivere sebben frugale, è sobrio. Una delle festive ricorrenze dell’isola che chiama maggior copia di gen- te a raccogliersi nel breve abitato, è la festa de’ quattro altari. In quel giorno la gioventù Procidana si mostra con alterezza insulare.

Le donne, tra gli altri, attraenti per pupille e sembianze piacevoli, ve- stono allora in tutta la pompa dell’antico costume greco e fan mostra della dovizia del petto, onde van celebrate, e di tanti altri vezzi lusin- ghevoli, e in quelle feste si svegliano gli amori sopiti e le famiglie tra loro  stringonsi  in parentado,  e le donzelle  danno parola al    giovane,

1 Nome d’una vela.

aspettando pria che torni il lontano fratello navigatore, perché la gioia sia per universale assentimento, compiuta.

Ischia ha pure di tali popolari feste, e quelle di S. Restituta e decanti Pietro e Paolo son le più clamorose. Le donne d’Ischia, il cui vestire of- fre un leggiadro accozzamento di colori agli artisti di genere, fanno nel loro costume minor sfoggio di ori, e solo nei pendenti mettono ogni loro pompa 1.

Dopo aver parlato de’ Procidani, panni dover fare onorata menzione degli Amalfitani che hanno a loro capo un Flavio Gioja, e che possono in prova di lor valentia, ricordare tutta una storia di marittime impre- se, che rendè la Amalfitana Repubblica pari a quelle di Venezia, di Ge- nova e di Pisa. E non trasanderò di accennare che tutta la costa di Sor- rento è ricca di valenti marini, e la massima parte di coloro che nasco- no in quelle arene si dedicano al pilotaggio e nelle scuole di nautica usano, per divenir poi utili al commercio ed alla marina di guerra. I Sorrentini sono anche dediti alle industrie speculative, costruiscono le- gni e mostran perizia molta nell’armamento di essi, in emulazione de’ Castclloti o abitanti di Castellammare che son loro vicini, ma non han pari grido di valore.

Ai Sorrentini seguono i Torresi, arrischiati ed abili marinari che la- sciano il loro paese nativo per recarsi alla pesca del corallo, alla quale tutti quasi unicamente si dedicano. D loro ritorno in patria è riboccan- te di affetti. Le donne loro, i figliuoli, le sorelle, i genitori stan sulla spiaggia ad aspettarli. Gli occhi delle fanciulle son luccicanti, quelli de’ genitori pieni di lacrime gioiose. Indi a poco il corallo è ridotto in colla- ne, ed il fratello ne fa presente alla suora e glielo cinge al niveo collo.

1 Sebbene le figure di siffatti costumi dovranno più innanzi ornare l’opera, non ci par superfluo dire che questi pendenti han forma di un cassettino di spilli che ne mostra fuori le teste ed ha in basso due o tre perle che fan ciondolo. La pompa di questo femineo adornamento sta nel crescerne le proporzioni fino a darne peso agli orecchi che ne divengono poi deformi per allungamento, e non è infrequente il caso di doversi reggere i pendenti con fili girati intorno alla superior parte dell’orecchio medesimo. Le quali costumanze anche oggidì, no avvicinano ai Barbari ed ai popoli del Madagascar o del Messico.

Il resto del vestire è formato da un fazzoletto rosso che contorna il capo e si ripiega dietro graziosamente, facendo nodo sul vertice; dal cosi detto giubbone che lascia vedere un panno di lana scarlatto onde sì cingon la vita, e dalla vesta bianca in estate, e verde o bleu nell’inverno.

Tal costume, che ha minori apparenze di ricchezza di quello che vestono le Procidane, mostra che questa a quell’isola è inferiore. Di fallo Ischia, e massime Casamicciola e Foria, aspettano per vivere meglio, il concorso dei forestieri che nella mite stagione usano di quello acque salutifere per correggere i vizi linfatici, massime quando minaccian le ossa. Altro cespite di povera industria sono i lavori delle paglie, delle quali si fan borse, cappelli, canestri per le Dame che si recano a passeggiare. I vini d’Ischia hanno eziandio la celebrità di quei del monte di Procida, sebben questi ultimi sian neri e gli altri bianchi. Essi rivaleggiano coll antico Falerno levato a cielo da Cicerone.

La pesca del corallo ed il lavorìo di esso in ispille, braccialetti, manichi di bastoni ed ombrella, anelli ed altre minuterie di orafi danno alimen- to di vita a molte e molte famiglie di pescatori. Trapani in Sicilia è pure emulatrice de’ lavori di corallo che adornano poi il petto delle forestie- re ed in corna, quasi amuleti di antica superstizione, adornan le nostre donne che credono allontanar da loro gli auguri sinistri.

  1. marinai di Gaeta, quelli di Ponza, di Capri, di Nisita e gl’isolani tut- ti han qualità marine tutte proprie e derivanti dalla natura del luogo che abitano, e dove aprono gli occhi alla luce.

La Sicilia, terra ferace d’ingegni, può a buon dritto vantare arditissi- mi e gagliardi marinai. I Palermitani, gli Usticani, i Trapanesi sono tali, da meritare una triplice palma. Essi non cedono in temerità a qualsivo- glia marinaio straniero. Sebbene corrivi e facili all’ira, possono formare la vera forza d’un legno ben capitanato, la ciurma. Per essi è abitudine il pericolo, e fanciulli o vecchi non rinunziano all’elemento indomabile che gli educa. Basti a ricordare il siculo valore il nome dell’Ammiraglio Gravina.

Stefano Palmisano, vecchio e gagliardo marinaio che avea valichi i sessantanni e pur mostrava di non voler cedere all’età quando le opere faticose del bordo lo chiamavano al suo posto, dopo aver navigato qualche anno sul Battello a Vapore Postale Maria Teresa, accorto e ve- gliante nelle sue ore di guardia sulla prua, fermo e sdegnoso di sonno al timone, pronto a montare a riva come un fanciullo, ne imponeva a’ suoi compagni nella gioia del pericolo, sebben gagliardi tutti e Siciliani. Ma il vecchio Stefano era annoiato di quella vita ch’ei stimava passi- va e monotona — Non è vero marinaro, e’ diceva fra suoi, chi si fa por- tar dalle ruote di un Piroscafo come in una carrozza che i cavalli stra- scinano. Vuol esser vela e non fuoco, vuol esser cotone la guida del ma- rinaro. Tutti son buoni a lasciarsi condurre in porlo da un Piroscafo. Quai mezzi adopra il marinaio nel tempo avverso, quando da poltrone naviga in un legno a vapore? nessuno. Egli aspetta e dorme. E mi chia- mate codesta vita da marinaio? Vuol esser vela dunque, alla vela si co- nosce il marinaro, pronto alla manovra, sollecito a montare in gabbia, destro a virare. I grandi viaggi, l’Oceano è la vera scuola ad acquistar gloria e danaro. Ho una figlia ch’è a me più cara del sole. Se un princi- pe ricco e buono mi dovesse la vita, gli direi «ama e sposa mia figlia se vuoi sdebitarti meco. » La notte, quando come l’albero di trinchetto, mi sto fermo in sulla prora a far la mia guardia, mentre spingo acutamen- te l’occhio a mirar se incontro opposto naviglio, guardo colla mente

alla figlia mia e penso come farla felice, come darle una dote, perché non desideri il pane, e non isposi un marinaio che alla dimane delle nozze l’abbandoni, per obliarla in paese lontano. Ecco l’assiduo mio pensiero, la perenne fatica di mia mente, poiché questa noiosa naviga- zione a vapore, inventata pei paurosi e per le Dame, non basta ad occu- pare nelle ore del giorno e della notte Stefano Palmisano.

Queste parole da me udite più volte, valgono à dare il tipo del vero marinaio, nato per resistere alle onde con mezzi propri non carpiti alla chimica od alla meccanica. Stefano Palmisano, focoso ed ardito in vec- chia età come giovinetto, mentre non guardava a’ pericoli e non ascol- tava che se stesso, avea poi la virtù di sapersi reprimere e di ubbidire.

Quest’uomo di sì gagliarda tempra (ma non solo tra i nostri marina- ri) mi si presentava un giorno e mi chiedeva il suo congedo, volendo tentar la sorte sur un naviglio che muoveva per le Indie — Signore, e’ mi dicea, tornando dalle Indie potrò almeno recare una dote a mia fi- glia che in me solo ha speranza!

Preghiamo che il voto dell’onesto marinaio resti esaudito!

E poiché questo mio articolo avrà accesso nelle più fastigiose dimore principesche e ministeriali, senza uopo di mancia o di sirena allo schia- vo padrone, piacemi ricordar nomi oscuri, e virtù ignote, perché fac- cian contrapposto a nomi chiari e vizi chiarissimi, perché l’uomo che domina scenda a mirare in basso, e guardando, compensi i meritevoli, o almeno impari dagli oscuri. E poiché questo mio articolo forse dovrà posar presso un molle origlierò o sul bianco marmo d’una colonna di mogano, e nelle ore della notte dovrà forse ascoltare qualche lamento  di sonnambulo, qualche affrettato palpito di cuor miscredente e pur di- voto, amo che a queste povere classi lavoratrici si volga il pensiero dell’intendimento, perché i conforti vengano dall’educazione e dal la- voro, e non siano dati con mezzi di abiezione e d’invilimento individua- le, l’elemosina quotidiana mal diretta, che dir si potrebbe meglio l’ali- mento degli oziosi.

E seguitando a parlar de’ marinari siciliani aggiungerò che son molto da valutarsi i Messinesi, i Melazzesi, i Liparoti, i Siracusani che non si stanno inerti e paurosi in paese. Il littorale della Calabria ne presenta  di buoni, sebbene non come i Palermitani, Sorrentini ed altri, dediti ai viaggi di lungo corso. Sarebbero al certo migliori le condizioni marina- resche di quelle spiagge, se non fossero sfornite di porti, e i legni di strania bandiera non v’andassero solo nel caso di doversi perdere con- tro la brulla ed arida massa degli scogli e della montagna che cinge la

costa. 1

Finalmente non lasceremo di fare onorata menzione de’ marinai che navigano pel littorale delle spumose acque dell’Adriatico. Destri ed ar- diti, essi non mancan di perizia in solcare que’ difficili flutti sparsi di secche e d isolotti, e i Molfettani e Barlettani e que’ di Brindisi e di Gal- lipoli e più ancora i Tarantini non son secondi ad alcuni degli isolani che più innanzi nomammo. E però teniam ferma speranza che portati a termine i lavori del porto di Brindisi 2 e richiamato in quell’antica città marittimi alquanto di concorrenza commerciale, ed agevolati i traffichi di olii, vini, grani ed altro, e col mezzo de’ Piroscafi incrociate le corri- spondenze e ravvicinali gli uomini; la linea dell’Adriatico potrà dare miglior sussistenza alle classi povere e navigatrici della costiera, e gli uomini dediti al mare si spingeranno alle navigazioni dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano.

CAV. CARLO T. DALBONO.

  1. 1 Vedi i miei articoli sulla navigazione a vela ed a vapore nel regno, pubblicati nel Salvator Rosa anni 1845-46-47.
  2. Molto si spende dal Governo per richiamare a novella vita il famoso porto di Brindisi, depurandolo e rendendone facile l’accesso alle navi di grossa portata, e ciò, oltre alle concessioni accordate con Sovrano Rescritto, potrà migliorar di molto le condizioni di quelle Provincie e de’ mercatanti, e reprimere il controbando che ad onta di qualsiasi vigilanza si esegue con la forma di un regolare e periodico esercizio.

ED IL GUAPPO IN ABITO DA FESTA

Quantum mutatus ab illo!

DIFETTO appiccicato all’umana natura è quel voler ogni uomo far disparire, quanto può, od almeno nascondere lo scaglino, che  dall’altro, nell’ordine sociale, il divide. Se però ciascun mediconzolo aspira alla fama di professore, se ciascun avvocatello affetta il Demo- stene, se ciascun amanuense, non fosse altro che per vóto rimbombo di parole, si adopera a comparir l’uomo di alto affare, bisogna pur conve- nire che le distinzioni sociali sieno innanzi nella necessità delle cose che nella volontà degli uomini, e che se il farinaio ed il beccaio non han frusta e speroni, egli non è certo per modestia. Così l’artigiano, mentre dal suo bischetto percote sul tomaio, o lavora di forbici sur un tavolo- ne, o suda a gocciole sopra un ferro rovente, o fa stridere la sega, guar- da sottecchi la elegante chasse del damerino, la luccicante catena d’oro del banchiere, la stoffa finissima dei calzoni del leone, il gilet che tocca l’umbilico del giovine di buon g e n e r e ,  e la bella canna, la quale,   per un elegantissimo pomo, forma l’unico ed il più bel titolo di gloria

del bellimbusto, che, designato per professore, non d’altro ebbe mai brigato che di comprar profumerie; digiunare al Caffè dell’Europa, e far attorcere e lisciarsi accuratamente i capelli ed i badi. Tutto ciò muo- ve una tal quale invidia in quell’ordine inferiore, ed anche una sensibile dispiacenza ne’ paragoni. Qual contrasto tra una sudicia e lacera cami- cia, ed un alabastrino colletto amidato; tra due mani ruvide ed appicca- timi ed un morbido e lucido guanto, un martello ed un succhio ed una canna dal cesellamento privilegiato (paletti). Laonde l’uomo inferiore procura transatare almeno con l’ingiustizia della sorte; e cosi non po- tendo essere un galantuomo 1 ogni giorno, vuol esserlo almeno la festa. Arrivata dunque quest’epoca in cui, osservatore scrupoloso de’ precetti, rimansi dall’opera, depone il meschino, o almeno poco aggradevole ar- nese, ed eccolo uomo nuovo in novelle forme. Larjghi calzoni a quadra- ti da metter paura ad un cicco, una cravatta d’un rosso fiammeggiante, che gli cinge, o piuttosto gli assedia il collo, alta ben cinque dita, sor- montata da un enorme nodo, le cui punte svolazzano alla balia dei ven- ti, o sulla quale vengono a ripiegarsi due larghi colli, un lungo e vivacis- simo gilet, non diremo disegnato, ma sì inondato di frascami. Scende su questo, ad armacollo, enorme catena d’oro con sospesovi un corri- spondente orologio, terminante in moltiplici suggelli, a’ quali non manca che l’impronta per dirsi notarieschi. Indossa una chasse (specie di giamberga) di castoro a larghe ali. Non ha guanti, perocché gli par- rebbe recar dessi onta alle mani che, non ostante la manifesta contrad- dizione, godono imperturbate il riflesso d una infilzata di lucide anella, ornamento e sepolcro ad un tempo di presso che tutte le cinque dita. Compiono il vestire un cappello collocato appunto all’est del capo, ed una grossa canna di zucchero confinante col medesimo. In tale assetta- tura, per quella continua e caratteristica flessibilità del corpo, or da questo, or da quel lato; per quella specie di non curanza, che denota piena soddisfazione di sé stesso, quest’uomo ha la festa un’impronta davvero singolarissima di pseudo importante. Sovente egli accompa- gna una donna, che è la moglie o l’innamorata. Un paio di grossi orec- chini rotondi, e vestiti di picciole perle, che il nostro volgo chiama con voce propria, specie di sciucquaglie, con cui vanno indicati general- mente gli orecchini, una veste trincerata sul petto da una collezione di laccetti d’oro (lazziette) con un piccolo oriuolo, le dita sulle quali pari- menti si ammonticchiano le anella, un largo fazzoletto sulle spalle (faz-

1 Per più facile intelligenza adopero questa voce nel senso volgare, a dinotar l’uomo di ceto più elevato. Galantuomo val propriamente uomo dabbene ed onorato; benché questo, a mio credere, dovrebbe essere il senso meno esteso!

zolettone) sogliono contraddistinguere la compagna della sua vita, co- lei che dicesi maestà (maestra). Per ordinario l’innamorata o la pro- messa, che va sempre in compagnia della madre, come Pilade e Oreste, o per non escir del feminino, come Filomena e Progne, è più modesta, perocché non divide ancora né le fatiche né le pompe di lui; ed e’ con- tentasi allora di camminarle a fianco, proteggerla con lo sguardo, e ri- coverarla all’ombra dell’incommensurabile canna; e quella donna vici- no al suo uomo (l’ommo), tiensi né più né manco di Bradamante o An- gelica, sotto Io scudo di Ruggiero o di Ferraù. Egli è vero che si scorge qualche punto di notabile diversità fra il maestro e ’l galantuomo, di cui studia il portamento ed il vestire; ma noi sappiano bene come l’imi- tazione sia spesso la parodia dell’originale; e poi vi ha di tali impronte difficili, diremo anche impossibili a cancellarsi; sì che scrisse il poeta:

Alma grande e nata al regno Fra le selve ancor tramanda Qualche raggio, qualche segno Dell’oppressa maestà

onde al pari il nostro eroe precario conserva nell’abito festivo un non so che del tanfo del lavoro; le mani ordinariamente non sono affatto af- fatto monde; spesso male assettati i capelli, e poi la, il vestito spesso ri- belle alle proporzioni, il dimenar del corpo, il cappello a schimbescio e le formidabili anella finiscono per dare il comico a questo personaggio, che tanto pel tragico si affatica.

Allo stesso genere, avvegnaché per avventura in ispecie inferiore, ap- partiene il guappo 1, comunemente nell’ordine de’ suggechi, ché così chiamano in dialetto i venditori di grascia, in ispezialtà di vini, di salu- mi ec. Nel rimanente dell’acconciatura affatto conforme a quella d’un maestro, sostituite alla chasse una giacca sbottonata ed al cappello una coppola di panno col gallone d’oro, fate che quei calzoni finiscano ili due enormi trombe sulle scarpe, aggiugnete a ciò i capelli, com’essi  di-

1 Così detto per quel coraggio e superiorità che affetta, ed è come dire: Spavaldo,  bravaccio, spaccnmonti.

Il guappo fa parte de’ caratteri comici del nostro teatro popolare di S. Carlino; di cui si parlerà più tardi in questa opera

cono, a mazzo de pesiello 1 ed eccovi il personaggio bello e delineato 2. Costui ha una mimica tutta propria; i suoi gesti (ngestre) denotano sempre qualche grandiosa operazione, 0 almeno vi accennano; laonde non salii discaro al lettore aver qui notati alcuni modi caratteristici e frasi con la versione italiana, perocché noi crediamo molto valere il gergo, e spesso più d’un’intera descrizione a rilevar l’individuo, come i più accreditati narratori e romanzieri ne han fatto uso felicemente.

Allorché il guappo minaccia di bastonare alcuno, apre entrambe le palme ed agitandole stranamente e quasi ponendole di conserva sul volto dell’avversario in un moto espressivo gli grida: Mo t’apparo a faccia 3.

Quando saluta un collega si esprime con enfasi. A razia, ovvero, A bbellezza 4.

A tale che gli paresse non aggiustar piena fede a quel che dice, e’ ri- sponde: Ebbè, o bbulimmo lassà ì 5.

Quando vuol mostrarsi ossequioso si esprime: Mo nce l’obbrigazio- ne nosta 6 né maraviglierò alcuno del modo imperioso plurale, trattan- dosi di guappo.

Se si rissa grida: Ebbè! Senza che ffaie tutte sse ngestre; cca simmo canusciute, e aggio fatto scorrere o sango a llave po quartiere 7.

Un tale, ha l’inavvertenza, passando, di lasciar andare un boccone di fumo sul volto della maestà; ecco il guappo che freddamente, e strasci- cando ciascuna parola gli dice: — Ebbè; mo mancate; tuie menate o fummo ro zziquario nfaccia a ronna 8!

Quando, nel colmo dell’ira, e minacciando il suo avversario, fruga precipitosamente nelle tasche in cerca d’un coltello, che spesso non vi è, lasciando rattenersi dalle donne e dagli amici, dimenando il corpo e mostrando non vedere colui che ravvisa perfettamente, grida con quanto ne ha in gola.

  1. 1     Son detti cosi per la simiglianza che hanno co’ mazzi di piselli quando sono legati ed aggiustati; dappoiché i capelli de guappi son tagliati in modo che dalla parte dell’occipite fino a meno il capo son cortissimi da sembrarvi la cute, e terminano in sul davanti in grandi ciuffi tutti arricciati, quasi come gli antichi bravi.
  2. 2   Ved. la figura.
  3. Adesso te le serro sul viso.
  4. 4  Alla grazia, ovvero, alla bellezza, 5 Ebbene! vogliamo lasciar andare.
  5. 6 Vivaddio, sappiamo il nostro obbligo.
  6. Or via! pon giù tutti cotesti movimenti, perché qua siamo conosciuti, ed ho fatto scorrere il sangue a laghi pel quartiere (contrada).

8 Orbè; voi non conoscete il vostro dovere. Voi gettate il fumo del sigaro sul volto della donna.

«Arò» sta, arò sta? Me ne voglio vevere o sango! 1

E per non prolungar di vantaggio un fraseggio, che più o meno si so- stiene sempre sulle stesse fondamenta, ricordi il lettore:

Orlando non risponde altro a quel detto, Se non che con furor tira d’un piede,

E giunge appunto rasino nel petto, Con quella forza che tutt’altre eccede; Ed alto il leva sì ch’un augelletto

Che voli in aria sembra a chi lo vede; Quel va a cadere alla cima d’un colle

Che un miglio oltre la valle il giogo estolle

e si dipinga Orlando in giacca. Il compendio di cotesto gergo e modo chiama il volgo ammartenatezza o attempatezza.

Vera immagine delle cose di quaggiù, il domani ciascuno dei nostri eroi deportò il fasto a piè d’un incudine o d’un tavolo; e somigliante a re da scena, poi che ha rappresentata la sua parte, torna al consueto ri- trovo di amici, che talvolta è un caffè, talvolta una bettola. Ciò nondi- meno questa parodia, che mostra il lato ridicolo dell’uomo volgare rim- petto al è forse contrappesata da molli vantaggi di quello su questo.  Che cosa è la vita per un uomo del popolo? Contento dell’oggi che corre e gli reca la sua mercede, e’ non si travaglia barbaramente per un dub- bio e fantastico domani, nube sulla stella e luce tra i veli, secondo le va- ghe espressioni d’un poeta; e nulla dolentesi del suo stato, attende con sincera allegrezza il suo giorno di festa. Egli non ha mestieri di logorar- si la vita per anni ed anni dietro un fantasma di gloria, somigliante alle bolle da sapone, non di attendere, non di dare esami, non di pubblicare

1 Dov’è, dov’è? Me ne voglio bere il sangue.

per le stampe; L «dodici anni è un giovine 1, a diciotto un artista, vale a dire professore sui generis. Scrupoloso a’ patti matrimoniali, allorché mena sua moglie a Piedigrotta, al Campo, al Pascone, a Montevergine

2 e cerio assai più lieto dell’uomo che, sdraialo in fondo d’una fastosa carrozza, col disprezzo sul viso e la morte nel cuore, pensa forse al mal governo del suo, o ad una misera moglie, che, al contrario di Mida, il quale volea tutto convertire in oro, vorrebbe tutto il suo oro in un mo- mento di tranquillità convertire. Ed i figliuoli? E che fanno eglino i fi- gliuoli ad un uomo volgare? — Se non ha giudizio, strappatili crudel- mente al felice orizzonte in cui la sorte benigna collocati gli avea, fa che ricevano una accurata istruzione, e gustino le non rare delizie del sape- re; ma se in cambio avrà un’oncia di cervello insegnerà loro il proprio mestiere, e così i suoi discendenti, provveduti, alla lor volta, d’un abito da festa, in compagnia di una bella maestà, nostra compaesana, bene- diranno il gran giudizio del genitore, ripetendo quell’assennato adagio del popolo: L’arte de tata è meza imparata 3.

ENRICO COSSOVICH

1 Garzone, aiutante di maestro.

2 Pel nostro volgo questi patti non sono meno importanti o sacri di qualunque altro de’ capitoli di nozze. Il nostro eh. Giulio Genoino, che conosce perfettamente il dialetto, e sa svolgerlo in tutta la sua grazia e vivacità, in due suoi componimenti, uno «A lo sì Matteo marito ncocciuso la mogliera nzorfata, nell’altro «A Carmeniello la mogliera pe gghi a Piedegrotta» fa osservar bellamente come il popolo non pure sia tenacissimo a questi patti, ma vi riponga altresì una tal quale idea di religione, di dovere, ed anche di umanità. Fa scorgere con arte quel misto di raccoglimento e di sollazzo, di religiosa costumanza e di gozzoviglie, di serio e di ridicolo che fanno un contrasto non meno singolare che vero dell’indole del nostro popolo.

3 Ossia, L’arte di mio padre è mezzo imparata.

NAPOLI non ha acque sorgive fuorché le minerali: i suoi fonti sebezi in questi campi flegrei sparvero, o inaridirono, ma gli acquidotti dalla Bolla e dal Carmignano 1 provvedono abbondantemente la vasta città, che dicono l’acqua de’ formali; e l’acque piovane che si raccolgono nel- le cisterne, benché d’inferior qualità, servono a dovizia agli usi della vita. L’acque che hanno l’onore d’empire le regie tazze e quelle de’ grandi sono Tacque del Leone di Posilipo, di S. Pietro Martire, di S. Paolo e l’acqua Aquilia al Mandracchio 2; ma nella stagione estiva il popolo capriccioso tempra gli ardori della canicola con la freschezza dell’acqua sulfurea, sia per lusso, o per necessità, non v’è persona e sia la più misera plebea che non imprenda a guarirsi d’ogni malore con l’acqua sulfurea, panacea generale come l’idropatia alemanna. Per tut- to si vende acqua sulfurea, per tutto si beve acqua sulfurea dove vedete orciuoli, bicchieri e frasche; e il venderla è il più bel mestiere di chi non ha altro mestiere che di saper gridare con voce più stentorea per le vie. Intanto tutta l’acqua sulfurea che si vende e si beve in Napoli e suoi contorni, viene attinta dal solo fonte che sì trova sotto la strada di San- ta Lucia.

  1. 1    Bolla. Nome di un acquidotto, così dello dal rigonfiamento che fan le acque nel punto di scaturire dalla terra presso le falde occidentali del Monte Somma, in un sito denominato la Preziosa. — Carmignano. Nome di un altro acquidotto, così detto perché Cesare Carmignano. patrizio napolitano, insieme al valentissimo matematico Alessandro Ciminelli concepì l’idea di condurre in Napoli le acque del fiume Faenza.
  2. 2   Mandracchio, rione presso la Dogana nuova nel quartiere di Porto.

Santa Lucia ne’ remoti tempi non era che un piccol paese di poveri pescatori, lontano da Napoli, sotto il monte Echia, nella region luculla- na, presso il convento del Salvatore, ove oggi sorge il Castello dell’Uovo e le grotte platamoniche; ma Napoli estese a poco a poco le sue braccia e la raccolse nel suo grembo: oggi Santa Lucia è a Napoli ciò ch’è una rosa nel seno di una bella donna. Ma per quante metamorfosi abbia su- bite, per quanto si sforzi la civiltà moderna a cambiare la faccia di sua prima origine, nell’intimo quel luogo è sempre l’istesso, cioè il luogo  de’ bagni, delle cene dei romani; e quei cuori sono sempre dell’antica islessa tempra. I Luciani hanno dialetto diverso dai cittadini di Palepo- li, modi più semplici; fieri de’ loro diritti e delle loro costumanze, si sono nei tempi più difficili della città dimostrati generosi, affabili, di- sinteressati. Per antica consuetudine godono la proprietà delle acque minerali, quantunque nei tempi andati l’acqua lucullana, delta ferrata, dalla Città fosse decretata di pubblico uso per cittadini e stranieri senza eccezione alcuna, come si legge nella lapide del Chiatamone 1: oggi è ben alt rimente. I Luciani però conservano la privativa dell’acqua sul- furea ch’essi vendono, e con tal lucro vivono tutto l’anno, prendendo in prestito l’inverno per pagare l’estate. Quella idropisia sulfurea del po- polo napolitano e de’ paesi vicini sembra un tributo imposto dalla provvidenza a prò di tanta povera gente. Mi duole che i più forti colle- gati soverchino i più deboli e i più indigenti. La vendita dell’acqua si  fa

1 Questa lapide si trota propriamente sul muro rimpetto la piccola scala che mena alla fonte dell’acqua ferrata, e vi fu posta sotto il governo del Viceré Don Luigi Tommaso Rai- mondo Conte di Arrach: essa è tale quale la riproduciamo qui appresso:

APPARTENENDO AL NRO TRIBLE LA PIENA CURA SU QUESTA ACQUA FERRATA SPERIMENTATA GIOVEVOLISSIMA A NO

STRI CITTADINI, E CONCORRENDO ALL’USO DI ESSA MOLTISSIMA GENTE BISOGNOSA DELLA VIRTÙ DI LEI, PERCHÉ

TUTTI SENZA LA MINIMA ECCEZIONE POSSONO GODERNE DELL’UTILE, SENZA DISPEDIO ALCUNO, ORDINIAMO CHE NESSUNO ARDISCA INTROMETTERSI NELLA DISTRIBUZIONE

DI ESSA ACQUA, SENZA ESPRESSA LICENZA DEL NRO TRIBLE, NE PER ESSA SOTTO QUALSIVOGLIA COLORE,

E PRETO ESIGERE DENARO ALCUNO, BENCHÉ MINIMO, SOTTO PENA DI DOGATI CINQUANTA, E MESI SEI DI CARCERE IN SAN LORENZO IL PRIMO DI SETTEMBRE 1731.

GIUSEPPE CAPECE SCONDITO DUCA DI CAMPOCHIARO. BARTOLOMEO ROSSI. GAETANO FALCINELLI.

INDICO GUEGUARA. GIULIO PALUMBO. PRINCIPE DI PALO. AGNELLO VASSALLO SECR.

dagli uomini da un’ora di notte sino al mezzodì, quindi dalle donne sino al ritorno dell’ora accennata.

Avanza un’ora del giorno, ed è questo il tempo di scendere a Santa Lucia per respirare l’aria della marina. Percorre la via del Gigante lun- ga tratta di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni condizione; ché all’acqua sulfurea va il nobile e il plebeo come ad una sacra festa. Mari- nari, carrozze che si fanno strada in mezzo la calca, acqua, bicchieri, tarallini 1, urli, canti, gridi; ecco Santa Lucia in giorno festivo.

La prima volta che scendete a bere in quell’amenissima riviera tutte quelle venditrici, giovani e vecchie, co’ loro bicchieri colmi d’acqua zampillante come sciampagna, vi si fanno d’intorno supplicandovi; e voi potete scegliere come un Bascià quella che più vi aggrada, ma nei giorni seguenti non vi è più dato di cambiarla senza la taccia di scorte- sela vostra bella Luciana vi ha già incaparrato come suo avventore, ed è rispettata dalle compagne osservatrici della patria costumanza, che in- franta cagionerebbe sanguinose risse. Chiudono i Luciani questo loro lucroso mercato con una festa speciosa l’ultima domenica di agosto in onore di Nettuno, oggi sacra alla Madonna della Catena, nel qual dì si tuffano in mare, e nel secolo scorsovi gettavano a forza chiunque a quell’ora si trovasse passando per la riviera 2.

Se poi volete vedere la fonte donde scaturisce l’acqua sulfurea, scen- dete per la grande scalinata, e dall’una e l’altra parte vedrete piramidi di co struite a maglia elevarsi dalle ceste dei venditori, e fra cento don- ne che vi sollecitano a bere vi troverete in un misterioso oscuro grotto- ne, tempio salutare di migliaia di gente. Un indistinto suono di voci, di grida, di canti unito al rumore delle acque scorrenti, un andare ed un salire dalla profonda fontana, un frastuono ove spicca l’acuta parola fe- minile: Oh chi vece, fredda, fredda, oh chi veve! 3 Un suolo lubrico ed infangato, il ruotar delle carrozze che passano sopra la volta del sotter- raneo pari a tuono che romba, ed in mezzo a quel trambusto non si fa che empire e riempire bicchieri corciuoli, orciuoli che poi si caricano la notte su barelle per Portici, Torre del Greco, e su carri e carrctti per tutto Napoli, per Caserta, per S. Maria, per Capua, ec. E però, quando la notte Toledo è quasi sgombro di gente e di vetture, e le botteghe de’ mercanti tutte chiuse, tu ti vedrai passare innanzi di questi carretti di orciuoli che si recano a Santa Lucia, ed altri che di Ih ritornano per provvedere tutti i posti e più lontani della sanatrice d’ogni male,  acqua

  1. 1 Piccole ciambelle.
  2. Ved. l’articolo su’ Marinai.
  3. 3  Oh chi beve, fredda, fredda, oh chi beve.

sulfurea. Ogni carretto è circondalo da tutta una famiglia, che si reca nell’emporio della sacra fontana, dove altri cento carri e barche vanno per l’istesso oggetto: chi è destinato a guardare il piccolo carro, chi a empire le mmommare 1  e chi a numerarle e caricarne la vettura, che  già ritorna allegra e festiva nel modo più poetico e bizzarro. Il padre di quella famigliuola che trascina il carro, il figlio maggiore lo spinge di dietro, da due lati camminano le due figlie scalze e piene di vasi, e il più piccolo con una semplice camicia che in parte copre la nudità, in parte no, con una cesta in capo piena di orciuoli chiude la marcia facendo di retroguardo. Seduta poi come in trono sopra le mmommare sta la vec- chia madre, come la regina Pomarè, tenendo un nipotino sulle ginoc- chia come Iside che porta Oro nel seno; e tutti cantano canzoni d’amo- re con prolungata e noiosa cantilena.

Quando poi una voce stridula e acuta più di un sistro vi sveglia allo spuntar dell’alba e torna a risvegliarvi dal sonno vespertino gridando: Chi vo vevere ch’è fredda! chi vo vevere! fredda, fredda!!! Uh! comme la tengo annevata, e volete conoscere da qual sonora ferrea gola essa parte, fatevi al balcone, e vedrete questa 2 o altra consimile vecchia tut- ta coperta di cenci, livida e scarna, piene le mani di orciuoli e bicchieri, abbrustolita dal sole e con un fazzoletto che le cinge la testa, va motteg- giando ad infrascare le fiamme de’ giovani cuori delle graziose modiste che stanno in una stanza a pian terreno o sulla via aggruppate intorno alla maestra, come funghi ad un pioppo caduto. Disseta quel crocchio e passa, e senza perder tempo empie il grande bicchiere e lo presenta al taciturno ciabattino che lavora sulla strada: riscuote il convenuto tor- nese 3 e grida la solita canzone alla soglia del falegname, ma in tuono più basso:

Acqua zurfegna fresca comme la neve! e quegli aspramente rispon- de, senza scomporsi dal suo lavorio: Io me bbevo l’acqua de lo pozzillo che sape depozzolamma.

Mara me! chesta è de lo cannuolo, pe l’arma de patemo. Se non è bona non me la parate.

Va vattenne mmalora de Chiaia, co mmico nce pierde lo tiempo! 4

1 Orciuoli.

2Vedi la figura.

3 Moneta napolitana che vale mezzo grano.

4 Pozzillo — Lungo dove sorge l’acqua solfurea di cattiva qualità.

— Misera me! questa è della cannella, per l’anima di mio padre. Se non buona non me la pagate.

Vattene vecchia strega, meco tu perdi il tempo. Mmalora de Chiaia: nome dato ad una vecchia che era dal popolo tenuta per strega o fattucchiera.

Essa guarda intorno su i balconi se vi è devota della salutifera acqua sulfurea che la chiami, gitta come una cornacchia avida di cibo l’ultimo grido: Chi vo vevere! abbrevia l’espressioni e parte.

Quanti mestieri fa quella vecchia? Tutti, secondo le stagioni. Con  una gran caldaia vende le spighe di granone in maggio; a novembre al- lesse, pizze o casatielli 12; e cangiando molti mestieri guadagna sino un ducato al giorno, ma il gioco del lotto e la cantina la fanno spesso gri- dare: Sempe fatico e sempe scauza vaco!

EMMANUELE BIDERA

1 Allesse, castagne colle nell’acqua, senza scorza, baloge. — Pizze, piccole schiacciate che si fanno fritte. — Casatielli, piccoli pani fatti di granone con dell’uva passa

L Franfelliccaro! Ma dov’è la piccola spasa rettangolare e ricurva su di una mano? dov’è l’atteggiamento dell’altra mano fra la bocca e l’orecchio mentre il venditore intuona la sua cantilena? dove sono a più ragione i franfellicchi, quei pezzetti giallognoli di mele consolidato mercé un processo tutto particolare?

Ahimè! sono spariti! Tutto cangiò. Spasa, cantilena, mercanzia, tutto andò soggetto a metamorfosi.

Un bel giorno, che non so se debba segnarsi con bianco o negro lapil- lo, se debba annoverarsi tra i fasti o trai nefasti, un bel giorno l’arte del franfelliccaro subì una rivoluzione completa.

Un’invasione di dolciumi siciliani ebbe luogo, che vennero come stormo d’uccelli rapaci a calarsi sulle allettatrici spiagge della città del- la Sirena. Alla spasa fu sostituito un leggier tavolino portatile, tutto contesto d’assicelle e rcgolelli, sul quale ora il venditore trasporta le  sue merci per tutte le strade della città, 1 poggiandolo in terra o all’avvi- cinarsi di un compratore o nelle piazze più spaziose dove può sperare maggior concorso di monelli golosi.1

Al grido che ancor mi sento rimbombar nell’orecchio I zucchere jan- che, i mele, re calle i o 1, è succeduto un canto più dolce, più incivilito, che proclama la vendita di leccornie di più grato aspetto. E ai franfel- licchi, ai tradizionali franfellicchi che almeno almeno erano un buon lambitivo per la tosse, sapete che si è surrogato?

In primo luogo alcune pasticche che han la forma delle pedine che servono al giuoco della dama, c che hanno fra noi conservalo il nome spagnuolo di, cosperse di alquanti minutissimi confettini di svariati co- lori; dopo di ciò veggonsi schierati sulla non candida carta che copre il deschetto ambulante dei pezzi di materia zuccherosa imitanti la forma dei sigari in piccolo, non senza un pezzetto di color rosso (che vuol dir fuoco) ad una delle estremità; accanto ad essi vedesi il zucchero pren- der forme diverse, quando di spirali come le paste siringate, quando di secchie microscopiche, quando di uccelli più piccoli del mellivoro o co- librì, quando di altre bagattelle; non mancano gli antichi franfellicchi, ma quanto, ohimè! quanto mutati da quei di prima: scoloriti, sbiaditi, sbianchiti, scialbi, non sai più se sian di mele o di zucchero, e solo alla forma riquadra e da due lati scanalata puoi esser tentato di dar loro l’antico nome. Ed in mezzo a queste profanazioni vandaliche e sarace- niche, in mezzo alla sparizione di un monumento gastronomico degli avi nostri, di un cibo nazionale ed esclusivamente allignante sotto il bel cielo di Partenope, chi riconoscerebbe il vispo lazzarello che scalzo e la- cero correva le vie popolose di Napoli? Ora quel tavolino gli è d’inciam- po nel corso, gli tarpa le ali che come a Mercurio gli davano agilità ai piedi, lo impedica, l’impastoia, lo tartarughizza, lo intestugina! E a così nuova sciagura come non imporre nuove denominazioni? Ora la canti- lena del venditore è tre calle na caramella, no ra quatto caramelle. Grido funebre, più funebre di quel che Rossini fa emettere all’ombra di Nino nella Semiramide; grido ferale, più ferale di quello che il Verdi fa rimbombare intorno allo spodestalo doge di Venezia. Esso annunzia l’avvcnimendelle caramelle e la detronizzazione dei franfellicchi, come nei DucFoscari la campana annunzia coll’elezione del nuovo doge la morte del vecchio.

E pure i franfellicchi ebber l’onore di esser ricordati da Goethe, e questo dovea bastare, quando altre ragioni. pur non militassero in loro favore, per far

sì che questa cotanto boriosa novella. civillh li ri spcllassc:qucsta no-

1 Questo parole si traducono: Di zucchero bianco, di mele, tre calli uno. Nota per i filologi  e i linguisti.

vella civiltà che cangia i boschetti e i giardini inglesi in vigne e in gelse- ti, i palagi antichi in locande, le incisioni in litografie, i trattati in ma- nuali, e i franfellicchi in caramelle.

Ma i franfellicchi non periranno. È vero che essi ora vivono di una vita assai peggiore di morte, dimenticati, non riconoscibili, confusi coi loro oppressori, fuggenti dal consorzio dei fanciulli che n’eran ghiotti; ma io leggo nei destini dell’avvenire che sorgerà di mezzo al loro mele un vindice, un restauratore, che li riporrà nel pristino onore, nello splendido seggio di preeminenza in cui li videro i nostri padri, e in cui  li vedranno di bel nuovo i tigli nostri per delizia del loro palato.

Nè tarderà molto ad avverarsi il presagio. Già sui deschetti la merce più abbondante sono i franfellicchi; già il loro candore vassi oscurando ed inchinando inverso la giallezza con un colore.

Che non è giallo ancora e il bianco muore.

Se ne veggono pure dei rosei, per desiderio di novità. Tutto predice che la restaurazione avrà effetto, che la controrivoluzione non è lonta- na.

Intanto le nuove merci hanno introdotto nuovi giuochi. il più comu- ne e il più facile è a pari o caffo: un monello prende una manata di pa- sticche o d’altro, la copre accuratamente, e domanda: o? Se il venditore indovina, incassa un trecalli e non dà niente; se sbaglia, perde una ca- ramella, un sigaro, un franfellicco o un altro qualunque degli oggetti che vende. Poi le parti s’invertono: il venditore domanda, e l’altro cerca d’apporsi. Ma il fatto sta che i monelli pagano quando perdono e man- giano quando vincono, sicché al far dei conti il borsello, già ben altro che gremito, diviene interamente smunto, né la pancia  ne  ingrassa gran fatto.

Un’altra volta il giocatore prende una, due, tre o fin quattro pastic- che fra le dita della mano a questo modo: stando la mano tesa colla palma volta in giù, si abbassa il medio e riunisconsi l’indice e l’anulare al di sopra; collocansi le pasticche sotto queste due dita congiunte, e si sostengono col medio. In tal posizione cercasi di rompere le pasticche, o battendo la mano sulla coscia, o semplicemente (e questo è il non  plus ultra dell’abilità) dondolandoli braccio per aria come per descri- vere un semicerchio.

Si giuoca pure a fare un determinato numero di pezzi di una cara- mella o di un sigaro, lasciando cadere l’oggetto prescelto dall’alto in terra una volta sola.

Ecco due fanciulli scelgono due caramelle, una per ciascheduno, e attenti aspettano che una mosca venga a posarsi su di una di esse e renda vincitore colui che la scelse per sua. Giuoco antichissimo, che Franco Sacchetti nella diciottesima delle sue novelle ricorda fatto colle monete e con sottil malizia da quel Basso della Penna in danno di certi Genovesi arcatori: egli con una pera fracida ungeva il suo bolognino d’argento, e la mosca subitovi si ponea.

Un giuoco de’ più difficili e d’ingegnosa invenzione è il seguente. Scelti due oggetti di simile specie, ciascun giocatore muove il suo verso quello dell’avversario, e si vanno incontro con gran riguardo, come due duellanti alla pistola marchant l’un sur l’autre. Ma qui non vince chi ferisce il primo: al contrario, il primo che vien toccato è il vincitore. Sicché li vedi ora appressarsi, ora andar lontani con giri e conmaestri passi, ora crescere innanzi

Intorniando con girevol guerra

e presentare il fianco scoperto al nemico, e sempre avvicinare di più l’un all’altro e sempre fuggire il contatto, come l’asintoto all’iperbolo, come la linea lissodromica al polo.

Ma questi giuochi novellamente introdotti cesseranno pure quando ritorneranno all’avita onoranza i franfellicchi. Vedremo allora di nuovo correre spediti gli snelli venditori per le vie di Napoli senza mai soffer- marsi oziosi; gli udremo ripigliare l’antica cantilena con voce più acuta e penetrante; e quando stanchi dalla via lunga vorranno spacciar più presto la loro residuale mercanzia, assisteremo attoniti spettatori colla bocca aperta, cogli occhi immobili ed intenti e senza trar fiato al giuoco difficilissimo di far giungere in bocca e mangiare senza  aiuto  delle mani un franfellicco posato sulla fronte e finanche sul cocuzzolo. Già mi pardi vedere un monello più ardilo, coll’arrugar della fronte, coll’inarcar delle ciglia, col batter delle palpebre, col contrarre delle guance, coll’arricciar del naso, col sollevar del labbro superiore, coll’allungarvi sopra l’inferiore, e mettendo in movimento tutti i mu- scòli della faccia come chi è preso da tic doloroso o da spasmo cinico o da riso sardonico, dopo un quarto d’ora di pazientissima impazienza, tutto grondante di sudore, riuscire ad inghiottirsi un franfellicco ad ufo.

EMMANUELE ROCCO.

Ecco un uomo che presta segnalali servigi alla società, e che con la spazzola e la cassetta tende anch’egli al progresso universale, illustran- do particolarmente la parte meccanica e materiale con cui gli uomini camminano.

Ecco un industrioso tutto nostro, tutto napolitano, tutto indigeno. Che la profumata Parigi vanti i suoi dècroiteurs, ei suoi magazzini d‘illustrazione, che l’affumicata Londra citi i malinconici suoi Shoe- Blackers, noi proteggeremo i nostri modesti e lepidi pulizza-stivali, a’ quali la Crusca ha il torto di non aver dato un bel nome rotondo e so- noro e di quindici sillabe per Io meno. Ed invero, chi può contrastare al nostro l’impareggiabile modestia del suo mestiero? Allorché tanti salo- ni si aprono ogni dì pel taglio de’ capelli, allorché da ogni banda sorgo- no nuovi arricciatori, nuovi profumieri, nuovi cappellari, per abbellire questo emporio di sciocchezze che abbiamo sulle spalle, il pulizza-sti- vali si limita a farvi rispondere i piedi, questi poveri facchini del corpo umano condannati a far muovere questo ridicolo bipede in paletot che addimandasi uomo.

1 Il primo Pulizza-stivali in Napoli fu un facchino che per aver nel 1806 lustrato gli stivali d’un General francese, ne ricevette in compenso una moneta d’oro. Oggidì la maggior  parie di questa gente si compone di ciabattini, che la domenica si danno al mestiero di pulizia-stivali, e di tutti coloro che non hanno voluto o saputo apprendere un’arte qualunque.

Innanzi di toccare la fisiologia del pulizza-stivali, parrai elle cada in acconcio il dire qualche cosa su i piedi, troppo ingiustamente trascurali in questo mondo di capi sventati. Dimando un poco, chi ha mai pensa- to al decoro di questi membri del corpo umano? Bel vantaggio invero ha fatto loro la genia de calzolai! Stringerli, incepparli, imprigionarli in una pelle ingratissima e dura, feconda di martiri e di calli. Eppure sol- tanto i piedi mettono gli uomini tutti ad un livello sulla terra. I più ric- chi e potenti debbono toccare la terra co’ piedi, come i più poveri. Inu- tilmente cercano i grandi elevarsi con altissime carrozze, nascondendo  i loro piedi sotto serici cuscini: eglino non possono vivere sempre in un cocchio; e nel momento in cui smontano, debbono per forza porsi a li- vello de’ loro domestici. Evviva la democratica indole de’ piedi! Ed il pulizza-stivali ha compresa tutta l’importanza del suo mestiero: egli non si accomuna né co’ grandi, né co’ troppo indigenti; avendo quelli i loro stivali di pelle lucida, ed i secondi non avendo stivali di sorta alcu- na. Egli dunque non s’indirizza che semplicemente agli onesti impiega- li, a’ professori modesti, agli artisti, a’ commessi, agli studenti, e qual- che volta ancora a’ mercanti, a’ maestri di bottega ed agli operai.

Vedetelo; egli conta l’età del Dante quando si trovò nella selva oscu- ra; con la dritta mano tiene la coreggia nera che sostiene la sua casset- ta, e nella sinistra la spazzola da’ crini duri. Calzoni di tela di Castel- lammare a larghi quadrati, una camicia che ha per isparato una fascia di peli neri che gli crescono sul petto, ed un cappello tutto logoro che ricorda tre generazioni, formano la toletta di questo industrioso. 1 Egli sta all’angolo di un caffè, di cui gli avventori sono quasi tutti suoi abbo- nati a tre carlini al mese, con mezza paga anticipala; e sta quivi dalle  sei del mattino fino alle otto della sera, non lasciando il suo posto che a mezzogiorno, per andare nella più contigua cantina a prendere un pic- colo rifocillamento. Ordinariamente ogni caffè ha due pulizza-stivali privilegiati; sicché questi due individui possono dirsi aggiunti allo sfac- cendato, al gazzettiere e allo spione, questi tre esseri che vivono soltan- to nell’atmosfera vaporosa de’ caffè.

Quando scocca l’ora del mezzogiorno, uno de’ due compagni pulizza stivali affida all’altro la sua cassetta, la figlia sua cara, il suo capitale, la sua vita; ed il compagno la pone d’accanto alla propria, come due so- relle. Questo attestato di amicizia e di fiducia è contraccambiato con pari confidenza in altra congiuntura, cioè quando l’officioso compagno si assenta una mezz’ora per adempire a qualche straordinaria commis-

sione, come per portare una lettera, un’ambasciata, un fardello, od al- tre simili cose. E qui debbesi avvertire, ad onore di quest’onesto uomo, che egli non s’impaccia mai di sapere se l’individuo a cui è diretta una lettera appartenga al sesso nobile o al bel sesso; soltanto se la commis- sione è per donna, egli spiega nell’adempimento del suo dovere tale e tanta discrezione ed abilità, che portiamo avviso niuno meglio di lui riuscire in queste dilicate faccende..

Talvolta tra due pulizza stivali di un medesimo caffè si stabilisce un’associazione d’interessi; per modo che pongono in comune i loro lu- cri, e dividonseli la sera. Allora stanno essi impalati alle porte del caffè, o seduti sulle loro cassette, senza darsi minimamente l’incomodo di fare udire la loro parola d’ordine, l’eterno pulizzamm pulimm; dappoi- ché niuno di loro due vorrebbe faticare a profitto del compagno.

Quando il pulizza stivali si accinge all’opera, egli s’impadronisce del vostro piede, il pone bellamente sullo zoccolo di legno rialzato sulla sua cassetta, lo accarezza dapprima e ne toglie il fango o la polvere, lo unge con un poco della sua mistura, e poscia si pone al lavoro dello strofinio. Terminalo di pulire un piede, egli dà un colpo di spazzola sulla casset- ta, e vi comanda così tacitamente di adagiar sullo zoccolo l’altro piede per procedere ad una simigliante operazione, per compenso della quale riceve il modico e umilissimo prezzo di un grano, lucrato veramente col sudore della fronte. Beati tempi d’una volta, quando al pulizza stivali non si dava meno di due grana, e quando da tutti portavansi gli stivali  a gambe, per la lustratura de’ quali si pagavano almeno cinque grana. Ora nissuno porta più gli stivali a gambe, se togli qualche inglese, il quale d’altra parte ha per sistema di andar sempre con gli stivali spor- chi. Non so invero perché di presente il pulizza stivali non debbasi chiamare pulizza scarpe.

Il giorno avventurato del pulizza stivali è la domenica o qualunque altro giorno festivo. In questo dì egli va in casa de’ suoi abbonati della sola domenica, e poscia messosi al cantone della strada gli piovono ad- dosso avventori a diluvio, ché anche i più guitti e laceri vogliono porta- re le scarpe lustre. In questo giorno odesi in tutti i vicoli e vicoletti del- la capitale la sua voce bassa e sonora che va gridando polimm politore Parigi.

Tra gli altri impieghi che il pulizza stivali intraprende, oltre al suo mestiero, è quello di andar spacciando biglietti di teatro al tanto per cento. E non credete ch’egli sia del tutto estraneo a’ misteri teatrali;dappoiché quando le ombre della sera cadono sulla terra e sul- le scarpe, il nostro uomo non resta ozioso, ma si caccia animoso sulle

tavole di un proscenio per figurare da comparsa. Voi lo distinguerete di leggieri in mezzo a’ suoi compagni;dappoiché egli tien per assuefa- zione gli occhi sempre abbassati su i piedi degli altri; e poi… le sue  mani sono là per tradirlo!.. Questo uomo che pone tanta cura per far belli i piedi, ha poi tanta negligenza per le mani. Il pulizza stivali che non fa da comparsa lava le sue mani due volte all’anno, la pasqua ed il natale.

Il pulizza stivali è piuttosto di umor bizzarro ed allegro, come tutti questi industriosi che fanno molti mestieri. Se, mentre che vi lustra le scarpe, voi l’onorate d’una parola, egli non mancherà di narrarvi un fattarello, o troverà a locare un mottetto. Vi sono non però de’ giorni, in cui egli è malinconico, i giorni piovosi. Allora ei fissa tristamente i suoi occhi su i piedi de’ passanti, e sul fango della strada, senza gridare ché troppo bene egli sa che la sua opera tornerebbe inutile: lo incontre- rete però seduto sotto la volta di un palazzo, con la cassetta innanzi a lui, e sovente il vedrete addormentato. Oh! che cosa saranno mai i so- gni di un pulizza stivali! Come la sua fantasia debbe veder tutto in luci- do, o tutto in nero!

Nel nostro secolo però è sorto un terribile nemico al pulizza stivali, un nemico che gli dichiara incessantemente aspra guerra, ed il quale egli affronta mai sempre con coraggio e con perseveranza; questo ne- mico che attenta crudelmente a’ suoi giorni, è la VERNICE. A dispetto degli sforzi riuniti di tutt’i pulizza stivali per iscreditare questa barba- ra invenzione, la vernice minaccia l’invasione de’ piedi, come già ha in- vaso le sale e i magazzini. Nè credete che la vernice sia destinata a co- vrire soltanto le scarpe aristocratiche, perché, al contrario, essa giova mirabilmente a nascondere le ferite delle scarpe di qualche lion al ri- basso, o di qualche impiegammo a sei ducati al mese. La ricetta è bella e trovata. — Calzate la scarpa ferita, ed applicate sulla crepatura un empiastro di vernice che passi fin sulla calzetta; sfido chiunque ad ac- corgersi dell’apertura.

  1. nostro secolo può ben dimandarsi secolo inverniciato, né più adatto aggiunto gli potrebbe guari convenire. Tanto è l’orrore che que- sto nome di vernice ha destato nella classe de’ pulizza stivali; che una sola volta eglino sonosi ricusati a spacciar biglietti di teatro, e ciò è ac- caduto quando al Teatro Fiorentini si è data la Vernice del signor Duca di Ventignano.

FRANCESCO MASTRIANI.

«Se non posso trovar niente Perché faccio il trovatore?»

Quando le voci ed i rumori d’una sera tumultuosa di Napoli inco- minciano a diminuire, e la notte, a grado a grado inoltratasi, inviluppa la città nelle sue tenebre e nei suoi silenzi, sbucano non si sa donde de- gli esseri misteriosi che, ad uno ad uno, col viso basso e gli occhi al suo- lo, come)tanti congiurati da melodramma, si vanno strisciando lungo  le mura delle principali vie di Napoli, facendo oscillare con getti d’ombra fantastica una piccola lanterna, che, accomandata per un cor- dino al loro indice, va quasi rasentando il suolo. 1

Nulla di più innocente di questi esseri che si annunziano con appa- renze così sinistre; essi appartengono a quella schiara indefinita di mo- nelli industriosi che esercitano uno de’ mille piccoli, anzi minimi me- stieri napolitani. Se non che, più ricchi de’ loro compagni che non pos- seggono alcun capitale, salvo il fisico, questi almeno elevano il loro ano a dieci soldi, valore della lanterna, e del cestino, che, quando si, quan- do no, portano al manco braccio infilzato, e la massima loro perdita all’olio che alimenta quella lucerna.

1 Vedi la figura.

Si è voluto — non sappiam perché — dare la pomposa nomenclatura di trova sigari a questi poveri diavoli, senza considerare che spesso cercano senza trovare, e che quand’anche trovano, non trovano mai si- gari, sibbene qualche mozzicone più o meno invisibile, a seconda dell’avarizia o della lunghezza dei baffi di chi lo gettava. Oh sì! avrebbe- ro ben provveduto alla propria esistenza, se volessero spendere le ore della notte ed il lume della loro lucerna «oleum et somnum» a cercar sigari! Oltredicché sarebbero assai impacciati, non essendo muniti di polizza di privilegio, nello smaltire questa merce cosi detta d’eccezione. Quegli adunque che va cercando, con maggiore o minor probabilità  di trovarne, i resti dei sigari fumati, è il personaggio che si decora col

nome di trova sigari.

Vedete dove va a nidiare l’albagia dei titoli!

Ed ora che abbiamo convenevolmente ristabilito il nome, passiamo all’individuo.

Il trova sigari non esercita soltanto questo mestiere; ne ha altri sei o sette dello stesso calibro, che fa seguire l’un l’altro secondo le ore del giorno. Esso è successivamente portatore dei commestibili e delle provvigioni fatte dai cuochi:banditore e venditore delle canzoncine che ad un soldo l’una spacciano i Béranger napolitani: cercatore di cenci e ritagli, il che è l’alunnato necessario in ogni specie di professione, e col quale egli aspira un giorno ad elevarsi all’ambita dignità di saponaro; echi sa, chi sa se il foglio che noi stiamo scrivendo, o quello che voi sta- te leggendo non discende per lato paterno dai cenci raccolti dal nostro povero trovatore, affidati alle caldaie del signor Lefebvre, e passali per le mani delle belle fanciulle di Sora. — Dopo la pioggia dassi a scanda- gliar le fossette che sulle vie vedete tra le commessure delle selci scan- tonate, per pescarci i chiodarelli o altro tale tolto dallo strascico alle ciabatte dei mulattieri e dei cittadini, e che la china dei torrentelli vi aveva sepolto. Passionato sempremai pel suo uffizio dell’assiduo cerca- re, quando non ha di peggio a fare, va cercando i cani smarriti, pei qua- li ha tale un istinto, che si direbbe essere esso pei cani quel che i cani del San Bernardo sono per l’uomo. —Finalmente a sera avanzata eccolo alla lanternina — questa fida compagna delle sue miserie e dei suoi lu- cri —a raccattar gli avanzi dei fumatori.

Il trova sigari ha la carta topografica, direm quasi geografica, del suo impero. La lunga striscia che dal Mercatello va alla Reggia, e quella che dal Molo mena tortuosamente alla Villa a Chiaia sono le sue strade po- stali, segnate sugli atlanti con una doppia linea continua; gli spiazzi che

sono innanzi alle botteghe da caffè, sono i capi luoghi; quello che dal Caffè d’Europa si estende sino al teatro S. Carlo, è la città capitale. Egli adunque batte a passo proporzionato di posta la via regia, si sofferma con maggiore o minor successo nei capiluoghi, come il mercatante o il commesso di negozio che viaggia pei propri traffichi, e finisce per far centro della sua massima speculazione la città capitale. Qui egli è quasi sicuro di raccattare merce d’Avana, laddove negli altri luoghi non ispe- ra che foglie indigene; giova dire che il trova sigari non ispinge così ol- tre l’amor patrio da preferir queste ultime;egli è per questo verso d’una straniomania oltraggiarne!…

Tra i cento istinti che ha il piccolo trova sigari, ha quello principal- mente d’indovinar dall’aspetto l’avarizia o la magnificenza del fumato- re; egli antivede, e vi potrebbe dire senza sbagliar d’una linea a qual punto il fumatore getterà il resto de) suo sigaro.

I più avidi cumulano due professioni, come coloro che esercitano medicina e chirurgia; e sono quelli che portano il cestino al braccio: essi raccattano ad un tempo rimasugli di sigari e cenci. «Deficiente uno non deficit alter». I più coraggiosi si soffermano innanzi alle invetriate d:una bottega da caffè, e di là, come gli astronomi seguono il corso de- gli astri, van seguendo con l’occhio la lenta combustione dei vari sigari che bruciano tra le labbra degli avventori, e ne agognano, ne affrettano coi voti l’immatura fine. Non così tosto il fumatore lascia cadérsi sde- gnosamente o negligentemente quel pollice di foglia avvoltolata che già gli ardeva le labbra, il monello aspetta il primo che esca o che entri, non osando schiudere quel recinto a lui vietato, si fa piccin piccino, si ficca velocemente dentro, toglie la preda, e fugge via. Busca talora in questa sortita uno scappellotto dal garzon di bottega, ma dove mai fu guadagno senza rischio?… Chiedetene alla gente che patì assedio.

Consumato che è il soldo d’olio della serata, egli spegne la sua lan- terna, come il Figaro di Rossini, e per non perdere gli ultimi momenti della sua ritirata, presceglie quello che gli sembra il più generoso tra i fumatori, e ch’ei sa dover battere la stessa sua via; gli cammina dap- presso, a rispettosa distanza, e se ha il viso duro, il che non è raro, gli chiede il sigaro benché bruciato men della metà; se poi è moderato cammina sempre, ed aspetta.

Talvolta il sospettoso che vede un monello tenergli dietro cosi assi- duamente, dopo essersi mulinato il cervello credendolo successiva- mente, spia di ladri, o ladruncolo, spia di sua moglie, della sua amica, o spia bell’e buona, si rivolge bruscamente e gli dice con una voce burbe-

ra: — Che fai tu Ih? Cammina avanti.

— Eccellenza, — risponde allora il monello con quella espressione tutta propria tra l’allegro e l’umile— aspetto che abbiate finito il sigar- ro.

Ed il sospettoso a mandarlo al diavolo, racquetando la lesa coscien- za.

Questo seguir le tracce del fumatore in attenzione del suo mezzo si- garo è fatto più volte e con maggior profitto quando costui invece di ri- dursi a casa, trae a S. Carlo. È colà che la messe del piccolo trovatore è più sicura, più abbondevole, e soprattutto più ricca, perché a qualun- que punto siasi giunto del sigaro, quand’è l’ora d’entrare, lo si getta, e  si entra.

Sorto il nuovo dì, la merce raccolta alla spicciolata, è venduta con la stessa importanza con la quale il trafficante s’occupa a vendere i suoi carichi d’oli o di granaglie.

Innanzi al teatro del Fondo, su piccoli fogli di carta, spiegati al sole come la ricchezza degli estremamente ricchi… o degli estremamente poveri, avrete potuto vedere dei monticelli di pezzi di sigari, o serbanti la lor forma cono-cilindrica, o svolti e ritornati allo stato primitivo di foglie, novelli papiri! Quello è il fondaco, il deposito, il grand’emporio dei sigari a prova. Chi ne fa compera va sicuro di non essere ingannato; ei consegue quell’utopia che mal potrebbe adattarsi al matrimonio: è sicuro della riuscita della cosa che acquista. Tutti gli altri fumatori comperano i sigari alla cieca, come si prende un marito o una moglie, senz’antivederne la riuscita. Chi li compra ad un per volta, cerca, è vero, di guardare e d’assicurarsi se il sigaro è in buono stato, se non ha crepacce o altro, ma dopo tutta questa visita superficiale, è egli sicuro del suo acquisto? Quante volte non è stato costretto a gettar via il siga- ro impossibile!…

Una sposa o uno sposo sarà sicuro che la sua metà non è gobba, orba, né rattratta, ma può giurare sulla indole di essa? Quanti non si separarono per assoluta opposizione d’indole!…

Il cavallo si prende a prova, lo schioppo, l’oriuolo, il cocomero, ec. ma nessuna di queste cose dà tanta sicurezza all’acquirente come i si- gari del ‘ teatro del Fondo. Là giurate che essi son atti al fumo, perché hanno già dato pruova del loro valore.

Strana coincidenza! I sigari che cadono innanzi al teatro di S. Carlo, si espongono in vendita innanzi a quello del Fondo. Quante volle av- vien lo stesso delle opere! Quelle cadute a S. Carlo ci si fanno sorbire al Fondo!

Vanno poi colà:

I fumatori che hanno bocca incallita e bisogno del fumo acre e pun- gente dei sigari già fumati. In questo caso quei mozziconi vengono tri- turati in una pipa di argilla cotta, o fumati alla buona cosi come sono, finché il novello fumatore non sente l’odore dell’arrosto del proprio labbro:

I marinai che godono in masticare le foglie del tabacco… Ognuno ha  i suoi gusti, voi forse preferirete masticar zuccherini:

I soldati finalmente che si servono del succo di quella stucchevole fo- glia per lustrare l’ottone dell’arme… né diremo oltre, perché quando accettammo il carico di far da Plutarchi di questi uomini illustri del po- polo, non rinunziammo alla debolezza della nausea che poteva produr- ci un troppo immediato contatto cogli usi meno puliti del popolaccio.

Su questo spaccio di tabacchi non è dritto, né privilegio, la tassa è già pagata; il negoziante riposa sulla salvaguardia della legge.

E ciò per la merce.

V’hanno poi — e dove non sono? — i guastamestieri di questi mestie- ri infinitesimali. I cocchieri da nolo ne sono i veri tirannotti: fermi in- nanzi alle botteghe da caffè per aspettare o cercarvi i passeggini, chieg- gono loro soventi il sigaro che il trovatore messo A in sentinella aspet- tava con maggior dritto; talvolta poi lo veggono buttar via, e senza scender di predella, (un buon cocchiere da nolo non ne scende mai, si rompesse pur l’osso del collo il suo cavallo; scendono gli altri) senza calar dunque, fa cenno al suo garzone con la punta dello scudiscio di raccogliere quel tesoretto, con la stessa dignità con la quale un re dei mezzi tempi dal suo trono avrebbe accennalo con lo scettro ad un gran siniscalco.

Ed ecco una preda tolta al povero fanciullo, che per altro se ne ripa- ga, il più delle volte saltando dietro alla carrozza e facendosi portar gratis, finché lo scudiscio del cocchiere non pone un termine alla rap- presaglia.

Talora il conquisto, o piuttosto l’usurpazione è più contrastata: il monello trovatore ed il monello cocchiere s’agghermigliano a vicenda, la baruffa si riscalda, le fazioni s’afforzano, la lotta divien pugna, ed intanto dei due litiganti godono gli spettatori per la baruffa, ed il terzo pel contrastato bersagliere.

(Non si può trascurare la spiegazione di questa parola che nel dizio- nario popolare suona pezzo di sigaro molto corto, e ciò dalle schiere di questo nome chiamate oggidì cacciatori, nelle cui file sono ammessi uomini piccoli della persona. A questa nomenclatura s’oppone l’altra di

granatieri, rara fortuna del povero trova sigari).

Aggiungeremo alla nostra breve fisiologia, che questa piccola casta d’industriosi è talvolta più utile di quanto si crede; perocché raunatisi al dimani in congrega i vari individui di essa, si raccontano l’uno all’altro le loro buone fortune; e siccome a furia di cercar sempre e di aver l’occhio assiduamente esercitato all’invenzione, si giunge pur delle volte a trovaroggetti di qualche valore, come a dire il pendente d’un orecchino, il pomo d’un bastoncello, il bottoncino d’una camicia, lo spillo d’una cravatta che il laccio della lente elevata bruscamente all’occhio afferra e fa saltar via, senza che il miope se ne avvegga, e tan- te altre coserelle simili, così non vi sarò sempre inutile il dirigervi a qualcheduno di questi trovatorelli, e dimandarne; che se non è lui che ha rinvenuto l’oggetto smarrito, potrò mercé una ricompensa, dirvi quale dei suoi colleghi è stato il fortunato. Con ciò intenderete di leg- gieri, che vi sarò più facile, sempre mediante quella giusta ricompensa, ottenere oggetti cosi detti di affezione, che di valore.

Per asserir ciò, chi scrive queste poche pagine ha delle ragioni vale- voli, e non essendo contaminato dall’egoismo, gode di dare questo con- siglio. Il quale gli fa ricordare d’una di quelle avventure che potrebbero estendersi con qualche successo sotto la penna d’un felice novelliere, ma che egli è obbligato di raccontar qui alla buona, e senza il menomo orpello.

É la storia d’uno di questi trovatori, che, non per far giuoco di paro- le, ma perché sventuratamente così il credevano, era anche un trova- tello. Era un bel fanciullino, come oggi è un bel giovine, onore e decoro della sua famiglia, e lo chiamavano per soprannome il perché aveva i capelli d’un biondo forse troppo ardente: oggi li ha assai più soffribili. Questo bel fanciullo—perché era bello come una pesca — a simiglianza di molti dei suoi colleghi di mestiere non aveva letto né tetto «ni feu ni lieu» e viveva di solo pane, contro il sacro dettato, quando non recava la sera il suo bastevole tributo di punte di sigari; di pane e legumi quando era più fortunato.

Un cenciaiuolo ch’egli s’era avvezzo a chiamar zio, amministrava il ciel sa come! la rendita giornaliera del piccolo fanciullo, che il giorno era occupato continuamente a sceverar i cenci nel fondo d’un fondo di bottega in un vicolo perduto di Napoli vecchia, e la sera, come i pipi- strelli, ne usciva, togliendo seco il lanternino.

E lo chiamavano il Rosso non pure pel colore dei suoi capelli, ma perché sarebbero stati impacciati così il cenciaiuolo, come gli altri del rione a dare un nome a lui che non ne aveva alcuno, raccolto com’era

stato sulla via di Roma da un vetturale, quando appena usciva dalla prima infanzia, e lascialo in Napoli a quel suo compare, il cenciaiuolo o saponaro, che pensò farsene un garzone a buon mercato.

Si credette nel vicinato che egli avesse tolto quel figlio a la Madonna, allo stabilimento cioè dei trovatelli, e siccome quest’uso è comune nei buoni napolitani, nessuno ci pensò la seconda volta, e tutti trovarono più facile e più commodo di chiamarlo il Rosso, che di chieder del suo nome.

Una sera il Rosso era uscito colla sua lanterna e col paniere per la duplice cerca di avanzi di sigari e di cenci. Guidato dal suo passo, e più da quattro o cinque giovani che accesi i loro sigari al negozio di quelli di Avana alla piazza di S. Ferdinando scendevano verso Chiaia, venne con essi sin presso alla Villa; là raccolse un dopo l’altro i quattro o cin- que mozziconi gettati via, e cogli altri già raccolti gli parve aver buscata la sua serata. Smorzata perciò la lanterna pensò di camminare un po’ per proprio conto, e darsi spasso. Vide di lontano le finestre d’un bel palazzo schiarate perfettamente, ed una quantità di carrozze fermate innanzi alla porta. Più ch’ei s’accostava, sentiva venire a sé sul vento le ondate d’una musica lieta ed a cadenza, sinché giunto a rincontro delle finestre ebbe a rimaner estatico per lo splendore dei ceri e dei candela- bri, e per lo spettacolo di magnificenza che in iscorcio poteva intrave- dere sugli specchi dell’opposta parete.

Egli guardò, guardò lungamente lungamente; aspirava quella voluttà per tutti i pori — ed una specie di tristezza s’impadronì di lui.

Quando gli occhi si furono stancati, e che non ebbero più sguardi, ebbero lagrime: —il povero fanciullo si mise a piangere.

Quando gli occhi non ebbero più lagrime, si chiusero: — quella buo- na creatura s’addormentò.

Meglio così! aveva veduto troppo lusso rimpetto a troppa miseria, aveva paragonato quella splendidissima magione coll’angolo fuliggino- so nel quale egli svolgeva i nauseosi cenci, e quel brio e quella musica coi gemiti che la fame così spesso gli traeva dal petto: aveva pensato che non aveva una madre che gli fosse stata amorosa d’un sorriso… Aveva disperato insomma, ed aveva pianto…

Il romore delle carrozze, che andavano via, il destò; egli si accorse d’essere stato fuori cosi oltre nella notte; e temè forte non ne avesse le busse; scese dal parapetto della inferriata della Villa, e per giustificare la sua sì prolungata assenza cercò di buscar qualche moneta. La vista del danaro avrebbe, a suo pensiere, rabbonata la collera dello zio. Si ac- costa però alla porta, rasente ad un magnifico sterzo, nel momento che

una bellissima donna, avvolta nei suoi veli rosei, come una nube al tra- monto, saltava nella carrozza, guardando appena il fanciullo che a quella bella apparizione, aveva creduto essere appiè d’una creatura ce- leste, ed era rimasto con la mano stesa senza profferir la parola che chiede la cantò.

Se non che nell’ascendere che fe colei sulla staffa della carrozza, urtò col braccio a qualche angolo dello sportello, e fece cadere a terra non so che di lucido, così impercettibile, che ella stessa non se ne avvide.

Ben se ne avvide il Rosso, il quale non aveva distaccato l’occhio da quella apparizione; e chinatosi cercò, e raccolse quell’oggetto, ma quando voleva porgerlo alla dama, il legno era sparito. Corse appresso, finché l’amabilità del cocchiere ne lo impedì! Guardò sotto d’un fanale ciò che aveva tolto di terra, e vide uno smaniglio di capelli con un bre- vissimo fermaglio d’oro, il quale si era anche rotto nell’urlo che l’aveva sprigionato dal braccio della dama; sei ripose in petto, e si ridusse a casa a passo studiato. — Non vi dirò dei rabbuffi dello zio.

Due giorni dopo leggevasi perle cantonate il seguente

AVVISO

La sera del 7 novembre si è perduto vicino al palazzo S*** a Chiaia un piccolo braccialetto di capelli, di niun prezzo per esso stesso, ma di qualche valore d’affezione per chi lo ha perduto. La persona che lo ha trovato, e lo recherà alla Contessa G*** nel palazzo dello stesso nome ne avrà in premio dieci piastre.

La signora così poteva esser quasi certa di riavere il suo smaniglio; e diciamo quasi, perché il numero della gente analfabeta sventuratamen- te non è scarso.

Il povero Bosso per esempio non sapeva leggere; e da altra parie cre- dendo non fare il più vergognoso e dannevole furto del mondo, rite- nendo quell’oggetto dopo aver corso cosi a lungo dietro alla carrozza per avvisarne la perditrice, non ebbe premura d’andarlo a depositare presso alcuno del palazzo, onde ella era uscita… e ciò anche per una ra- gione tutta sua particolare, che or ora spiegheremo.

Vi fu intanto chi disse alla dama, come testé vi dicevamo noi, di far domandare a taluni di questi trova sigari, perocché Io indagini forse non sarebbero tornate vane; e cosi avvenne. —Si cercò, si spiò, tanti  di

questi monelli furono interrogati, che il Rosso vi capitò anch’esso; ma  il fanciullo non volle consegnare lo smaniglio a chi gliene richiese; dif- fidò—ahi! la sventura fa diffidente fin l’innocenza — e protestò che non avrebbe rimesso lo smaniglio che alle mani della signora stessa che l’aveva perduto, poiché egli l’avrebbe riconosciuta perfettamente. Fu sospettato ladro, e s’intese manifestare il crudele sospetto, ma ripeté sempre, che laddove avesse parlato con la dama, avrebbe data prova incontestabile della propria innocenza. Il mezzo vi domandiamo noi di non condurlo a lei.

Ed ecco il fiosso introdotto nelle splendide stanze della ricca patrizia. L’uomo che l’introdusse, gli fe attraversare molte stanze, e giunti ad una più vasta, andò a picchiare alla porta d’ un piccolo salotto in un an- golo del quale la signora era occupata nella sua lettura. Intanto il fan- ciullo fissò il primo suo sguardo ad un dipinto che in ricchissima corni- ce pompadour pendeva dalla parete; era uno dei così detti quadri di fa- miglia, dovuto al pennello del Camuccini. Una bellissima donna, dai capagli come quelli che il Tasso diè alla sua Erminia, avente un puttino sulle ginocchia, e gli faceva salutare un uomo di fisionomia triste e se- vera ad un tempo, che era in piedi curvo sulla spalliera del seggiolone  di quella donna. Il fanciullo non tardò un momento a riconoscere in quella bella madre l’apparizione di qualche notte innanzi. E quando la porta del salotto s’aprì nuovamente, e la dama nella sua impazienza si slanciò ella stessa a ricevere lo smaniglio dal fanciullo, sorprese quest’ultimo con le mani pressoché sporte verso quel dipinto in con- templarlo con un’avidità infantile.

—Il mio smaniglio, il mio smaniglio! sciamò la dama, date su presto; e per la prima volta il piccolo povero della via vide la bella ed aristocra- tica mano di una contessa stendersi innanzi a lui, che tante volte aveva tesa invano la sua.

Il fanciullo mentre toglieva la cartolina dal petto, e l’oggetto dalla ca- riolina — eccolo! — disse, guardando sempre quella bella mano cosi candida e così affilala, e ve lo posò rispettosamente.

Oh sì! eccolo, disse la dama, e nello stesso tempo senza il disgusto che il contatto di quell’oggetto coi luridi cenci d’un poverello poteva eccitare, portò vivamente i capelli dello smaniglio alle labbra; dopo di che disse: — sta bene, date la mercede promessa a questo ragazzo, e mandatelo via.

Neppure uno sguardo di ringraziamento, neppure un benevolo sorri- so al fanciullo! Coi né il più piccolo favore della fortuna ci fa ingrati! L’uomo  che  aveva  accompagnato  il  trova  sigari  fece  osservare sotto

voce alla contessa che quest’ultimo nulla sapeva dell’affisso e della pro- messa, laonde ella poteva essere molto men prodiga con lui. Il cielo scansi sempre i poveri dai consiglieri dei ricchi!.

Ed il Rosso con la curiosità comune a tutt’i fanciulli rimase là con- templando ingenuamente la rassomiglianza estrema del ritratto e dell’originale.

Ebbene, rispose sbadatamente la dama al suo consigliere, fate quel che credete.

Da altra parte, riprese il primo, chi ci assicura che questo fanciullo non l’abbia rubato?., e squadrando con disprezzo il Rosso: — Come dunque avete trovalo questo braccialetto? gli chiese bruscamente.

Venerdì sera, rispose il fanciullo rivolgendosi alla dama, V. E. saliva in carrozza, io era là che chiedeva la carità; il vostro braccio urlò allo sportello della carrozza, e ruppe il fermaglio del braccialetto; io lo vidi cadere, lo cercai, lo raccolsi, e quando voleva renderlo, la carrozza già  si allontanava; corsi appresso, ma una scudisciata del vostro cocchiere mi venne sul volto, e mi fe desistere dalla mia idea.

Povero ragazzo! esclamò la Contessa alquanto commossa da quest’ingenuo dire, e più dalla dolcissima voce del bambino — dategli, dategli la sua mercede.

E perché non veniste a portarlo il domani al portinaio del palazzo  S#? disse il prelodato consigliere.

Non n’ebbi il tempo… esclamò arrossendo il fanciullo; e poi… vede- te… destatomi alla dimane, trovai che il colore dei capelli dello smani- glio somigliava qualche poco a quello dei miei, ed annoiato che m’avessero a chiamar sempre il Rosso senz’altro nome, voleva mostra- re ai miei compagni che i Signori fanno tanto conto di questo color di capelli, da adornarsene invece di gioielli.

Infatto, rispose la Contessa, sorridendo, ha ragione; — e dopo quel sorriso divenne pensosa pensosa.

E qual è il tuo vero nome, giacché quello di Rosso ti dispiace tanto? ella soggiunse.

Non ne ho altro, sono e sarò sempre il Rosso.

Come non ne hai altro? non sei stato battezzato? Credo di si, mio zio, cioè quell’uomo che mi tiene con sé, mi ha tolto alla Madonna, ben- ché… benché…

Continua…

—Debbo dirla?… benché un giorno, nel vino, mi avesse detto che se non mi fossi corretto (per correggermi intendeva se non gli avessi por- tato un maggior numero di mozziconi di sigari) mi avrebbe ritornato  a

quel vetturale, dal quale sarei stato nuovamente gettato sulla via di Roma.

La Contessa a questo dire si fe’ di bragia e di gelo, guardò il fanciullo, guardò il dipinto, si confuse, domandò finalmente con voce  affannosa:

— E qual è la tua età? Dicono dieci anni.

Dieci anni! da quanto tempo sei con cotesto tuo zio? Ih! da sette otto anni…

Che sia possibile! No, aspettate, dal Carnevale del 1830; me lo ricor- do, perché mio zio quand’ è in collera con me, bestemmia sempre Roma e il Carnevale del 30.

A questa parola la dama che s’era a stento retta in piedi, richiaman- do a sua guardia tutta quell’energia, di cui a si alto grado son dotate le madri, si precipitò sul fanciullo, gli strappò, gli lacerò anzi i panni ad- dosso, come se avesse voluto sbranarlo, e vedendo uno di quei cento segni, impercettibili a tutti forse fuorché ad una madre, che ha in me- moria fino un capello del suo figliuolo, trovò certo un neo, una voglia, una margine, che so io, diè un grido, e sollevando di terra il fanciullo,  lo strinse convulsivamente fra le braccia, e lo copri di lunghissimi baci.

Dopo averlo quasi soffogato tra i suoi amplessi, potè dire:— Alfredo, Alfredo mio! e poi cedendo all’emozione, ed alla piena delle lagrime  che non poterono in copia sgorgare dagli occhi, cadde per un momento priva di sensi. L’uomo che aveva condotto il Rosso tirò il laccio d’un campanello.

Il fanciullo rispose baci per baci, e quando la madre aprì gli occhi e gli parlò, disse ingenuamente:!

Quel bambino dunque dipinto Ih era io? Si, tu, tu! figlio, figlio mio!…

Com’ero bello! E, dite, quel signore è mio padre?

Ahimè! È stato tuo padre, disse la madre malinconicamente!

Vale a dire ch’è in cielo, rispose il fanciullo, scuotendo il capo con amarezza. E dopo un momento di silenzio soggiunse: — Capperi! se ho fatto bene a non aver voluto consegnare lo smaniglio che a V. E.

V. E.! che dici tu? io sono tua madre! non chiamarmi che così!

E vero, è vero, V. E. permetterà dunque di chiamarvi mamma al fi- glio di V. E.

Se non fossero qui pagine di costumi, ma di narranze, diremmo del modo della sparizione del fanciullo nel trambusto d’un carnevale, del vetturale, ec. ec. e dei vari episodi di questo fatto; ma invece dobbiamo lasciarlo al leggitore, e contentarci di dire, che quel giorno stesso, chia- malo il così  detto  zio, e tutto  verificato,  il piccolo popolano  riprese il

suo posto di patrizio.

Ed ora debbo scusarmi con chi legge se ho fatto seguire alla fisiologia del trova sigari questa breve e nuda storia… Ma che si vuole! Era così arido l’argomento che pel primo mi era stato indicato, che dal bel prin- cipio

Perdetti la speranza dell’altezza

come dice il Poeta. Invero d’un ometto che non ha per tutto suo bene che qualche cenci addosso ed una lanterna in mano, che potrebbesi dire? Che è un trova sigari e tutto sarebbe finito… salvo che non fosse Diogene! Ma Diogene non raggiunse il suo scopo, ripetendo sempre hominem quero non seppe trovar un uomo; ed il nostro ometto dopo i cenci, i sigari, lo smaniglio, seppe trovar una donna… e qual donna! quella che Iddio non concede che una volta sola, come la vita.

ACHILLE DE LAUZIÈRES.

Sarebbe Napoli una città d’incanto, se non vi s’incon- trasse una folla di plebei, che ànno aria di ribaldi e di malandrini, senza esser sovente né l’uno, né l’altro.

CLEMENTE XIV.

IL nome di Rinaldo di Montalbano ha lasciato nella città della Sire- na, più che altrove, tale di se un’eco di celebrità, da farsi ricordar dal popolo meglio oggidì che ai tempi della stessa cavalleria.

Il signor di Montalbano è un personaggio caro a gran parte della ple- be napolitana, e guai a chiunque s’attenti di menomarne il rispetto e portar onta a quel glorioso nome. Gli amici ed ammiratori di Rinaldo sono detti con patetica voce appassionati. Nevighi o faccia sereno, essi stan sempre là, intorno al loro cantore, che sebbene non s’appartenga alla classe del popolo, pur nondimeno è dal popolo tenuto in concetto di sapiente, ed amalo come persona uscita fuor dalla coppaia delle fa- miglie popolane.

Campo a quel canto era non ha guari il Molo, lingua di terra ove s’adunavano in varie fogge lazzari, facchini, marinai, bagattellai, ciur- madori, venditori di frutta ed altra gente del popolo. Era quello allora uno de’ luoghi di popolare diporto ed era non bello, ma curioso e forse dilettevole il vederlo gremito di monelli sudicie scalzi che sì raccoglie- vano a bocca aperta attorno ad un teatrino ambulante o presso un cer- retano che dava numeri certi, di lato alle panche di cocomeri ed  aranci

che fiancheggiavano la via. Si mescevano alla folla pochi di quelli che il pubblico, dall’abito, chiama galantuomini, e qualche straniero che ri- stava appo una colonnetta affisando i volti che più sentivano del Pulci- nella, e mirando ai lazzi de’ lazzari, de’ quali i sedicenti stranieri scrit- tori fecero principale argomento nelle descrittive opere loro.

Allora quella lingua di terra non era che male ed interrottamente sel- ciata, e d’ambo i lati, al posto delle colonnette di piperno, si vedevano alcuni vecchi cannoni capovolti, cioè con la bocca in giù, messi a quell’uso entro al terreno, più lungi sulla manca una casetta di ricovero per pochi soldati ed una piccola fontana. Era grazioso allora mirar da una parte certi avanzi di antiche galee, simulacri di guerra, è parecchi altri legni di goffe apparenze, con rozzo gravame d’alberi e scarso giuo- co di vele, le cui polene, dal petto in fuori, presentavan sempre qualche cosa di forma pesante, e le alte poppe frastagliate e rabescate con mille ghirighori e fantasie di delfini e maschere e fiori, che allora facevano l’incantesimo degli uomini come oggi lo sarebbero de’ fanciulli.

Sotto al faro che decorava l’estremità di questa lingua di terra, tenea tribuna il più famoso de’ cantori delle imprese di Rinaldo il paladino, l’Ariosto del nostro popolo, che sapeva con voce limpida e chiara e con adeguale movenze, tutta chiamare a se l’attenzione di ben dugento ap- passionali, ai quali dopo aver letto due q tre ottave del poema, con l’enfasi di rito, prendeva a spiegare con modi e voci di nazionale espressione quanto aveva cantato.

All’udire le prodezze de{ paladino, l’audacia nel mezzo delle tenzoni, la temerità del discorrere, la violenza del menar le mani, vedevi taluno dondolarsi sulle panche, altri stringere i denti, sbarrar gli occhi, levarsi su d’improvviso, atteggiarsi fieramente, impor silenzio fino alle mo- sche, e dispiacersi e sentirsi offeso, se taluno al racconto delle terribili imprese non mostrasse l’anima fuor degli occhi e non si lasciasse anda- re a scoppi di evviva.

Oh conte Matteo Bojardo! oh messer Pulci! o messer Berni! oh anti- ca ed onorata schiera de’ poeti francesi e provenzali, che alzaste a ciclo  i nomi e le sognate imprese de’ vostri paladini, perché non vi fu dato allora di trovarvi presente a quelle manifestazioni di spirito guerresco del popolo napolitano che finivano poi sempre è ai estinguevano nel vino, e nel sonno che coglie va i nostri appassionali, sia presso la soglia di un palazzo magnatizio, sia presso quel teatrino ove rappresenta da mane à sera la stia parte l’acquaiuolo. E così il furor marziale del gior- no che si appalesava sul Molo, trovavasi disperso la sera in pacifico aspetto sulle vie della città popolosa e spensierata.

Nè solo un cantor di Rinaldo vedevasi sai Molo, altri purè vi si reca- vano, né per minor celebrità erano privi di clientela, ma forse lo zibal- done del primo di essi avea origine più antica ed era meglio affastellato d’immagini gonfie, tolte non solo all’Ariosto, ma talvolta al Tasso, al Marini ed agli infimi poeti della sua scuola;

Non cala il ferro mai che appien non colga, Nè coglie mai, che piaga anche non faccia, Nè piaga fa che Valine altrui non tolga.

Questi versi s’udivano misti ad altri di non so quale autore che dico- no.

Taglia Rinaldo il paladino armato Giusto nel mezzo dalla testa al piede,. Come uri mellone in due resta spaccato È ai guarda, si tocca e non si crede.

La spada di Rinaldo ch’è fatato

Non s’arresta à quel colpo, e in giù più fiede, Taglia gli sproni al cavaliero e sferra

Ed entra cento palmi sotto terra.

Tale è l’accozzamento maestoso e magico del gran poema e dello zi- baldone famoso, zibaldone che non ebbe mai autore, dal quale la ciur- maglia napolitana seppe ab ovo che

Rinaldo era signor di Montalbano

ed apprese che quel gagliardo sfidava qualunque pericolo e mostra vasi ovunque senza ombra di timore, pur che dicesse

Io son Rinaldo Paladino!!!!

E qui, dopo aver toccato alquanto degli ammiratori del cantor di Ri- naldo, e di quel loro atteggiarsi goffamente, fieramente, cupidamente, vuol giustizia ch’io dica alcuna cosa del cantore illustre, cui tanto deve l’eletta schiera dei paladini.

Egli, come cennai, non esce dalle classi del popolo, ma si vuol dai più che il primitivo ceppo venga fuori dalla polvere del foro, de’ paglietti  e

de’ così detti strascina facende. Io non vo’ farmi troppo addentro a sif- fatte origini, perocché so bene quanto spiaccia a certuni

Nati in basso e cresciuti in alto loco

di veder venir fuori certe indagini imprudenti di parecchi letterati in- triganti che, non chiamati e non cercati (e sempre non pagati), van ri- vangando invecchi scaffali tante notizie di famiglie che preferiscono il modesto incognito alla pubblicità della stampa; però senza far oltrag- gio a veruna classe lasciamo ancor misteriosa l’origine del cantor di Ri- naldo.

Il suo vestire è di galantuomo.

Egli non rinunzia al cappello ed al frac a lunghe code, tipo degli avi suoi.

I vitrei occhiali gli ornano il naso.

Il bernoccoluto bastone armagli il braccio.

Vero oratore! tien pronti ad ogni bisogno due fazzoletti, uno bianco scuro che gli terge il glorioso sudore, ch’io chiamerei sudor paladino, perché imbevuto delle geste de’ paladini, l’altro a più colorì di cotone e talvolta di seta, come una bandiera, traforato.

I suoi calzoni, le scarpe, il panciotto, il cencio che gli val di cravatta, lo mostrano abborrente da qualsiasi NOVITÀ’ 1.

Le sue tasche non si disegnano sconciamente per peso d’oro o d’argento.

Egli è un savio modesto.

Vive d’ammirazione! di tornesi, pubbliche, e fresche monete di nove calli.

Egli è letterato! e fu lungo tempo l’emblema del letterato e del poeta in Napoli.

Ora non più, poiché l’uomo di lettere é uomo pubblico che si palesa, e non si smaschera, che serpeggia nel centro della società, a dispetto  de’ piccoli entuzzi che vi sono disseminati, e giudica gli uomini e i tem- pi.

Il nostro cantore, d’altra parte è un uomo dabbene che vive del suo canto, come gli antichi giullari e menestrelli che ad armacollo portando il prediletto strumento, facevano sollevare le saracinesche de’ castelli e talvolta sedean anco a mensa coi Baroni.

E ciò mostra che in Italia le antiche costumanze non si perdono af- fatto, ma talora, anzi spesso, difformate durano; e ciò mostra aver sem- pre gli italiani amato il canto, la musica, la poesia, le narrazioni di   ge-

1 Vedi la figura.

sta eroiche, la memoria di antichi fatti celebrati dalle istorie; e ciò mo- stra, non aver mai voluto il bel paese dimenticare se stesso.

E il nostro popolo, raccogliendosi intorno al cantor di Rinaldo, svela pubblicamente che le grandi imprese gli piacciono. E a dir vero, sia per abito, sia per principio, nessun mai superò il popolo napolitano nell’ammirare e celebrar con ampollosi vocaboli le arrischiate scara- mucce, gli arditi colpi di mano, le prodezze del tale o tal altro eroe. E dove più (ci valga di esempio) densi in pregio l’uomo sprezzante de’ pe- ricoli, pronto a gittarsi nel mezzo d’una calda e sanguinosa rissa per se- parare i litiganti ed imporne con minacciosi atti ai due partiti? Dove tanto stimasi il guappo (da, voce spagnolesca) questo storico perso- naggio, di che più innanzi in altro articolo parlammo e che rappresenta ancora a mio credere l’antico Bravo del feudatario, difformato dalle mutate condizioni de’ tempi e dall’uso? dove più volentieri s’ascoltano  e si ripetono le prodezze di un bandito, il generoso coraggio di un sol- dato o di un cittadino? dove le storie de’ Reali di Francia, e massime di Buovo d’Antona, più avidamente si leggono e si ripetono?

Lo entusiasmo ed il culto di omaggio che il popolo napolitano presta alla bravura è sì forte, che molti fra essi. Sebbene non sappian leggere, comprano per vii moneta alcune storielle che si dicono in versi, e si fan leggere da chi può meglio appagarli, le imprese di Tonno Grifone, Pep- pe Nascila, Antonio Lo Santo, Benedetto Mangone e il Bello Gasparre.

E si ripetono fra loro, arieggiandosi alla sbirresca, le ultime parole che disse Tonno ai suoi persecutori:

Cu polveri! Co’ palle ‘e provvesione

No — non s’arrenne mai Tonno Grifone!

Le quali parole celebrate fra i guappi come il Veni vidi vici di Cesare, offrono una pruova della poesia nazionale nel genere robusto.

Il genere delicato potreste invece trovarlo in questa ottava che non manca pur di celebrità ne’ popolari poemetti di Paris e Vienna e di Cic- co di Cola:

Mi voglio fare un manto di finocchi E di finocchi un cappuccio fare,

Lo voglio fare insino alli ginocchi E di finocchi lo voglio foderare.

E fin che stanno aperti sti miei occhi Sempre finocchi voglio seminare, Affinché seminando assai finocchi Qualche donna potessi infinocchiare.

Così il popolo napolitano s’educa da se stesso a certi modi di vedere che son poi alimento a risse, ad offese, a leziosaggini, a bagordi. E per tornare alla strettezza del primitivo tema, dirò che gli di Rinaldo, con- siderando quell’eroe come loro maestro e duce, spingono tant’oltre l’entusiasmo da venire alle mani con chiunque si nieghi a prestargli omaggio ovvero osi vilipenderlo.

Narrasi con fondamento tradizionale, che taluno ebbe l’audacia un giorno di ripetere pubblicamente che Rinaldo era mariuolo, e provò, ci- tando lo zibaldone del suo cantore, che Rinaldo non da eroe, ma da la- dro aveva operato.

Lo sdegnò si pinse in tutti i volti, le mani degli appassionati si strin- sero fra loro rabbiosamente; furono rimosse le panche e stretto nuovo consiglio, ne uscì decreto di morte.

Tanto possono le passioni, tanto può la superstiziosa credulità della plebe spinta agli eccessi! Un egregio scrittore di cose patrie seppe inge- gnosamente trovare anche in queste passioni e movimenti del popolo napolitano una rassomiglianza, col sentire e l’agitarsi degli altri popoli che già abitarono queste incantevoli contrade nelle grandi epoche ro- mane e greche, e giustificò la gesticolare eloquenza napolitana col sus- sidio degli antichi bassorilievi e delle scolture, dissepolte dagli anfitea- tri Campano, Puteolano, Pompeiano ed altre moltissime. 1

Però gli atti e le movenze nelle quali manifestasi l’ammirazione, il rammarico o la collera della bordaglia, hanno un tipo di mobilità e di specialità siffatta, che contrassegna la plebe napolitana.

Il che facea dire ad un dotto scrittore, ché la scuola della pittura na- polilana, massime tra il seicento e il settecento sentiva nelle composi- zioni della gesticolare vivacità del popolo

1 Vedi La mimica degli antichi paragonata al moderno gestire napolitano. Un volume con figure; opera del Canonico Andrea De Jorio.

Ut pictura poesis.

Il gestire del cantor di Rinaldo e di ogni altro cantastorie sarebbe prova dell’assunto tema.

Pria però di chiudere questo articolo è d’uopo ricordare che invano si cercherebbero oggidì sul popoloso Molo di Napoli gli appassionati di Rinaldo e i loro cantori.

Il campo di Rinaldo ora incomincia sotto all’arco della neve, in uno spazia che precede l’edilizio della dogana. —I suoi cultori sono scemati, i suoi cantori van cedendo lentamente al fato, e taluno di essi, scordan- do la gloriosa origine immemore degli avi cantori, degenerato canta- storie, veste, indovinate che cosa?

Una giubba detta giacca, e talora bianca a simjglianza di quella che indossano i cuochi.

Ma il fato è maggiore degli eroi, però gli eroi morivano invocando le stelle. Gli altri cantastorie che decorano la cittadella Sirena, vista la scacciagione de’ lor compagni, han cangialo sistema.

Essi vanno erranti, come una volta errava la progenie perseguita di certi Califfi in Oriente. Quando trovano un pubblico, con uditori cortesi ed inclinati a render giustizia al merito, stendono ampio cartellone sul muro d’una casa, e col mezzo di una bacchettina, mostrando le figure che su vi si stanno dipinte, dicono e cantan prodigi, o storie lacrimevo- li, accompagnali talvolta da un violino che veramente strappa le lacri- me.

Questa seconda generazione di cantastorie e più moderata negli atti, più nelle forme modesta, più COMPLETA. Essa a|meno ha un fondo di scena ed un’orchestra (il cartellone ed il violino).

La terza generazione de’ cantastorie si diffonde e si sperpera pe’  canti delle vie, ma essa può dirsi una generazione mendica affatto.

A sera un canto malinconico e di monotona cadenza ricorda i fatti di una giovane che metteva in non cale le paterne ammonizioni, i suggeri- menti del pio ministro del perdono, le lacrime della madre, e si gittava nelle braccia di un malnato seduttore, che alla sua volta l’abbandonava disonorala e mendica, quando (non insolita catastrofe) i suoi genitori non erano più.

Questa è la canzone di Caterinella! State ad udirla (e sia questo il  fine morale del mio articolo) uditela, quando vi avviene di ascoltarne

anco da’  lungi il tenore.

La seduzione è oggidì e sempre una serpe velenosa che attosca le fa- miglie povere e sparge di fiele la misera ma onorata vecchiezza. La sto- ria di Caterinella è quella di molte sciagurate; è una lezione di morale alla quale è forza che ogni fanciulla si pieghi ed io nell’udir quel canto pietoso ho sempre veduto dall’alto di qualche balcone venir giù una cartolina incendiata, avente nel seno l’elemosina destinata a chi canta- va la malinconosa canzona di Caterinella.

Ed al riverbero della fiamma cd al suono della voce, ho sempre rico- nosciuto una fanciulla…

Si — perché la coscienza non dissimula, la vita stessa è pericolo, e niun mortale può dirsi forte abbastanza contro le seduzioni, senza sen- tir la fede degli esempi cd il cristiano conforto della religione!

CAV. CARLO T. DALBONO.

DOPO d’esser discesi a far la fisiologia del trova sigari, era ben me- stieri di risciacquarla penna, graveolente di quelle malvage punte allu- mate, nella fresca tinozza d’una lavandaia—Però ad ‘arte più che a caso ne fu scelto quest’argomento, che di buon grado è accetto, e che speria- mo voglia acconciarsi al nostro buon volere per trovar posto nella ras- segna traduttrice degli usi e dei costumi di questo paese delizioso — All’opera dunque!

Le lavandaie non sono come le contadine svizzere, né come le canzo- ni arcadiche di papaverica memoria, delle quali basta vederne o sentir- ne una per saperle tutte; esse, senza allontanarsi gran fatto da un tipo comune che le raccoglie in ispecie, differiscono per talune gradazioni di casta, che alla meglio cercheremo di esporre.

V’ha la lavandaia che muove per le case dei suoi avventori per toglie- re, o riconsegnare i panni:

La maestra che è quasi volessimo dire l’intraprenditrice, la direttri- ce, la padrona dello stabilimento; la quale ha cura di sceverare le varie accolte di panni, e di segnarle con un metodo tutto proprio e che dire- mo a suo luogo. Essa paga le sue subalterne, o dà loro il tanto per cento sull’utile. E la lavandaia impresaria:.

La fanciulla che porta sul capo l’immenso fagotto della biancheria lorda o curata che sia; e che è quella alla quale ci fermeremo più parti- colarmente. Dessa è il tipo della specie: Finalmente c’è la lavandaia con l’asino, la quale o non si degna di portar i fagotti sul capo, o ne ha tanti che è obbligata di chiamar quel tale collaboratore. Essa sta in rapporto alle altre, come la dama che ha le sue carrozze, sta alle semplici pedine; è l’aristocrazia del ranno e del sapone. Tempo, e farà marchiare la groppa del suo giumento con un mastello, a mo’ di blasone.

Vi sono poi altre diramazioni insignificanti che non abbiamo tempo né voglia di considerare; ci sono troppo a cuore le protagoniste per fa- stidirci con le terze parti.

Fra tutte queste prediligiamo dunque la lavandaia tipo, che sarà la nostra prima donna, alle cui convenienze obbediranno poi tutte le al- tre.

La lavandaia pur sang abita, come quasi tutte le altre, la campagna; ma la sua campagna è il Vomero; da quelle colline ella domina le sue rivali, come la castellana del romanzo dall’alto della rocca tenebrosa dominava la gente vassalla. Eppure scegliendo quell’altura, ella non s’è fatta la parte del leone; oh! ben altro: paga troppo caro quel suo posto: alla lavandaia del Vomero non manca altro che l’acqua. Quel colle, come è ben noto, scarseggia d’acqua a segno, che nella state le poverine sono costrette, esse, le prime lavandaie del paese! all’umiliante suppli- zio di gire a cercar l’acqua a questo o a quel proprietario, e, quel che è più, a pagarla un tanto a mastello. Ma non per questo ella desiste: colà il tinello è ereditario come il cognome; dall’arcavola alla pronipote le lavandaie di lassù furono, sono e saran tali, salvo i casi di qualche ma- trimonio eccezionale.

Nè finisce qui l’orgoglio di quelle montanine: le vanitose abdicarono il corsaletto della contadina perla veste delle popolane della città. L’incivilimento che mise una forchetta in mano al lazzarone, il quale non mangia più i maccheroni con le mani, altrove che nei più perduti trivi, o nelle litografie di costumi, (e si fosse l’incivilimento contentalo di brigarsi solo della nettezza!) codesto benedetto incivilimento adun- que ha mandato in via della Giudecca i bei corsaletti di raso a colori ri- soluti delle lavandaie del Vomero, d’Antignano, d’Arenella, e di tutte quelle deliziose colline; ha strappati i nastri chermisini de’ loro zoccoli, ed il tomaio damaschino, e ne ha dato al focolare il legno; ed in cambio di tutto questo ha gettato loro delle scarpe di pelle di tre o quattro car- lini a paio, ed una veste di tela dipinta, di poche grana al braccio.

É il più pazzo genio del mondo cotest’incivilimento; e quando si   ac-

coppia con la moda, allora si che ne fa delle sue! Per esempio, in cam- bio di averci così vestite le povere lavandaie, sotto pretesto di assimi- larle alle cittadine, ha preso le vesti vecchie delle contadine, quelle ve- sti ereditale che le madri davano in dote il dì delle nozze alle loro fi- gliuole, e le ha fatto comperare a forte prezzo alle patrizie per foderar- ne i seggioloni dei loro più ricercati salotti. Vedi stranezza! I cenci d’ una contadina sono il lusso d’ una principessa! Ma giù, la seta e il broc- cato son altro mai che il sepolcro d’un verme!..

Torniamo alla lavandaia.

La lavandaia come ora ve ne sono poche, vestiva corsaletto di seta rossa o cilestre, gonna di colore opposto a quel del giubbetto, c senalet- to bianco: al piede aveva zoccoli guarniti di nodi di nastri: al collo cate- nelle d’oro, o piuttosto laccettini di Venezia: alle orecchie una specie di pendenti, che a dispetto dell’incivilimento conservasi tuttavia, col  nome di rosette. Questi orecchini sono due tronchi conici d’oro, alti da mezzo pollice ad un pollice, larghi alla base da uno a due pollici di dia- metro; vi corre intorno a spirale, sia un filo di perle, sia più fila a circoli convergenti, ed al vertice è spesso uno smeraldo. Più le perle son gros- se, più la rosetta è massiccia e pesante, insomma più essa rovina le orecchie più n’ha vanto la contadina. Ve ne ha eziandio in forme di grappoli, o d’altro simile, ma queste sono gli scismi: la vera rosetta ha figura d’un cono molto basso e molto evergente—Ora varie lavandaie del Vomero hanno alle orecchie pendenti di Francia; taluna forse va a comperarne di falsi al Bazar dove s’illude la gente a prezzi fissi.

Chi doveva mai far tralignare tanto l’innocenza dei campi fino a, questa strana mistura di civetteria d’ostentazione di menzogne!..

Torniamo alla lavandaia.

Oggi la lavandaia porta di raro rosette, e raro altri ori: ha nullameno la sua vestina stretta alla cintura, e quando la si vede scendere dal suo monte, fresca e pienotta anzi che no, spezzata come suol dirsi  nella vita, cambrée, con sul capo la sporta 1, o il grande fagotto di pannilini, sorretto o no dalla mano, vispa e lieta in volto, non si ha il tempo di guardar cosi in fino alle devastazioni dell’incivilimento, e si trova che la lavandaia anche senza, anche senza zoccoli, anche senza corsaletto,  non è poi la creatura meno avvenente della terra.

Gli studenti a vergogna di loro professione sogliono facilmente ab- bassarsi dal grado che hanno per le lavandaie, le quali per altro non ne hanno alla lor volta per gli studenti; e la causa non è di difficile intelli- genza. Come quelle per lavare non mancano che d’acqua, i poveri   stu-

1 Vedi la figura.

denti per far lavare non mancano che di biancheria; almeno hanno questo di comune! Vene ha che l’inverno per tutta biancheria, quando la lavandaia è salita fino al loro settimo piano, le consegnano due o tre colli di camicia, e la fanno aspettar mezz’ora per far la lista! poveri stu- denti! Vengono dal fondo di un villaggio, a vivere cinque o sei anni sa Dio con quanti disagi, e poi si creano delle fortune col frutto delle loro sofferenze; però non vi sdegnate meco, se bo pubblicalo così per esteso la lista del vostro bucato; lasciate che vadano in collera quegli altri stu- denti, vostri alteri colleghi, che vengono qui non per fare il loro corso  di legge, ma che vanno alle prime rappresentazioni a S. Carlo, e fuma- no foglie d’Avana; quelli si chiamano studenti perché non studiano mai, come Scipione si chiamò l’Affricato; e da loro non avrete nulla a temere né per la vostra lavandaia né pei dignitosi uffici che un dì occu- perete, e di cui siete l’inesauribil semenzaio…

Torniamo alla lavandaia.

E torniamoci con promessa di non più lasciarla per andar sermonan- do di morale, e far come il fanciullo del Limosino

Che devia dal pensiero ad ogni passo, Per corre un fiore o per gettare un sasso.

La vita dunque della lavandaia è la seguente:

Il lunedì— buono è principiar dal principio— il lunedì ella scende in Napoli con le mani vote, o con la sporta al braccio, o con l’asino scari- co; e si presenta a casa del suo avventore; beninteso che quando c’è il somaro esso resta ad ammirare la pazienza o l’insolenza dei guardapor- ta.

La cameriera le fa cacciare i panni da lavarsi, spandere un lenzuolo o un mensale sul mattonato, sceverare gli altri, numerarli secondo le va- rie categorie, ed a seconda che quella li numera, ella li nota o sur un apposito libretto, o sur una tabella di cartone, nella quale, ad ogni spe- cie di panno è praticata una fila di fori orizzontali, con entro dei lac- ciuoli con un nodo ad ogni estremità: le camice per esempio sono dodi- ci, ed ella tira il duodecimo lacciuolo, e così via via. Dopodiché, la la- vandaia gitta tutti i panni sperperati in quello aperto sullo spazzo, lega in diagonale i quattro capi, ed ecco il fagotto chiamato col termine tec- nico mappata.

Raccolti per le varie case i panni, ecco che torna sul colle alla lavan- daia maestra, la quale chiamate le sue varie donnine, fa scegliere i pan- ni, e segnarli con un marchio tutto loro, cioè un pezzetto di filo cucito

ad un capo o ad un lembo qualunque del panno. Senza di questi segni si correrebbe rischio di portare il berrettino di cotone ad una ballerina, ed il sottanino con la salda ad un presidente.

Avvien qualche volta che la stiratrice, o soppressiera che vogliate chiamarla, è negligente al punto di non istrappar quel segno alla vostra camicia o al vostro fazzoletto, e voi andate ad una festa con un nodo di filo rosso alla punta del colletto o della cravatta bianca, e vi fate tener d’occhio come un cospiratore!

Quest’occupazione dei segni tiene impiegata tutta la giornata del martedì, alla sera del quale, i panni dopo essere insaponati, sono messi in grandi vasi di terra cotta, o in un capace lavatoio, bucato sotto e que- sto e quelli, (donde è poi venuto il nome di bucato a tale genere di lava- re) e vi si gitta su il ranno bollente, che poi filtrando a poco a poco tra- pela i panni, e cola per quel foro (quindi la colata secondo il tecnicismo popolare dell’arte)… Ah! in qual razza di minuti particolari è obbligato a scendere uno scrittore di fisiologie!..

Il mercoledì i panni si tolgono dai lavatoi, si rinsaponano più  o meno, e si lavano fregandoli, strapazzandoli, macerandoli direm quasi, su pietre di lastrico, messe a pendio sulle pile di pietra o sui mastelli, e che vi acconciano le camice di batista come va. In seguito si risciacqua- no in acqua pura, acciocché perdano quel puzzo di sapone, che per pa- rentesi non giungono a perdere quasi mai, perché dovrebbesi più volte cangiar l’acqua e perché le lavandaie non sono ricche d’acqua; o do- vrebbero lavarsi i panni all’acqua corrente, e la città ne è alquanto scar- sa — Di qui la difficoltà d’avere la biancheria d’un nitido veramente ar- gentino. Tra il mercoledì ed il giovedì i panni si sciorinano e si asciuga- no al sole, quando ce n’è; e quando non ce n’è, tanto peggio!

Le lavandaie, giova dirlo, adorano quell’astro come i gentili e come i selvaggi delle Indie; il loro è il più bell’inno al sole che sia mai partito dal cuore. Il loro grido jesce sole! è la più fervida preghiera che mai islamino avesse fatta: essa potrebbe in certo modo tradursi in questi versi del loro mal traducibile dialetto — (Ci si conceda la piccola inva- sione):

1.

Jesce sole, jesce sole. Non te fa cchiù sospirà!

Siente maie che le ffigliole Hanno tanto da pria?

Pe ce fa la faccia nera Viene sempe de correra, Pe fa janche le lenzole Le stanfelle vuole piglia? Jesce sole, jesce sole, Non te fa cchiù sospirà!

3.

De tricà non hai ragione; Chi te prega tiene mente: De la scumma de sapone

So cchiù ghianche chisti diente, Songo vrecce cheste vraccia, Non te parlo de la faccia:

Pe tagliarce lo colore

Lo cortiello puoie piglià… Comm’a cchisto n’auto sciore

Non farraie maie cchiù schiooppà.

2.

Jesce sole, e ccà te spanne, Provvidenza de chi lava!

Si lo vero asciuttapanne Che se gode e non se pava! Lloco ncoppa che nce faie? Mira le nnuvole le staie.

Comme fosse no ncantato Che non sape c’ha dda ffa. Lo signore t’a criato

La colata p’ asciuttà.

4.

Scerea, lava, tuorce, e spanne! Che te pare sta colata?

Viene a n’auto paro d’anno Che me truove mmaretata. Apparecchiate, ca tanne

Non sarrai cchiù asciuttapanne; Ma la torcia tu sarraie

Che lo minino tenarrà. Tanno, sole, vedarraie Chi de nuie se fa mmirà!

Come vedete dall’inno, se siete di coloro che intendete qualche cosa del loro dialetto, le povere lavandaie soffrono d’essere scottate dal sol- leone perché i panni ne sieno più bianchi; e non dice come la Gemma  di Bidera e di Donizetti: maledico quella terra

Che feconda la natura E che sterile mi fa.

Il venerdì i panni sono piegati, aggiustati l’un sull’altro nelle sporte,  e consegnati alle rispettive case. Là la cameriera, o chi per lei, ripiglia

la lista in mano, riscontra le partite, fa il conto e paga. Spesso la padro- na invigila ella stessa a questa operazione, tanto più quando si tratta di pagare, né va a guardar scie questa un’occupazione poetica o pur no. Veroèche la non debbe esser tale, perché quella carissima Maria Mali- bran di non mai abbastanza rimpianta memoria, facendo la Rosina nel Barbiere di l’ultima delle Rosine! allo scambiare la lettera d’Almaviva con un’altra carta, in vece di dire:—A’ la lista del bucalo—cantò: — Sono «versi di Torquato, — non volendo scendere alla bassezza di ser- bare una lista di bucato… Ma ella in quel momento era doppiamente spagnuola, per nascila e pel personaggio che rappresentava;

«Et par droit de naissance et par droit de conquête»

E come tale le si concedea la sua piccola vanità… Che non le si sareb- be concesso!…

Or qualche volta avviene (ben di rado sì, ma avviene) che il vento porti via un moccichino, un carnicino, o cose simili, e che la lavandaia  il rechi di meno alla padrona. Qui comincia la contestazione: Sulla lista sono notati quattro carnicini, tu non me ne rendi che tre.

  • Tre me ne avete consegnati, tre ve ne riporlo.
  • Ma non vedi che son segnati quattro; vien qua, conta tu stessa i fori; uno, due, tre, al quarto e il lacciuolo.
  • Così è, ma avrete erralo nel contare i buchi.
  • Niente adatto; io vi metto la più scrupolosa attenzione.
  • Il vostro bimbo allora si sarà divertito a passar lo spago da un buco all’altro.
  • La lista era chiusa nel mio cassetto.
  • Che volete che faccia? se me ne aveste dati quattro, quattro ne avrei riportati; che credete che ne avessi fatto, noi siamo gente onesta.
  • Non dico già che è stato rubato; ma fa diligenza, e lunedì mel re- cherai.
  • Vedrò, ma è inutile; in casa non c’è nulla.
  • L’avrà portato via il vento.
  • Questa settimana non c’ è stato vento, e noi mettiamo i becchetti di canoa ad ogni menomo pannolino.
  • Fa sempre diligenza. E perché le ne ricordi meglio, ti pagherò lu- nedì.
  • E se non si trova? Terrò il prezzo del carnicino, perché non inten- do perderlo.
  • E perché? Chi ci assicura che non sia stato uno sbaglio? La lista

voi la fate, e voi la serbale, dobbiamo esser noi garanti?

  • Certamente. Un’altra volta porterai la metà dei panni, e dirai Io stesso — Ec. ec. Or delle due chi ha ragione? E se la padrona s’è davve- ro sbagliata? E se il vento ba davvero portalo via il pannolino? E se la lavandaia se l’ha fatto rubar da un monello della via? — C’è sempre la possibilità di un’ingiustizia o di una prepotenza — Domandiamo un co- dice per le lavandaie; richiamiamo su questo argomento l’attenzione dei nostri migliori professori di economia domestica.

Il sabato si fa il conto del danaro introitato, si pagano le (così chia- mansi le lavoratrici agiornata), ed ecco la domenica per acconciarsi, az- zimarsi, abbellarsi, mettere il meglio che si ha, andare alla messa a sen- tir le pubblicazioni, pranzar all’aria aperta, correre a spasso, ballar la tarantella, ed aspettar la serenata; corona della settimana della povera lavandaia.

È di quest’ultimo periodo della sua settimana che è uopo intrattener- si più specialmente.

La notte tra il sabato e la domenica è portata la serenata che, come il pomo mitologico, è sempre diretta «alla più bella», e la più bella in fat- to d’amore è sempre la propria innamorata. Metastasio Io disse con tanto senno e tanta ingenuità.

Non diremo qui di quali strumenti si componga questa specie di or- chestra girovaga, per non restringere ad episodio un argomento che potrà star da sé nel seguito di queste pagine; basti solo che il canto più o meno dice parole pressocché simili a quelle messe per epigrafe in fronte alla nostra piccola fisiologia.

La serenata è sovente la sinfonia di quel gran melodramma chiamato il matrimonio— Il dì seguente vedrete quel bel giardiniere in abito da festa col cappello di Pasqua, il panciotto dai bottoni d’argento, le dita carche d’anella, la catenella all’oriuolo passare e ripassare dinanzi alla casa della sua Luisella, che anch’essa acconciata a festa è là, seduta sot- to la soglia, o fuor del balconcino basso, in mostra come una pupa da parrucchiere. Ed è questo il mezzo più comunicativo, più espansivo di che si vai quella gente per fare all’amore.

Con tale metodo, dopo qualche mese, il giardiniere e la lavandaia vengono fidanzati;per tre domeniche consecutive la chiesa madre fa pubblica la loro futura unione, che le compagne vanno a sentire con perdonata invidia, ed al maggio o al carnevale—non sappiam perché si scelgono di preferenza questi due periodi dell’anno — è stabilito il dì delle nozze.

Gli sponsali delle popolane hanno un costume a parte, dal quale di

giorno in giorno si vanno allontanando le cittadine, ma che, per buona furtuna, le contadine, ed innanzi a tutte le lavandaie, serbano più scru- polosamente.

Di buon mattino il parrucchiere viene dalla città a pettinare, profu- mare, ed intrecciare in un modo esagerato la bruna capellatura della sposa, ed a tempestarla di fiori bianchi, talora anche di una piuma! In questo caso il parrucchiere busca (in uno scudo pel suo lavoro, special- mente quando è furbo al segno di raccomandare alla sposa, prima di lasciarla, di tener ben ritto il capo in carrozza, acciocché l’occhio degli ammiratori possa girare intorno intorno. La madre, le sorelle, le com- mari fanno il resto — Intanto lo sposo ha preso a nolo due vaste carroz- ze di rimessa; e, giunta l’ora, salgono in ognuna nientemen che sei in- dividui, non compreso il cocchiere; cioè sei donne all’una, la sposa tra la madre e la suocera, le zitelle di rincontro: nell’altra lo sposo tra il pa- dre ed il suocero, gli amici dalla parte opposta… e viva la festa!! Poi vie- ti l’anello, il si, il pranzo interminabile, l’orgia; e la domenica seguente il parrucchiere è chiamato una seconda volta, ed il cocchiere anch’esso, ma per una sola carrozza dove vanno soli soli i due sposi. Ed i monelli della città a fischiare ed alzar grida, soprattutto quando la zita non ri- valeggia in bellezza con l’Elena greca… Alcuni possono osservare che la coppia felice non è cosi lieta in volto come la prima volta!.. Ma non dia- mo ascolto ai calunniatori.

Non bisogna trascurare di aggiungere a questo proposito trovarsi di coloro che credono non esser felice il matrimonio, quando il popolo non alza i fischi nelle vie al giro che gli sposi fanno per la città…. 0 fi- schi, flagello delle riputazioni teatrali, siete pure invocali in qualche congiuntura come una benedizione!… Vero è che l’augurio talvolta so- pravvanzalc speranze, perché i pomi cotti, le melarance, e peggio se- guono i troppo invocati fischi… ma per buona sorte ciò diviene di gior- no in giorno più raro; e poi, è merce solo destinata alle perfette Mege- re.

Ed ecco cosi assicurata in qualche modo la razza delle lavandaie. La prima figlia farà come la madre che ha fatto precisamente come l’ava.  E ciò fino alla consumazione dei secoli. E cosi sia!

ACHILLE DE LAUZIÈRES.

NON vi ha eccellente trattato che non cominci da una perfetta defini- zioni: la definizione è la base di tutto l’edificio scientifico, è

Lo fondamento che natura pone.

Che cosa è il giuoco della mora?

Il giuoco della mora è un giuoco che si fa colle dita. I due giocatori sporgono l’un verso l’altro una mano per ciascheduno, ripiegandone o allungandone quel numero di dita che lor piace; al medesimo tempo che sporgon così la mano, dicono un numero, cercando d’indovinare il numero che viensi a formare dalla somma delle dita aperte della pro- pria mano e di quelle della mano dell’avversario.

Esempio: Io avanzo la mano con tre dita spiegate e due chiuse; l’avversario l’avanza con quattro aperte e uno ripiegato: se io dirò 7, avrò indovinato; se in mia vece lo dirò l’avversario, avrò indovinato esso; se nessuno dei due indovina, si segue come se nulla fosse avvenu- to.

Ogni volta che s’indovina, si segna il punto con le dita dell’altra mano; e la partita si pattuisce a un dato numero di diti, alle volte a un solo, rare volte al di là di dieci.

In questo, come in tutti i giuochi, non ha ‘parte il solo caso; molto può l’abilità, ed io cercherò di farvene comprendere alcunché.

Non parlerò delle regole elementari, poiché sarebbe un concepir tri- sta idea dell’ingegno de’ miei lettori. Com’è possibile che aprendo un sol dito della mano si possa pronunziare il numero 7, o l’8, o il 9? A questo modo si vorrebbe pretendere che colui col quale si giuoca aves- se 6, 7, 8 o più dita in una sola mano. E pure, quantunque sembrino queste inutili avvertenze, vi sono certi principianti che vi si lasciano co- gliere, eccitando le risa degli astanti provetti.

Ma vi ha qualche sottigliezza che solo conoscono i vecchi giocatori. Se la vostra mano segna il numero 3, per esempio, avrete maggior pro- babilità di vincere profferendo un numero pari (4, 6 o 8), che non ne avreste profferendo un numero dispari (5 o 7), poiché le combinazioni pari che potrete formare colle vostre tre dita e con quelle che mostrerà l’avversario son tre, e le dispari son due.

I più consumati fan pur capitale della facilità che vi è di passare da una data apertura di mano ad un’altra, e viceversa. Così dall’apertura  di tre dita si passa facilmente a quella di cinque o di due, e difficilmen- te a quella di quattro.

La fraseologia del giuoco è pur cosa da conoscersi. Chi dicesse dieci in luogo di dir tutte, si attirerebbe le fischiate. Chi ha bisogno di un sol punto, o per meglio dire di un sol dito per vincere, invece di contare il numero de’ punti da lui vinti, dee dir chiarella; allo stesso modo che i giocatori all’ècartè dicono fuor di marche invece di dir quattro.

Questo giuoco fassi non solo in due, ma in quattro, in sei, in otto, ec. Allora divisi i giocatori in due drappelli l’un contro l’altro armato, uno di ciascuna schiera dà principio alla giostra, e come soldato ferito si ri- tira ogni volta che perde un dito, subentrandogli uno de’ compagni. A questo modo si é visto sovente un solo campione rimaner padrone del campo e sconfiggere l’un dopo l’altro tutti gli avversari senza aver biso- gno dell’aiuto di alcuno dei suoi compagni. Così negli antichi tornei il mantcnitore sosteneva lo scontro di buon numero di cavalieri.

Ma i cavalieri del torneo della mora non pugnan per la donna de’  loro pensieri o per onore dello scado. Il premio de’ vincitori è una cara- fa di asprino, di maraniello, di gragnano, presentata ai giostranti da un cantiniere, o tutto al più dalla sua paffuta e tarchiata metà, che in que- sto caso empie le parti della regina degli amori. Per tergere il sudore di tal pugna il vino è l’asciugatoio più conveniente, nò si è visto mai che altro che vino si giuochi al tocco o alla mora. 1

1 Vedi la figura.

Questo giuoco era nolo agli antichi? Sissignore Essi dicevano micare nel senso precisamente identico dell’italiano fare alla mora, e con quel vocabolo esprimevano la velocità dell’alzare le dita, la celerità nel repli- care i colpi senza intermissione di tempo. Non saprei dirvi se i Greci pur l’usassero, ma la cosa è probabile assai. Certo è che se l’ebbero i Latini dovettero averlo gli Etruschi, poiché essendo la civiltà latina fi- glia dell’etnisca, ed essendo il giuoco della mora parte integrante della civiltà, dovette dalla madre Etruria tramandarsi alla figliuola. Se que- sto argomento non v’entra, dimandatene gli archeologi e gli etnografi,  e gli uni vi troveranno bassirilievi o vasi figurati rappresentanti gioca- tori di mora, gli altri troveranno fra le cinquanta parole etnische che conosciamo qualcheduna che si rassomigli all’italiano mora, o al napo- letano e spagnuolo morra, o al francese mourre, o all’inglese mora.

E qui nasce spontanea una considerazione: Spagna, Italia, Francia, Inghilterra, tutte hanno questo giuoco; dunque un popolo che invase queste quattro contrade, che tutte le abitò un giorno, dovette esserne l’inventore. Avete che rispondere? Se nulla potete addurre in contrario, eccovi i Celti maestri alla miglior parte di Europa del giuoco  della mora; ed eccovi nella loro lingua la tanto desiderala etimologia: poiché morati vuol dire mucchio, cumulo, ammasso (e in quel giuoco si som- man le dita in un sol cumulo), e meur vuol dire dito! Dopo tanto sforzo di erudizione lasciate che mi riposi un poco; ché così vi riposerete an- che voi, lettori carissimi. E poi con maggior lena ripigliamo la nostra dissertazione che va prendendo l’aspetto di una memoria letta all’Isti- tuto Archeologico di Roma o alla nostra Accademia Ercolanese.

Avevano i Romani un curioso modo di dire: essi chiamavano degno che si giuochi con lui alla mora nelle tenebre chiunque fosse incapace di tradir la buonafede: Cicerone, Petronio c S. Agostino se ne servono. Ed in vero quando allo scuro si fa tal giuoco, bisogna alle persone che giuocano prestar fede intorno al numero delle dita che levano. Ciò mi  fa rammentare del modo come giuocano fra noi 1 cicchi, che certo non hanno la buona fede di quei semplicioni di antichi romani. Essi dopo aver alzalo le dita e gridato il numero che dee indovinarne la somma, abbrancano la mano dell’avversario per verificare col tatto quello che non può verificar la vista. Infinite volte ho visto cosi giocar nelle canti- ne che accerchiano la collina di S. Martino gl’invalidi difensori della patria che nei campi di Marte di Venere o di Bacco perderono il ben della vista. Ora invano li cerchereste colà: essi passarono ad abitare in mezzo alle ricottelle e alle peregrinanti quaglie là dove Massa si spec- chia nel golfo di Napoli.

Il giuoco della mora ha molta somiglianza coi segreti. Questi in sul principio sono affidali ad un solo orecchio, e poi a voce bassa a un se- condo, e poi gradatamente la propagazione se ne fa più romorosa come nel celebre crescendo del Barbiere, finché si strombettano pubblica- mente e li sentono anche i sordi. Cosi é della mora; s’incomincia a pia- na voce e col possibile silenzio, e si finisce gridando come energumeni con quanto se ne ha in gola.

A ciò taluni poser rimedio, facendo ad ogni intervallo cantare una strofetta di nessun significato chiamata la pintaura: a questo modo il canto impediva che le teste e le gole si riscaldassero, poiché la sua mis- sione è di raddolcire gli animi cd ingentilirli. Ma i giocatori trovaron che quel canto intermedio ritardava di mollo il giuoco, e come tutte le cose buone la pintaura uscì di moda.

EMMANUELE ROCCO

Agosto 1847.

I.

CARE isolette dalle acque del Tirreno da vicino vagheggiano la ri- dente Napoli, ed incenso di fiori le tributano c. cantici d’amore. Ischia di coteste isole per estensione di sito e per bellezze naturali è la più am- mirala, la quale da levante a ponente per cinque miglia dilungandosi, ci rende immagine d’una piramide che dal mare per 2450 piedi elevando- si va a terminare coll’arso vertice dell’Epomeo. Parte della sua storia ci viene rivelata dalle sue diverse denominazioni. Pitecusa fu chiamata anticamente dai Greci, dall’essere venuta in grido nell’arte degli orcio- lai; quindi per avere dato ospizio alle navi del profugo Enea appellossi Enaria; e i padri della greca e della latina poesia Anarime la dissero, immaginandovi il gigante dalle cinquanta teste, l’immane Tifeo fulmi- nalo nella sacrilega battaglia contra il cielo, e sepolto nelle viscere dell’Epomeo. Finalmente pigliandò nome dal fortissimo castello tutta l’isola chiamossi Ischia, la quale colle vetuste lave ricorda le molte scia- gure tollerate perle ire frequenti dell’azione vulcanica: dal che atterriti gli antichi, e ignari delle cause produttrici de’ terribili fenomeni, ben s’avvisarono fingere poetando uno smisurato gigante in lotta coi Numi, gli abissi e i cieli mescolati in aspra guerra, gli elementi congiurati con- tra il cielo, e il cielo fulminante la ribelle natura.

Ora tutto è pace: l’Epomeo, il monte che sorge in mezzo all’isola come padre generatore di essa, da cinque secoli e più non apre le sue voragini di fuoco: laonde ora con più ragione affermasi, il demone del male, il genio dei vulcani, il gigante Tifeo, sgagliardato di ogni forza giacerò entro le viscere della montagna, arso cadavere. Sulla sua negra sepoltura di basalto i fiorì e le piante dispensano il riso delle grazie e l’abbondanza dell’agricoltura, e intorno all’isola adorni di verzura e lie- ti di onesta pace ridono pittoreschi villaggi che distesi giù pel pendio dei colli specchiansi nell’azzurro Tirreno. Il paese congiunto al castello appellasi col nome dell’isola, ed è città adorna d’un episcopio e d’un se- minario, dove vorrei non esser vero quanto un alunno con rammarico mi riferiva: quivi di vietarsi la lettura dell’Alighieri.

II.

L’isola nella stagione estiva è ritrovo di forestieri, quali per deporre dolorosi morbi in terme salutari, e la più parte per godere della voluttà di quell’aere soave, o per inspirarsi alle memorie ed alla pia quiete dell’incantevole scoglio. Epperò non di rado occorre rincontrarci in pit- tori paesisti sul ciglio d’un colle, nel fondo d’una valle, ora intenti a ri- trarre la lucentezza dell’aere e dell’acque, ora le feste dei popolani, e spesso intesi amorosamente a cogliere il bello dall’ultimo raggio diurno con cui il sole imporpora restremo orizzonte e di una cara malinconia tinge le vaganti nuvolette. Ed io con un pittore paesista mi trovai a visi- tare l’isola, coll’egregio amico Mattei, tutto dedito colla sua tavolozza a ritrarre i costumi dell’isola beala. Ma se alle dipinture del paesista ba- sta la schietta natura coi suoi diversi aspetti, non cosi avviene al poeta della nostra età, il quale perché le sue rime siano udite e celebrate fa mestieri che fra gli spettacoli della natura informi le sue Armonie dell’indole e dei bisogni della società e giovi cantando alla vita civile della sua patria. Ed il poeta del secolo decimonono dai fasti dell’isola ben potrà derivare concetti splendidi ed utili, laddove si faccia a consi- derare come la divina Provvidenza segnasse Ischia a conforto di grandi uomini nello stremo della sventura. Enea, lasciate le materne sponde di Xanto, nel suo esiglio si asside a quei lidi; vi si asside Mario proscrìt- to. Enea e Mario: in questi nomi due grandi epoche vedea scolpite nei fasti dell’isola, e risguardando al castello mi scntia tratto nel secolo XIII, quando l’isola fu spettatrice di un magnanimo esempio di virtù militare operata da Giovanni Caracciolo. Il quale valorosissimo    uomo

tenendo dalle parti dello svevo Federico II contro le armi dell’impera- tore Ottone IV, vedutosi stretto da straordinarie forze nemiche, meglio che dirsi vinto, elesse da gloriosissimo capitano morire entro una torre abbruciato, martire della fede militare. E fu nel medesimo castello che Costanza d’Avalos per onorare la travagliata casa aragonese per nulla temette i disastri della contraria fortuna ed alle armi francesi oppose gagliardo animo virile. Per siffatta guisa onorato il castello d’Ischia ben meritò divenir poscia armonica stanza alla marchesa di Pescara, Vitto- ria Colonna, la quale, come l’appella nobilmente il Valéry, fu la santa Musa di Michelangelo, la Beatrice del Dante delle arti. L’illustre donna, per beltà e per poetico valore celebrala nell’omerico verso dell’Ariosto, salì eziandio a gran fama per maschie virtù cittadine; e siano argomen- to il consiglio da lei dato al consorte, al vincitore di Pavia, allorché i principi d’Italia lo scettro di Napoli gratulando gli proffersero. Cono- scendo ben ella quanto sia difficile impresa il governare le nazioni con accorgimento, d’ogni vano orgoglio dispogliata lo persuase a risponde- re col niego all’offertogli reame, a lui dicendo: Per me non desidero di esser moglie di re, ma si di quel gran capitano che seppe vincere non tanto col suo valore durante la guerra, quanto nella pace colla sua ma- gnanimità i più grandi re.

III.

Ischia, al pari di ogni altra terra d’Italia, ebbe a patire mutamenti di fortuna e piraterie di ogni maniera: ma sarà sempre venerando il paese che fra l’ire degli elementi e degli uomini serberà come Ischia esempi  di generose virtù. Mentre per tal modo io meditavo i destini dell’isola,  il pittore che a me si accompagnava, in riva al mare, conficcato nell’arena l’ombrello, messo in acconcio il seggiolino artistico, e sedu- tosi di prospetto al castello, ne ritraeva i merli ed i baluardi. Egli ren- deva coi suoi colori l’esteriore fisionomia, ed io accoglieva nel mio pet- to il sentimento de’ fatti gloriosi che vivificano la memoria dell’antica rocca. Compiuto ch’egli ebbe il suo lavorio, ravvolse come in un fascio l’artistico fardello, e seco mi trasse verso Casamicciola, grazioso villag- gio da parecchie famiglie straniere eletto a piacevole dimora. L’amico mi dicea, cammin facendo, tornargli a grato ed utile passatempo quel continuo errare nelle modeste case del pescatore e del colono: e fra l’amo e la rete, fra la falce e ’I vomero, studiare e ritrarre gli usi della semplice vita, e goder le musiche e i balli delle popolane lor feste,   non

ancora contaminate da] fasto cittadinesco. Poco discosto dal paesello Lacco, ci si offerse alla vista presso casa campestre sotto un pergolato una bruna villanella vestita a festa alla foggia delle isolane, la quale coi neri e vivaci occhi vigilava a se d’intorno ventagli, canestri e cappelli da lei vagamente congegnati con paglia. La guardammo col godimento dell’ammirazione, ed entrato il Maltei in desiderio di prendere l’imma- gine della leggiadra isolana, studiò modo di rendersela benevola chie- dendole se tenesse ventagli da vendere, ed ella rispose che sì: ci prov- vedemmo di due ventagli colorati a sembianza dell’iride, e lodatone il lavoro—Come vi chiamate? — la interrogò l’amico; ed ella — Lucia per servirvi. — 0 buona Lucia, volete permettermi ch’io vi faccia il ritratto?

— riprese l’amico; ed ella sulle prime ritrosa, fece poscia il voler nostro, lieta forse del vedersi ammirata e di alcun denaro che aggiugnemmo al prezzo dei ventagli. Il pittore distemperati i colori su l’assicella tolse a dipingere la bella Lucia; la quale avea il capo coverto d’un velo color giallo, detto volgarmente magnosa, sulla fronte bizzarramente ripiega- lo: dal velo le traspariva la nera capellatura chiusa da rosso fazzoletto spiralmente acconciato in guisa di turbante: dagli orli della magnosa dondolavano gli orecchini, ricchi di perle: serico giubbonetto di colore scarlatto con frange d’oro le si stringeva al seno, cui maggiormente il- leggiadriva cilestre pezzuola scendente dal collo ed ai luoghi assicurata: ed un abito verde con grembiale violaceo compiva la vestitura di quella isolana. 1 Ritraendola quegli le andava dicendo —Voi siete buona, o Lu- cia: ben diversa di tante altre, che di soverchio vogliono esser pregate,  e talvolta mi fuggono; non altrimenti che se la mia matita ed il pennel- lo fossero due pugnali per trafiggere le belle isolane. 1 — Un dolce sorri- so sfavillava sulle brune sembianze di Lucia, che andava accatastando le sue merci di paglia; ma a toglierla al nostro conversare accorse la vecchierella Maddalena, la suocera della vagheggiata. — Lucia, Lucia, sciamando, fa presto; andiamo a Lacco: sono le ore ventidue, è il mo- mento della processione. — Ed io vi attendeva, rispose la nuora, eccomi pronta. — E a noi rivolta proseguì:—Vi deggio lasciare: vado a Lacco per venerare Maria Santissima, che oggi si festeggia: ed io più d’ogni altra donna ho debito di onorarla, perché nel canale di Procida, in una tempesta orribile, presso a Capri, mi salvò dal naufragio Io sposo, il caro Tore. — Oh si, povero figlio! ripigliava Maddalena, mentre andava pescando, il mare lo voleva morto, ma votatosi egli a Maria, fu salvo. — Frattanto Lucia andò a deporre in casa la sua mercanzia: il pittore col pennello nella sua tela fece alcuni segni qua e là che indicassero   Mad-

1 Vedi la figura.

dalena, la quale vestiva l’antica vestitura delle isolane: la mantiglia al capo di lana rossa, orlata di color giallo, ed abito cilestre con grembiale di lino bianco. Siccome ad ogni istante si offrono all’uomo i contrasti della natura nella gioia e nel dolore, nella vita e nella morte, così pure il pittore ebbe accolte in un pensiero nel campo d’un’angusta tela Mad- dalena e Lucia, la vecchiaia e la giovinezza. Le donne ci salutarono e partirono: e noi ripreso il cammino errammo per diversi fioriti viottoli, e noi pure andammo a Lacco; dove giungemmo quando la processione già uscita di chiesa stendevasi per te vie folte di popolo devoto. Nel tra- monto d’un bel giorno d’agosto una pia festa campestre in riva al mare, sotto il sereno cielo partenopeo, è scena soavissima che tocca il cuore! Croci, stendardi impressi di sante istorie, suoni di campane, ceri acce- si, consorterie vestite in varie fogge, preti, monaci, componevano la processione echeggiante di preghiere, con cui traevasi il pio simulacro della Madre di Dio: intorno a cui vedemmo gran moltitudine di minuto popolo accorsa dalle vicine borgate, e dame nordiche da Casamicciola convenute, ed incontrammo Lucia e Maddalena che andavano snoccio- lando devotamente le deche del rosario. Molle barchette veleggiavano presso alle rive, e vedovasi un naviglio inglese, abitato da bellissima Miledi che vive nei regni delle acque e solo per breve diporto tocca la terra: ella pure salutava la festa di Lacco colle musiche del naviglio.  Qua e là vagando ci diè negli occhi un ardente giovane tutto moto che allineava la processione, ed or ne faceva ritardare, ora accelerare il cor- so, e a chi dava il segnale perché si desse il fuoco ai mortaletti, ad altri perché alle musiche si alternassero i canti. In lui si fissarono gli sguardi di Lucia, ed — Ecco, esclamò a Maddalena, ecco il nostro Tore. — Oh benedetto giovane! era la gratitudine dell’ottenuto benefizio che lo in- citava alla pia esultanza.

Posato il santo simulacro in mezzo alla via su d’un altare sparso di fiori ed odoroso d’incensi, al lungo ripetuto frastuono di squille, di can- ti e di mortaletti successe grave silenzio. Mute le campane, muti gl’inni delle devote consorterie, mute le musiche del naviglio inglese, muta la moltitudine atteggiata a preghiera. Solo un’arpa non era muta: l’arpa d’un buon vecchio che seguiva il simulacro traendo cari suoni dalle corde armoniose, e rendendo immagine dell’inspirato Davidde arpeg- giale intorno all’arca d’Israello. In quell’arpa parea accogliersi l’armo- nia dell’universo, votato alla madre dell’Uomo Dio. Rapite in estasi dolcissima Lucia, Maddalena e Tore si guardarono colle lagrime agli occhi, accennando al divo simulacro, come se àd un tempo stesso, in guisa di tre corde in una medesima armonia, dir volessero: — Ecco la

Vergine Santissima che ci rese la pace e la prosperità.

IV.

Non istà tutta nelle borgate la letizia per chi voglia visitare l’isola;  egli dovrà salire l’Epomco per inebriarsi ad un acre purissimo che met- te le anime in commercio cogl’immortali, quasi il premere le alte cime dei monti fosse un appressarsi alla regione dell’eternità, un attingere i tabernacoli del vero; epperò in quelle supreme aeree solitudini si sente lo spinto della divinità che scende dall’alto a raddoppiare l’umana esi- stenza. La gentilità ricorda Filippo il re di Macedonia che superate le faticose balze dell’Emo ordinò che sul vertice si rizzassero due altari, al Sole ed a Giove; e la Bibbia ricorda come gl’israeliti fossero più gagliar- di nelle pugne combattute su’ monti, talché i Siri paventavano. venire 1 sulle montagne contra essi a battaglia, certi della sconfitta, ed elegge- vano guerreggiare nelle pianure. Dal che come dalle istorie di tutti i po- poli apparisce in ogni età il sentimento della religione avere governate le altezze dei monti; e la nostra Italia dalle Alpi a Mongibello mostra i suoi monti, santificati da cenobi e da pie tradizioni. L’Epomeo nel se- colo XV vide sulle sue cime in onore di San Nicola sorgere un eremo per opera di Beatrice della Quadra con alquante sue compagne colà condottasi a rombica vita: le quali tramutatesi poscia in un cenobio aperto nel castello d’Ischia, l’eremo rimase diserto.

Ma l’Epomeo non dovea rimanere a lungo senza il culto di Dio, e sic- come i monti di maggior grido dovea vedere ristaurati i suoi eremi ed animati nella preghiera dei devoti; il che accadde nei tempi del Borbo- ne Carlo III per un esempio singolare di cristiana pietà.

Il tedesco Giuseppe Arguth capitanante l’isola, investendo due guer- rieri dalla bandiera disertati, fu in forse della vita per il cavallo caduto- gli sotto, e per gl inseguiti che cogli archibusi minacciandolo tentarono finirlo; allora egli invocò il Divo del monte, l’Arcivescovo di Mira, ed a lui votato usci d’ogni pericolo senza patirne sciagura nessuna. Ottenuta la grazia, depose le militari insegne per vestir la lana dei romiti, e tras- se vita penitente nell’eremo di San Nicola, dove aperte nel tufo diverse celle, ed ornata la chiesa, in compagnia d’altri devoti finì i suoi giorni santamente, e fu sepolto nel tempio delle sue virtù testimonio veneran-

1 Servi vero regis Siriae dixerunt ei: Dii montium sunt dii corum, ideo superaverunt nos  e ed melius est ut pugnemus contra eos in campestribus et obtinebimus eos, Lib. III. Reg. cap. XX. 8 43.

do. Ora diversi altri eremiti mantengono in riverenza quel santo luogo, ed io Ira loro seduto sulle antiche lave meditai ai diversi destini dell’Epomeo.

Il gentilesimo associò all’Epomeo immagini di sacrileghe battaglie, rappresentando l’uomo fatto gigante nel male, insuperbito contro il cielo, e finalmente prostrato. Il cristianesimo mutandone il nome in quello di San Nicola, lo rese caro per fedeli racconti spiranti amore e pietà; e vi addita l’uomo composto alla preghiera pel ministerio delle buone opere in dolce consorzio col Dio delle misericordie. La gentilità vi additava Giove armato di fulmini sceso a terribile vendetta: il cristia- nesimo ricorda il santo uomo che per generosa carità salvò dal peccato la giovinezza di tre donzelle, ed al pellegrino che vi giunge coi versi dell’Alighieri parla piamente

della larghezza

Che fece Nicolao alle polcelle

Per condurre ad onor lor giovinezza. 1

Cosi meditando guardava intorno al monte, e tutta io vedea la bellis- sima isola festante di pampini, di case e di beate memorie; e poco di- scosto vedea Procida, forse memore ancora del tempo che alla sorella Ischia era congiunta. Più in là spingendo gli sguardi salutava da ponen- te Miseno, Baia, e quindi Posilipo e Mergellina: dalla banda orientale salutava Capri e il Vesevo. e i campi che un dì vantarono Pompei ed Er- colano. Alle voluttà dei siti deliziosi si frapponeva la terribile immagine della tirannide romana; la quale posate le cure del Campidoglio venne nei giardini di Partenope a sordidare le opere di Dio con barbare car- neficine e con lascivie smodate: se non che i pensieri del terrore dissi- pavansi all’alitare di un’aria soave che ricreandomi i sensi rendeva l’anima leggiera ai voli della poesia. Per la qual cosa sul più alto vertice dell’Epomeo bo desiderato rivedere il devoto vecchio che sonante Tar- pa tenea dietro alla processione di Lacco. Avrei voluto udire la sua arpa accosto le tombe degli eremiti; l’avrei ascoltata con riverenza, siccome l’arpa d’Israello sui monti di Dio: avrei sposato al Davidico stromento le soavissime rime che ad Ischia intonò nelle sue meditazioni Alfonso de Lamartine, il Geremia della Francia: il quale sotto questi Armamen- ti di luce e di canto attinse l’ambrosia più dolce della poesia: perché

1 DANTE— Dir. Com. Purg. C XV.

l’Italia o colla fragranza e colla splendidezza del suo cielo o colla narra- zione delle sue istorie fu eletta da Dio ad ispirare i poeti d’ogni più col- ta nazione. 1

GIUSEPPE REGALDI.

1 Diverse notizie riguardanti l’isola le ho attinte dall’opera del eh. Cav. Stefano Chevalley  de Rivai, intitolata— Descrizione delle acque termo minerali e delle stufe dell’Isola d’Ischia — opera pregiata: ed è maggiormente da commendare nell’edizione fatta nel 1828 per le dotte e molte note dell’illustre e non mai abbastanza rimpianto Michelangelo Ziccardi.

APPARENZA inganna, e l’abito non fa l’uomo, onde se per avventura vi faceste a credere che quella macchina dell’arrotino fosse di sì poco con- to, come mostra, che quel grido prolungato, quella specie di cantilena; Ammola fòurf, l’Ammola forbici), o con più stretta sincope, secondo altri, Afo-urf, non fosse più che una voce volgare, v’ingannereste a par- tito. Che studio, che meditazioni, che sapienza, che poesia io quell’uomo con la sua modesta macchina! Prima di tutto è a far distin- zione tra arrotini di prim’ordine o maiorum gentium, che van denotati col nome generale di, ed arrotini di second’ordine o minorum gen- tium, che sono propriamente gli ammola-forbici.

Quelli han loro grandi botteghe, spesso nelle strade più cospicue del- la capitale, ed il loro mestiere non istà solo in aguzzare, affilare, arruo- lare e brunire, ma, provveduti di ruote, ferri, pietre, cd altrettanti argo-

1 Non trascuriamo qui di rimuovere una difficoltà, che spesso ci venne fatta, e che certo ci verrebbe fatta sempre. Affinché non sembri strano che un’opera descrittiva di Napoli e contorni si occupi dell’arrotino, che vien di provincia (quantunque pure, come vedremo,  ve ne abbia de contorni), e così di altri usi di simile genere, che non àn cuna né in Napoli né in sue vicinanze; dichiariamo di aver compreso tra i nostri costumi quelli ancora, che, non essendo a stretto dritto napolitani, meritano di esservi annoverali come speciali della nostra patria, e, diciam così, per antico dritto di cittadinanza.

menti, fabbricano benanche. Ve ne sono francesi ed inglesi, e pur va- lenti napolitani; e della costoro opera si avvale anche il celo più eleva- to, perocché han delicatezza nel lavorare e conoscenza dell’arte. In cambio gli ammola-forbici, onde parliamo, son poveri girovaghi, spe- zie di tribù errante, che traggono alla capitale per accumulare un pò di lucro dalla loro picciola industria; e la lor conoscenza d’arte non è, a  dir vero, squisita.

Campobasso è vaga città, collocata a pendio d’un picciol monte, capi- tale del contado di Molise, provincia del nostro regno, antica Sannio, ricca delle rimembranze di quei popoli formidabili 1 che sol dopo venti- quattro trionfi cedettero alla potenza romana, e che occupavano anche parte delle province di Capitanata e di Abruzzo Chietino. Ha molte e ri- putate fabbriche di coltelli, forbici, ec. ed i be’ lavori che vi si fanno son chiara testimonianza del progresso dell’arte. Giornalmente possiamo osservarne; e nelle nostre sale d’esposizione spesso abbiamo avuto il destro di ammirarne la bontà, l’eleganza e la maestria dell’esecuzione; ciò nondimanco par non esservi altro che lame e lavori ed acciai ingle- si! Qualunque ne sia la ragione, a noi altro non occorre che dire, come gli arrotini (intendete sempre gli ammala forbici) nella massima parte vengano di cotesta provincia, o soli, o in compagnia di lor concittadini, e ne abbondano tuttodì le strade, perocché in patria, essendo così nu- merose ed accreditate fabbriche di acciai, potendo dirsi quella la prin- cipale industria, il loro mestiere, di picciola levatura, non troverebbero ad esercitar altrimenti. Veggonsene pure degli Abruzzi Aquilano e Chietino, forse ancor fedeli agli antichi compagni del Sannio, e taluno anche di Torre Annunziala, ne’ contorni di Napoli, ma questi son po- chi.

. L’acconciatura dell’arrotino consiste all’incirca, in un paio di grosse scarpe ignoranti affatto non che della pelle lucida e della vernice, pur della mistura; calze lunghe e calzoncini stretti con fibbiette ai polpacci; camiciuola con piccioli bottoni di metallo a campanelline, breve giacca e cappello a piramide tronca. Questo, che si ritiene tuttavia da qualche osservatore delle patrie costumanze, può chiamarsi l’abito più fedele e genuino, l’uniforme per dir così, che si presenta a prima giunta al pen- siero trattandosi d’un arrotino. Nondimeno nella più parte ha soggia- ciuto a svariate modificazioni, sì che v’incontrerà avvenirvi più di leg- gieri in un arrotino dalla giubba cilestre e calzoni lunghi del color me- desimo, rimboccati sulla scarpa: dal cappello elastico e   morbidissimo,

1 Olio popoli abitavano il Sannio: Irpini, Sanniti propri, Mani, Peligni, Frentani, Marrnccini, Vestini e Picentini.

divenuto per età più che per nascita un facsimile di un cappello a sou- fllet, tanto in cima alla testa collocato da lasciar ravvisare perfettamen- te l’orizzonte d’un berrettino bianco, che sorge dal bel mezzo come la luna alle spalle d’un monte: in un altro, ribelle onninamente alle costu- manze, vestilo con giacca e calzoni come ogni cittadino e (in con la coppola. Tutto invecchia quaggiù, ed anche un arrotino, se abbia un pò di sale in zucca, si persuade come dobbiam pure spignerci innanzi.

Dobbiamo a morte

Ciò ch’è nostro e noi stessi

dice Orazio; epperò ninno maraviglierà se si elevi una pira, per ar- dervi su, con mille altri vecchiumi, i. calzoncini ed il cappello a fiscella dell’arrolino. Convien dire inoltre come il rispetto monumentarlo e tra- dizionale vada sensibilmente scemando, e l’uomo, questo superbo ani- male, abbia rotto impudentemente il vincolo che il legava alle pantofo- le paterne o alle fibbiette dell’avo; si che i nostri posteri non vedranno forse mai più un arrotino tipo!

Persuasissimi di tal verità vi presentiamo un arrotino ritratto dal vero, in anima e corpo, com’io posso testimoniare, il quale non è dub- bio che sia affatto del secolo, come il dimostra il suo vestire ed in ispe- cial modo il cappello. 1

Cadono le città, cadono i regni, ed è caduta anche miserabilmente cotesta foggia di cappelli morbidi e cedevoli di pel di conigli o peggio qualche volta. Fu costume degli artisti, specialmente pittori: li chiama- no anche cappelli alla fiammingo, Ibrsc perché più in uso presso quel- la scuola; e molti sommi nell’arte coprirono il capo di cappelli a simile forma; poscia {tassò a viaggiatori artisti e non artisti, dotti ed indotti, curiosi e bauli; poscia anche a’ cittadini e spesso con certe facce anti ar- tistiche ch’era una vera pietà; ed ha terminato finalmente per essere il retaggio degli arrotini e fin de’ concia tegami, il che vedrem meglio a suo luogo; quantunque, a dir vero, ambedue artisti sui generis; e così di tanti altri ordini volgari, come i venditori di bassa chincaglieria, che assediano le nostre strade e le nostre botteghe da caffè, tra’ quali, per quello spirito di gioviale imitazione che è nel Napolitano, non mancano curiose parodie toscane, francesi, e di regioni oltramontane eziandio.

Chiediamo scusa della digressione e ritorniamo a callaia; proponen- doci di cominciar le nostre fantasmagorie, facendo vedere nell’arrotino un personaggio allegorico, un filosofo errante come Barbanera o per-

1 Vedi la figura.

manente come Diogene; un negoziante, un menestrello, un  grand’uomo infine che può sciamare «ho tutto meco» probabilmente con un poco più di ragionevolezza di quel cencioso filosofo che insu- perbiva nella balorda idea di essere a questo mondo l’ingegno il più gran capitale dell’uomo. Pace alla memoria dei matti! — Esaminiamo  la macchina del nostro arrotino.

Vien su dal mezzo un legno. È a questo attaccata una secchia di latta1 per ordinario mezzo logora e sudicia, di forma all’incirca d’una fia- schetta, pel cui collo s’introduce l’acqua, la quale cade giù, goccia a goc- cia, sull’orlo della ruota di pietra, per via d’un bocciuolo, che parte dal mezzo della secchia, frenato da un fil di ferro. Altri, in cambio della secchia adoperano una vecchia stagnata, altri un orciuolo. Passa pel centro della ruota di pietra, collocata tra due aste principali verticali, un’asse rotonda di ferro, mossa da una vicina carrucoletta, cui si avvol- ge una cordella, ligata alla grande ruota di legno. Un’assicella sull’estremità dritta della macchina è mossa da una grossa coreggia,  che termina ad un ferro, presso a poco in forma di girella, il quale fa volger l’asse della ruota. Così l’arrotino, agitando col piede cotesta assi- cella, gira la ruota principale, e con essa, in conseguenza, la carrucolet- ta e la ruota di pietra. Questa freme allora sotto l’energico stropiccìo  del metallo premuto da una mano potente sopra i suoi orli, e quando è molta l’antichità o la ruggine del ferro, non freme isola la poveretta, ma gridai,

Treman gli abitator dell’ombre eterne Al rauco suon della tartarea pietra

e con ta’ gridi, ch’io gli odo distintissimi dal settimo piano, cui all’incirca corrisponde la casetta che abito; e le scintille di fuoco che schizzano, e gli spruzzi di acqua, che rompono con violenza l’atmosfe- ra, sono ama bella lezione di fisica, forse non curata, perché si ha anche ad un tornese; da poter apprendervi la pila del Volta, la macchina pneumatica e la elettrica. Quando poi vi piaccia considerare la cosa dal lato morale, quel ferro che si annota raffigura la vita umana consumata dalla rabbia e dalle tribolazioni. Laonde non senza ragioni iodico quella

1 Gli ammolatori (arrotini di prim’ordine) avendo le loro macchine fisse, invece di girar la ruota col piede, hanno i garzoni che la girano con la mano, mediante il manico di ferro che vi è attaccato. Taluni ammolatori, senza aver bisogno della secchia, han la mota di pietra collocata in una specie di cassapanca vuota, nella quale ripongono l’acqua, per modo che la ruota di pietra l’attinga nel girare. —La fedeltà della storia ci obbliga a discender a certi ragguagli forse di soverchio minuti.

macchina un trattato di fisica, un libro di filosofia; filosofia applicata e per avventura più utile di quelle, che per insegnar troppo l’io ed il fuor di me finiscono per non capirle più né l’io né il fuor di me, cioè né io noi voi. — Andiamo avanti.

Nell’arrotino io raffiguro il tempo; l’arrotino è la vera immagine di Saturno; il tempo strugge, dunque arruota; chiarisce il vero, dunque brunisce; consuma, dunque affina; sviluppa l’ingegno e fa ravvedere gli uomini, dunque aguzza; onde, essendo ornai cosa fuori moda dipignere il tempo con la falce e l’ampolla, sarebbe altrettanto energico rappre- sentarlo col cappello a fiscella, in atto di arruotare. Ed eccovi uno squarcetto di mitologia.

È l’arrotino una specie di Arabo, di Germano, di Moro, ma invece del cavallo, della guerra, della sua donna, ama alla follia quella macchina, che fa alla sua volta da guardaroba e da magazzino portatile. Infatti è provveduta di diverse cassette, una delle quali, a lungo fondo, serve a riporvi qualche camicia, calzoni od altro, per poter il poveruomo, lasso e defatigato, sollevarsi alquanto in quella vita che mena, dall’alba lino a sera avanzata; un’altra lunga quadrangolare, inchiodata per lo più all’un de’ lali della macchina, serve di magazzinetto al suo negoziuccio di forbici, coltelli ec. In altre più piccole ticn cenci, qualche pietra ad olio, chiodetti, lime, martelli ec. Taluni hanno, in cambio, una borsa di cuoio, per riporvi tutti cotesti arnesi. Sulla macchina è anche un’ancu- dinetta fissa per accomodare, inchiodare od altro, e pervia d’una stri- scinola di cuoio vi è attaccato un martello. L’arrotino gira con la sua macchina sospesa alle spalle, mediante una grande coreggia, rendendo per tal guisa somiglianza d’una lumaca che seco tragga la sua casella.

Questo è almeno quanto posso dirvi, in generale, sulla costruzione delle macchine degli arrotini; ove poi voleste considerarle nelle più mi- nute particolarità, avreste a perdervi la testa, ché io, per non narrarvi balorderie, essendo stato osservatore attentissimo di quante ne ho ve- dute, ho trovato quasi io ciascuna una diversità, tale avendo la ruota di legno più grande, tale più piccola, tale collocata nel giusto mezzo, tale più da un Iato, tale più da un altro, tale più su, tale più giù; tale più cassette, tale meno; l’una collocata in un modo, l’altra in un altro, ben- ché veramente non sieno che modificazioni. Avvezzo a dominare il fer- ro, un arrotino non saprebbe forse comportare la monotonia d’una scrupolosa conformità! Da negoziante esperto, l’arrotino non di rado, lasciando in riposo qualche tempo la macchina, ponsi a vendere forbi- ci, coltelli, temperini o pietre ad olio, per tentare anche quest’altro lato del commercio. Ei giuoca allora un vantaggio sicuro contro un  incerto,

sacrifica qualche giorno ad un’arte novella, forse ricordando il prover- bio napolitano «Chi non reseca nun roseca. 1 Sono quelli in cui sovente ci avveniamo, i quali, portando sospesa al collo una cassetta contenen- te la loro merce, gridano con voci lor proprie — Forbiciaro Coltella- ro Campobasso Campobassese.

Vive egli principalmente con quell’ordine di persone, cui i ferri sono indispensabili, come la penna ad uno scrittore, il Donato ad uno scola- ro, il soldo ad un impiegato; laonde han bisogno dell’opera di lui e bec- cai e bottai e tipografi e sarti e ligatori e mille altri; in ispecial modo poi i calzolai che il tengono occupato buona pezza della giornata; e Ira que- sti segnatamente ha l’arrotino, come ogni buon commerciante, i suoi acconti (clienti). Non di rado è chiamato su per le abitazioni, cd un ar- rotino, il ripeto ad onore dell’onestà ed anche della mia patria, mi assi- curava di trovarsi piuttosto contento del guadagno che faceva in Napo- li; tanto è vero che l’uomo dabbene e moderalo trova un tesoro nel po’ di pane che ricava dal suo stento e sudore, laddove all’avido è sempre miserabile appannaggio la più doviziosa fortuna! Questa povera ed onesta gente è anche educata a sufficienza per la sua condizione; il che non parrà maraviglioso in un uomo che arruota e brunisce di continuo. Si riducono gli arrotini alla patria nel Marzo, e vi dimorano alcun tempo, perocché son destinati alla tosatura delle pecore nelle Puglie. Vi ritornano nel Dicembre, c, poi che per alcun giorno han diviso lieta- mente in famiglia il gruzzolo fatto, vengono di bel nuovo in Napoli; sì che può dirsi questo il lor domicilio elettivo. Senza voler far mica la sci- mia al giudizioso autore dell’opuscolo «Dante cuoco» 2 pongo anzi, come appendice, per l’arrotino, una mia idea; ch’ei fosse stato ricorda- to da molti illustri, o che almeno scrivessero o parlassero mentr’e’   gri-

dava per la strada. Ecco p. e:

Ombre ruote ed arene a passi lenti, Atre, dure, minute i di togliete. MONTI.

Se stessa affina

La virtù ne’ travagli. METAST.

  1. 1 Equivalente all’Italiano — Chi non rosica non rosica.
  2. Il ch. sig. Emmanuele Rocco, collaboratore alla presente opera.

Fra i vivi cote set d’invidia Insana. DELLA GASA.

Adesso è tempo, adesso;

Finché limo tu sei molle e bagnato Che con presto girar non intermesso L’acre ruota ti foggi. PERSIO.

Amo meglio annotarmi che arrugginirmi

diceva Lastenia a colui che le faceva quasi un rimprovero del sover- chio faticare. Vedete poter d’un arrotino! — E tante altre erudizioni,  che vi sciorinerei di buon grado se fossi ricco di sapere come tanti miei amici; ma a me, convien che ne serbi un pochino per un’altra volta.

Gioverà ricordare quanto l’arrotino sia stato un tempo caro alle muse, solendo accompagnar sempre qualche canto al movimento della gamba e al monotono girar della ruota. V’ha una lunga canzone vene- ziana sull’arrotino, graziosa, ma per verità non castigatissima. Pasqua- lotto, quella produzione che brillò tanto sulle scene del nostro teatro popolare e terminò per invadere fin quelle de’ burattini; ha la sua can- zone dell’arrotino sul motivo celebre, anche conosciuto col nome di Pasqualotto, perché in fatti Pasqualotto è una celebrità musicale clas- sica, per avvalermi d’una voce tanto spesso stipala, e queste strofe avrete canticchiate o intese canticchiar di sicuro, essendo popolarissi- me. Non so perché sieno dirette precisamente alle donne, ma certo quell’uomo celebre di Pasqualotto dovette avere le sue buone ragioni. Ciò non pertanto ora, lo ripetiamo, si van cancellando tutte le belle ri- membranze; ché, eccetto qualche Nestore del mestiere, il quale forse tenta talvolta di risvegliare la musa avvilita, l’arrotino è mulo al suo uf- fizio, e non si ode altro che il fremito della ruota, e tratto tratto la  voce

A-fo-urf chioccia come quella di Pluto, o d’un secondo tenore de’ no- stri teatri, che vale lo stesso!

L’arrotino ha dimenticato anche Pasqualotto e si che per un arrotino è un torto marcio quello di dimenticar Pasqualotto: è come un dilet- tante che dimenticasse i solfeggi, o uno de’ tanti nostri amici poeti, che dimenticasse Ruscelli. — Ecco intanto le strofe famose del Pasqualotto (di cui non garantisco la grammatica).

Donne, qui v’è il moletta Donne chi vuol molar, Correte tutte in fretta

La fornico a molar;

Donne correte tutte La forbice a molar, Correte belle e brutte La forbice a molar;

Io fo girar la mola Col tira lira là.

É un’arte che consola, Che il bel mestier ci dà. Un giorno andai in piazza Gridai; chi vuol molar: Apparve una ragazza

La forbice a molar.

Io fo girar la mola Col zira zira là.

É un’arte che consola, Che il bel mestier ci dà. Donne qui v’è il moletta, Donne chi vuol molar, Correte tutte in fretta.

La forbice a molar;

Io fo girar la mola Col zira zira là.

È un’arte che consola Che il bel mestier ci dà.

Io fo girar la mola Col zira zira là.

È un’arte che consola, Che il bel mestier ci dà.

Un fac-simile sono quelle che si cantano nell’Ammola fruoffece, commedia del napolitano Orazio Schiano, la quale ottenne anche mol- to plauso sul nostro teatro di S. Carlino.

Prima di chiudere occorre un altro dubbio. — Onde derivò all’arroti- no il suo ardore poetico? Qual sangue scorre nelle sue vene? Furono per avventura i suoi antenati bardi, caledoni, scaldi, menestrelli? — Nulla di sicuro su tal subbietto; la storia tace; io non sòglio già distillar- mi il cervello con alberi genealogici, de’ cui rami non sempre può gua- rentirsi la nettezza: la tradizione indurrebbe a credere essere stato Pa- squalotto il primo arrotino, l’arrotino nonno, ma io ho ragione di cre- dere, in cambio, che il capo arrotino fosse stato un menestrello;

È un misto di veneziano ed italiano, italianizzato dal tempo, a quanto pare.

e lo ricavo da una antica ballata, che sudai a rintracciare, ed attenen- te senza alcun dubbio ai tempi di mezzo: la quale è questa:

Se al tuo prego non sia sorda La più bella fruttaiola,

Da un violino che s’accorda Se li salvi S. Nicola:

Il coltello e ‘l temperino Non toccar dell’arrotino.

Derelitto il patrio tetto. Di valsente sprovveduto. Va ramingo il poveretto, Chi gli batte già il liuto: 1 11 coltello e ‘I temperino Non toccar dell’arrotino.

Quante volte alla foresta L’usignuol non l’ha destato. Col cappel sotto la lesta Presso il muro addormentato. Il coltello e ‘l temperino

Non toccar dell’arrotino.

Sulla scala, oh quante volte! daccanto ad un pollaio.

Con le luci al ciel rivolte

Sta aspettando il calzolaio! Il coltello e ‘l temperino Non toccar dell’arrotino.

Campobasso scorse illeso, Ogni monte ed ogni valle. Col suo grido sottinteso, Con la ruota in su le spalle. Il coltello e ‘l temperino Non toccar dell’arrotino.

Arrotin seccato e lasso All’alloggio pervenuto.

Sgrava il dorso e ferma il passo. Paga al sonno il suo tributo:

Il coltello e ‘I temperino Non toccar dell’arrotino.

Se al tuo prego non sia sorda La più bella fruttaiola,

Da un violino che s’accorda Se ti salvi S. Niccola:

Il coltello e ‘l temperino Non toccar dell’arrotino.

ENRICO COSSOVICH.

1 Vernacolo. Ventre.

L’acquavitaro u vulite?… Acquavità…

L’acquavit.

L’uomo del popolo sente. come il ricco, necessità di soddisfare ai bi- sogni della vita, e, non avendo i mezzi di costui per potersi provvedere di ciò che gli fa mestieri ne’ grandi negozi, trova nello stesso suo celo mercanti che gli vendo! no quanto gli e necessario, adattalo alla sua misera condizione ed a ciò che può spendere.

E però se il ricco trovava in Napoli magazzini di abili e stoffe ben for- niti, splendidi negozi di ori e gioie, eleganti saloni per tagliare i capelli, e botteghe di caffè messe con gran lusso; l’uomo del popolo troverà pure come potersi vestire a prezzi discreti nella strada della troverà a comperare anella, pendenti, rosette, catenelle ed altri oggetti di oro o di argento nella via degli, delta così per il gran nu mero di orali che ivi si rinvengono; potrà andare da un barbiere che con tre grana fa la bar- ba, e con cinque taglia i capelli, ovvero entrare invece da uno di quei barbitonsori ambulanti, che piantano la tenda nel luogo che più loro

conviene, e che per un grano fanno barba e caruso, e scorticano il mento del povero paziente mettendogli una mela in bocca, mela che regge passando per cento iucche, fino a che non trova qualcuno più di- sperato del barbiere che la mangi a suo dispetto; e finalmente in quan- to a quei piccoli desideri della vita, che son chiamati comunemente vizi, come sarebbe a dire il caffè, l’acquavite, la pipa, il tabacco o altro, l’uomo del popolo trova da poterli soddisfare a seconda del suo stato e della sua scarsa borsa, ed a quell’ora che più ne sente il bisogno. Ecco donde ànno avuto origine tanti piccoli mestieri, ecco donde ne sono ve- nute tutte quelle piccole industrie, alle cui speculazioni ed al cui guada- gno infinitesimale si danno quei della plebe. Or noi vediamo qui in Na- poli molti uomini industriosi, che non uno di questi piccoli mestieri ma due o tre ne esercitano, per accumulare da tutti tanto da poter vivere onestamente essi e le loro famiglinole. — Noi ne presentiamo io questa opera un nel venditore di acqueviti, chiamato nel nostro dialetto ac- quavitaro.

Quest’uomo trae la sua sussistenza da tre piccole industrie, venden- do, cioè, acqua e facendo il pulizza-stivali nella stagione estiva; e l’inverno vendendo acqueviti e continuando a pulire le scarpe. Ed a questo modo egli trae il guadagno rinfrescando, illustrando e riscal- dando i suoi simili. Ma in quest’opera, essendosi già parlalo del, di remo ora qualche cosa dell’acquavitaro, ed in appresso si tratterà dell’acquaiuolo ambulante.

L’acquavitaro! — Vedetelo! esso è fedelmente copiato dal vero, tal quale va in giro la notte e come di sovente se ne incontrano lungo la via Toledo. 1

L’acquavitaro porta, per una coreggia, appeso al collo il suo piccolo magazzino di liquori, i quali separali in varie bottiglie di vetro o cattivo cristallo, vengono rischiarati da’ deboli raggi di una piccola lanterna messa al Iato sinistro in sul davanti della sua cascetta (cassetta). Que- sta insieme alle bottiglie contiene de’ piccoli bicchieri dello stesso cri- stallo, che essi chiamano comunemente prese, forse perché è quella la giusta misura di acquavite che suol bere chiunque non appartiene alla casta degli ubbriaconi.

Nella stessa cascetta si veggono pure de’ sigarri, delle ciambellette fatte o rustiche con lo strutto e col pepe, dolci con una imbiancatura che dovrebbe essere zuccaro ma che invece è di farina, o coverte di un certo naspro fatto rosso a furia di lacca. Dal lato opposto al lanternino si trova un piccolo imbuto, che serve all’acquavitaro per travasare i  li-

quori da una in altra bottiglia; ovvero per versarli io quella di qualche avventore che ne compra molte prese.

Fra tutte le bottiglie che si trovano nella cascetta ve n’è una più pic- cola delle altre, la quale contiene l’olio per alimentare la fiammella del lanternino. — L’acquavitaro non lascia quasi mai il suo vecchio man- tello, e suol portare un fazzoletto bianco o di colore intorno al capo, che gli guarda pure le orecchie dal freddo, con soprauna coppola (berretto) di pelo di lontra.

Egli con la mano sinistra sostiene la cascetta, mentre con la destra porta il suo guaglione, specie di bastone su cui poggia il suo magazzi- nuccio, come in capo di un fattorino (e da ciò forse fu detto guaglione) ogni qual volta si ferma, o trova avventori che deve servire. Allora egli prende un bicchierino, versa s’acquavite e l’offre al compratore, il qua- le, tracannando quel liquore in un sol sorso, restituisce la presa vuota all’acquavitaro. Questi la pulisce ad un tovagliuolo; che fu bianco una volta e che porla seco presso il lanternino, e poi la ripone a giacere fra le altre prese sue compagne. — Ma veniamo al nome, alla origine ed  alla provvenienza di que’ liquori, che con tanto gusto sono ingoiati dal ceto basso del nostro popolo.

I nomi co’ quali l’acquavitaro distingue i liquori che abitualmente suol portare, sono: centerba, rumma (rum), annese (anisi), sammu- chella (spirito di sambuco più dolce); e questi vanno con la rubrìca di acqueviti: egli porta inoltre lo doce (il dolce) col quale nome contrad- distingue una specie di mezzo rosolio, che, a seconda de’ sensi che è, vien particolarizzato co’ titoli di stomateca (stomatico), ammennola amara (mandorla amara), caffè ec. ec. Ma oltre a ciò l’acquavitaro ser- ve pure all’avventore la cosi detta mescolanza, ch’è un composto di ac- queviti e doce; di rumma, sammuchella o ammennola amara’, ovvero di annese, rumma e stomateca….

Ma sapete voi, mie care leggitrici, la origine del doce?…

Sapete donde deriva questo nettare (che non è certamente quello de- gli Dei), questo squisito elisire?… Certo che no. —Voi non potreste im- maginarlo!… Eccomi dunque a svelarvene i misteri, non senza attirar- mi l’odio di tutti gli acquavitari di Napoli!…

Essi mi guarderanno in cagnesco, mi rimprovereranno questa im- prudenza, ma io farò il possibile per non incontrarne alcuno, affinché non me ne venga male.

Il doce dunque discende in linea retta da’ sorbetti, ed ecco il come. — I sorbettieri e massime i più rinomati di questa capitale, per trarre qualche piccolo utile da quello che per essi è affatto perduto,   sogliono

gettare insieme in una botte, che tengono ne’ loro laboratori, tutt’i sor- betti che rimangono la sera; ed a quella specie di danno il nome di bol- le della società.

Quando questa è piena si lascia fermentare quel guazzabuglio di lat- te, uova, frutta, sensi e sciroppo guasto, e dopo alquanti giorni si preci- pita tutto in una gran caldaia, e si fa bollire, e si depura di tutto ciò ch’è cattivo e solido in quel liquido, e poi si lascia sempre bollire, finché non è diventato un vero estratto di tutto quel rifiuto di sorbetti. Fatto que- sto, lo comprano i venditori di acqueviti all’ingrosso, e per attutire quei mille sensi di quei centomila sorbetti vi mischiano una forte dose di spirito di cannella, o senso di diavolone, che poi prende il nome di o di ammennola amara, dallo spirito de’ nocciuoli di pesche.

Coloro quindi che comprano questo nettare sono in primis gli ac- quavitari ambulanti; i padri di famiglia che vogliono fornire di rosolio la loro mensa ne’ giorni memorabili per quei di casa, ovvero per qual- che festività nel corso dell’anno. E ne fa incetta pure talvolta la servetta per fare a Pasqua o a Natale un brindisi con lo studente che à promesso di darle la mano di sposo, tostoché giungeranno dalla provincia le car- te, che poi non arrivano mai. Ma niuno sa prezzarlo tanto, quanto l’acquavitaro, che fa pagare il doce più caro di qualunque altro liquore.

— L’acquavitaro esige un grano per ogni presa; e, da accorto economi- sta, per facilitare la sua vendita, dà pure le mezze prese, che si pagano proporzionatamente un tornese o mezzo grano.

L’acquavitaro esce la sera alle 9 ore, e si ritira il dimane verso le 10. Se sembrerà strano a taluno che l’acquavitaro cominci la sua vendita ad ora sì tarda, per ritirarsi quando la città è in vita, non è così per co- stui: egli conosce bene quali sono le persone che sogliono profittare della sua piccola industria. E però voi lo troverete la sera presso i tea- tri, che ronza intorno a’ carrozzieri da nolo, i quali attendono la fine dello spettacolo per menare a casa qualcuno; e là è certo di trovar com- pratori, ché la casta de’ cocchieri è per lui quella che gli dà maggior guadagno, massime allorché vi sono delle feste da ballo.

In alcune ore della notte, quando la sua vendila è scarsa perché non passa quasi nessuno per le vie, va a buscar qualche cosa girando pe’ vari posti di guardia, ché quivi pure è sicuro di trovare buoni avventori. Sul far dell’alba poi la sua vendita diventa lucrosa perché passa mol-  ta gente, come sarebbe a dire, il muratore che si reca al lavoro, l’artigia- no che trae alla bottega, il servitore di qualche maestro, avvocato o me- dico che va dal padrone, ed altra gente di simil fatta. E cosi vendendo a sorsi a sorsi i suoi liquori, a questo delle ciambellette, a quello un si-

garro, l’acquavitaro arriva a guadagnare nelle sere di carnevale fino a dieci carlini; e ritorna a casa contento di ciò che gli àn procacciato le sue piccole industrie, con le quali vive egli e la sua famiglinola.

FRANCESCO DE BOURCARD!

Siete serve, ma regnate nella vostra servitù.

VASTISSIMO è il tema che prendo a trattare, e delicato al tempo stesso. Per fare con esattezza la fisiologia della serva, o come dicesi mo- dernamente, per narrare i misteri delle serve, bisognerebbe stare a porle chiuse. la invece scrivo a pagine aperte. I lettori adunque suppli- ranno a quel che io tacerò.

La serva, essendo un essere di genere femminile, ha tutti i vizi e le virtù del suo sesso. Ma oltre la qualità del genere, ha pur quelle della classe, e su queste sole mi creda in obbligo d’intrattenervi.

Esse si dividono in due grandi famiglie: napolitane e non napolitane.

Distinzione necessarissima a farsi, poiché le une differiscono dalle altre come le piante indigene dalle esotiche.

Quando vi bisogna una serva, due sono i mezzi di procurarvela: o presso i sensali, o per particolari ricerche. La serva che avrete dal sen- sale, sarà da costui assicurata come una colomba per costumi, come in- capace di profittare d’un grano, come dotata di mille pregi rarissimi. In ogni caso, egli è al suo posto per rispondervi di lei.

Essa vi si presenta vestita decentemente, pettinata, lavata, profuma- ta di pomata odorosissima di cannella. Vi assicura elle non ha alcun parente, e che perciò si è messa a far la serva. Accerta che è stata a ser-

vire nelle migliori case, e che sempre se ne è andata di sua volontà.

Dopo che avete con lei convenuto intorno alla mesata, al mangiare,  al pane e vino, al dormire, non rimane mai sul momento a casa vostra: dovete aspettare l’indomani. Perché questo ritardo? Nol so.

Ma il giorno appresso si presenta meno decente del giorno prima. Sente tutto quello che deve fare in casa, ed incomincia a far brutto muso alle cose più naturali del mondo. Non pertanto per due o tre giorni si conduce plausibilmente. Scopa nuova. Solo si lagna del man- giare e della molta fatica..

Dal quarto giorno in pòi incominciano a scoprirsi le magagne. Non aveva parenti, ed un uomo che dice essere suo cugino la viene a chia- mare.

Più tardi la cognata le vuol dire due parole. La casa non è bene spaz- zata e rassettata. I generi che compra cominciano a incarirc. Si consu- ma il doppio di carbone e di olio. Mandata per un servigio in luogo vi- cinissimo, ritorna dopo un’ora. Comincia a rispondere con un po’ di mala grazia, che finisce con divenire insolenza. Cerca un quarto d’ora  di licenza, e torna dopo due ore coll’alito fetente di vino e colle vesti- menta in disordine.

Il povero padrone imprende a tenerle gli occhi addosso. S’informa  dei prezzi, e scopre che la serva spende quattro e mette cinque a nota. Cerea di sorprenderla nelle sue assenze prolungate, e la trova o in mez- zo la strada o sotto un portone che fa all’amore, innocentemente se vo- lete, perché sotto gli occhi del pubblico. Fruga nella cucina, e trova na- scoste boccettine con olio e mucchi di carbone e spesso sacchetti di lana tolta ai materassi. Che fare? Da uomo prudente il padrone o la pa- drona chiama a se la fantesca, e le fa una paternale ammonizione, la quale per lo più ha per risposta clamorose proteste d’innocenza. Insiste il padrone che se la cosa continua cosi dovrà scacciarla di casa. Alche la risposta ordinaria è: Fate come vi piace; voi siete il padrone.

Or volete conoscere la conchiusionc di questa faccenda? Tre sono le possibili soluzioni: o il giorno appresso la serva sparisce, ma questo è raro ad accadere; o viene ad annunziarvi che ha trovato un’altra posta e che le paghiate le giornate; o finalmente, se è trista raffinata ruba un oggetto e aspetta che l’accusiate come ladra.

Comunque la cosa si risolva, il padrone, nuovo in siffatte cose, corre al sensale, sicuro ch’egli risponderà d’ogni cosa. Inganno! Il sensale è il primo a dargli torto, dicendogli che maltrattava la serva, che le dava a mangiare pòco e male, che la faceva faticare come un cavallo, che per quella mesata non troverà mai una serva buona, che quella che aveva

messo a stare con lui era incapace di rubare un tornese, e finalmente che ne ha in pronto un’altra assai migliore della prima purché voglia estendersi un poco in fatto di salario.

Povero gonzo! non gli credere, altrimenti starai cambiando una ser- va ogni quindici giorni, sarai rubato da tutte, dovrai regalare il sensale che te la propone, ed acquisterai cattivissima fama in tutto il vicinato. Vedete, diranno, in un mese ha cambiato tre serve: dev’essere proprio un capriccioso, uno che non sa comandare, che le fa morir di fame.

Nè vi crediate che per altra via abbiate miglior risultato.

Suppongo che stanco dei sensali, vogliate per mezzo delle famiglie che conoscete procurarvi una serva. Vostra moglie lo dirà a D. Cateri- na, D. Caterina alla zia, e la zia troverà una cognata della serva sua che si mette a servire per la prima volta perché il marito sta ammalato e non può faticare. Figuratevi quante raccomandazioni, quanti elogi, quanti panegirici. È una femina d’oro: si sacrifica per dare da mangiare alla famiglia: non era nata a servire, perché suo padre era alabardiere: la sera deve ritornar presto a casa, perché abita lontano e dee aver cura del marito: ha un bambino che poppa, e An che non si divezza le dev’esser permesso di tenerlo con se: insomma vuol esser trattata con carità. Per farla breve, dopo pochi giorni comincia la stessa storia, che non si Ada di salire e scendere tante volte al giorno le scale, che non ha forza di cavar dal pozzo tant’acqua, che la sera la rimandan troppo tar- di, che il padrone è troppo sofistico sulla qualità e sul prezzo dei cibi, che essa finalmente non era nata per servire.

Naturalmente anche questa serva va via: e agli altri dispiaceri si ag- giunge questa volta quello di sentir dire da D. Caterina e dalla zia: Vi avete fatto scappare una gioia di femmina.

Al diavolo queste e simili gioie. Se la serva è giovane, oltre ai pericoli di casa, vai soggetto alle sue distrazioni fuor di casa. Se è vecchia, ti  vedi sempre innanzi un ospedale ambulante, che si lagna di sciatica, di reumi, di catarri, che non sente, non vede, ha gli occhi come Lia, il  naso come la vecchia descritta dal Poliziano, si muove a stento: e in tanto ti senti dire: Almeno te ne puoi fidare, le puoi lasciare l’oro in mano. Bella consolazione per chi vuol essere servito! Se invece delle cittadine prendete le serve di contado, 1 nuovi inconvenienti  vengono ad aggiungersi ai giù detti. Ordinariamente le provinciali vengono in Napoli o per seguire l’innamorato che è uscito nella leva, o per nascon- dere al proprio paese qualche accrescitivo. Nell’uno o nell’altro modo che sia, eccovi un saggio di ciò che accade con una serva contadina.

Ditele di portare un biglietto. Eccola pronta.

  • Dove debbo andare?.
  • Sai la strada di Chiaja?
  • Imparatemi ed andrò.
  • Sai il largo di S. Ferdinando?
  • Ditemi dov’è, e lo troverò.
  • Sai la strada di Toledo?
  • Domanderò.

Lettor mio, non so se avresti la pazienza di continuare un dialogo di tal genere. Per me, la via più corta, sarebbe di prendere il cappello e andar di persona a portare il biglietto.

I giorni che il suo amante soldato non è di guardia, è impossibile che la serva pensi a servirti. Deve andare necessariamente a ubriacarsi col vago, o a Poggio Reale, o al Vomero, o Fuorigrotta.

Se l’amante parte di Napoli per andare di guarnigione altrove, sii certo di aver perduto la serva.

Per amor del ciclo, se hai figli, non affidarli mai alla serva, di qualun- que età o sesso che sieno. Meglio affidarli al diavolo.

Coll’odierno progresso le serve hanno un incarico che anticamente avevano le cameriere, almeno nelle commedie. Ad esse l’incarico del1’ amorosa corrispondenza delle loro padroncine, e spesso spesso delle loro padrone! I regali piovono dal di fuori e dal di dentro, e spesso mangiano a due ganasce. In tal caso la serva diviene un membro di fa- miglia, immobilizzato per destinazione. Come mandar via una serva che tiene in petto i più riposti segreti delle donne? Ma io non so giun- gere a comprendere come una donna possa fidarsi di una serva, che pure è donna. Nei tempi antichi un augure al vederne un altro difficil- mente poteva trattener le risa, poiché vedeva in lui la stessa impostura che in se stesso riconosceva. Ed ora una donna, che più di chiunque al- tro dee conoscere fino a qual punto altri può contare sulla femminile segretezza, non avrò ritegno di affidare i propri segreti a un’ altra don- na, e potrò credere che costei perda la natura donnesca? Veramente l’amore è cieco e le serve sono le gran birbe.

EMMANUELE ROCCO.

ALL’ARTICOLO DELL’ARROTINO

TENGO accagionato in una lettera diretta da un associato al mio amico de Bourcard di avere, nella descrizione dell’arrotino, segnato col nome di Monti, quel principio di sonetto «Ombre ruote ed arene» che si appartiene ad Orazio Caputo.

Se l’autore è sbagliato posso assicurare come sia stato tratto in in- ganno io, e forse, prima di me, la persona assai dotta da cui tengo fin da tempo remotissimo il sonetto, assicurandomi esser di Monti.

E come non era strano che vi fossero cose di Monti inedite, e come d’altra parte (ciò che è più) di tal leggiadro e robusto componimento né Monti né qualsiasi valente poeta, almeno a mia opinione, avrebbe potuto adontarsi, di leggieri si scorge esser facilissimo il cader in er- rore

Ora poi, affinché via meglio dimostri come non mi cadde menoma- mente in animo di ledere al santo dettato dell’ius suum unicuique e come la coscienza sia la prima che abbiam di mira in questa opera, ripeto qui intero il sonetto, che prende somiglianza dei tre orologi a pendolo a ruote ed a polvere; che è il seguente: (spero non essere sta- to ingannato anche in questo)

Ombre ruote ed arene a passi lenti Atre, dure, minute i dì togliete,

In linee, in ferri, in atomi cadenti, I moti, i corsi, i precipizi avete.

Ombre letali al viver mio nascenti, Ruote crudeli che l’età struggete Arene gravi a’  miseri viventi

La pena, il crucio e ‘l peso mio voi siete!

Triplice morte occulta edace e trita

Che appresta ognora e manifesta e ingorda Lacci, stragi, perigli alla mia vita.

Qui m’ intima l’orrore un’ ombra sorda, Cieca la ruota il mio passaggio addita, E poca polve il mio morir ricorda!

Oltre a ciò da buono speculatore, traendo partito da tutto, aggiun- go eziandio talune notizie favoriteci dal gentile associato sul Caputo, come le estraggo dalla lettera, non parendomi mica indegne della maggiore pubblicità, sia come più gran testimonio di gloria per l’A. sia come ammenda ad un errore involontario, sia come gloria cittadi- na onde ciascuno di noi debb’esser caldo, sia in ultimo per ricordar sempre più a tanti otri da vento a tanti asini d’oro come la fortuna si diverta pazzamente con gli umani destini e

. . . Che se natura

Regolasse i natali e dasse i regni A quei che solo è di regnar capace

Forse Arbace era Serse, e Serse Arbace.

Torniamo a noi.

«Oraziantonio Caputo, del comune di Corato, in provincia di Bari, faceva il mestiere di ferraro ed era un celebre poeta, ciò che non deve far maraviglia perocché, avendo studiato lungo tempo e con calore, non avendo voluto abbracciar poi lo stato ecclesiastico, il padre sde- gnato lo condannò al martello, ed Orazio si contentò di quel mestiere, anziché seguire una ingrata carriera.

«Intanto, quando ne aveva il tempo, non lasciava di scrivere qual- che bella poesia e specialmente quella sulla vita umana, a proposito  di che eccovi un aneddoto curiosissimo:

«Giunto in provincia il poeta estemporaneo Materangelis, un tal

Forleo da Bisceglia, uomo dotto, il quale sapeva a memoria i sonetti  di Caputo, ed era entusiasta per quello sulla vita umana volle dargli  lo stesso tema. Materangelis ebbe la bontà di ripetere alla parola il sonetto di Caputo (Tra noi quanti fac simili del signor Materangelis!) Appena terminato, Forleo gli si avvicinò ed all’orecchio gli disse — Evviva il nostro Caputo!—al che Materangelis rispose — Ma se non si può far meglio (parata degna del più abile schermitore).

«Tornando poi a’ due versi mi è d’uopo ripetervi che sono i due del- la prima quartina di altro sonetto dello stesso Caputo. Se dimandate i Coratini, uno per uno, vi diranno la medesima cosa, perché tal nome si ricorda da tutti con piacere, e questo sonetto specialmente perché forma la gloria intera del paese. All’uopo eccovi un altro aneddoto:

«Quando viveva Caputo le nostre province erano sotto il dominio dei feudatari. Il duca d’Andria, che dominava anche Corato col titolo di marchese era circondato da persone istruite piuttosto (cosa assai rara a succedere). Parlandosi un giorno di Caputo, gli venne il desi- derio di vederlo e di sentirlo. Venne perciò appositamente in Corato, accompagnato da due sedicenti poeti (rovina di tutti i secoli!) i quali per la strada dicevano al duca che sarebbe stato curioso di sentire a cantare un seguace di Pronte. Giunto in Corato, il duca spedì un mes- so a Caputo, invitandolo ad andar da lui. Caputo ravvolse il grembiu- le di pelle alla cintura e corse al duca, il quale appena lo intese im- provvisare, maravigliato di tanto genio, lo pregò di voler entrare in contesa co’ suoi due poeti, dandogli all’oggetto il tema de’ tre orologi. Orazio scrisse subito quel bel sonetto, mentre i due contavano le silla- be suonando il tamburo sul naso (Quest’uso antichissimo è stato per altro seguito da lunga generazione di poeti). Stanco alfine d’aspettare Caputo, rivolto al duca disse — Signore, io ho molto da fare alla bot- tega, e perciò me ne vado, e con un riso sardonico a’ due: — Signori, oportet studuisse non studere!»

E queste notizie se piaceranno al pubblico sarà la prima volta che non mi dolgo d’avere sbagliato.

E. COSSOVICH.

L’UOMO non nasce vestito: invito tutt’i filosofi ed economisti a me- ditar meco su questo altissimo e importarne subbietto. L’uomo adun- que, innanzi di essere abbandonato alle cure materne, è abbandonato  a’ cenci. È questo, direm quasi, il primo bisogno che sente l’uomo non sì tosto messo il capo in questo mondo, per cominciare, secondo il Leo- pardi

Quell’affannoso e travagliato sogno Che vita nomiamo.

I CENCI s’impossessano dell’uomo insin dal momento che vien fuora dal sen materno e non l’abbandonano mai più, neanche quando lascia la felice notte a’ parenti e agli amici per andare a dormire l’eterno son- no.

I bambini sono abbandonati alle pezze, in cui si ravvolgono come piccole mummie. Le pezze sono il primo tormento, la prima angustia,  la prima di quella interminabile schiera di grandi e piccole miserie, compagne inseparabili della vita umana.

L’uomo futuro, il cittadino in erba, il candidato alla vita è stretto, pi- giato, premuto, soffocato nelle pezze bianche, ne’ topponcini, ne’ pezzi-

ni, nelle fasce: egli è un batuffolo di panni che grida, succhia e fa colori naturali.

Fatto più grandetto, cessa la prigione delle fasce e comincia la tirannia delle camicine, del camiciolino, del  gonnellino.

Ecco l’età di quell’altra tortura infantile, acuì l’imperio de’ cenci sottopone l’uomo, vale a dire, la tortura delle falde, per le quali il bambino viene sostenuto dalle madri o dalle balie quando comin- cia a dar passi falsi.

Arriva poscia l’età in cui l’uomo è consegnato di  peso  in  mano  ai sarti. Ma pria di toccare di questi despoti della moda  e  della  loro classe in Napoli, ne piace tessere brevemente la storia del primo vestimento che indossa l’uomo, la  camicia.

Formerà questo un importante episodio della fisiologia del cen- ciaiuolo. di cui abbiamo tolto a parlare. Si sono scritte tante belle cose sulla cravatta bianca, sulla calzetta di seta, e financo sulla spilla, fratto d’unione d’ogni acconciatura, che non dovrà parer molto strano che io scarabocchi milensamente due ciance sulla camicia in un tempo in cui tutte le vive immaginazioni de’ creato-  ri della moda sono rivolte verso questi piccoli e fini tessuti di su- balterno vestimento, Che sì che la camicia debbe avere il suo po-  sto d’onore tra gli articoli di mode, anzi le si dovrebbe a rigore assegnare il primo posto, sendo essa il primo vestilo che l’uomo indossi. Voglio prender però la cosa ab ovo, e schiccherare qual- che cosarella di dottrina su questa pudica  Vestale.

La parola camicia viene dal latino o dallo spagnuolo coma (let- to), perché, come sapete, è la sola cosa che si tiene addosso quan- do si va a letto, tranne alcuni casi di eccezione. Non sapremmo dirvi da chi fu inventata, ma egli è certo che i  Romani e  i  Greci  non la conoscevano: era loro però necessaria la frequenza de’ ba – gni per nettarsi dalle immondizie che soglionsi apprendere a  quelle parti del corpo più spesso esposte al contatto  dell’aria.

L’invenzione della Camicia par che debba rimontare a’ principi del decimoterzo secolo. Le prime camice furono di saio, e  quelle che servivano alla consacrazione de’ re di Francia erano di seta aperte e guarnite di cordoni. Pare che la camicia di lino non fosse ancora introdotta al 400, perché sappiamo che soltanto la moglie  di Carlo III ne avea due di questa stoffa. Nel medio evo si chiama – va camicia una specie di vesta di lino a maniche   corte.

Sotto Errico IV e suo figlio Luigi III di Francia la camicia diventò im- portante, e, laddove per lo innanzi la vita di questo vestilo era stata

oscura e vergognosa, sotto i raffints cominciò a mostrarsi nel suo vero splendore. I bellimbusti di que’ tempi usavano di farla uscir fuori dal pourpoint corpetto), tra quest’abito e l’haut-de-chausses (calzoni), for- mando così una specie di fascia ricca e a grandi sgonfi sul basso del petto. Da questo tempo in poi, la camicia fu veduta a poco a poco affac- ciarsi sulle sommità del petto e ad ornarsi di eleganti gale di merletti, secondo che l’occasione e I’ uso richiedevano.

La camicia inviluppa, circonda, ricopre i misteri della bellezza o della bruttezza corporale; essa è discreta come un’amica strettissima, come una compagna indivisibile; la sua maggiore o minore bianchezza vi di- nota la posizione più o meno felice dell’individuo che la porla. Il termo- metro è giusto, esatto, e non isbaglia quasi mai. La finezza del suo tes- suto e le gale onde la puossi abbellire costituiscono poi l’aristocrazia di questo vestito.

I diversi modi di portare la goletta della camicia vi palesano il carat- tere, gli abili e le consuete occupazioni degli individui. A mò d’esempio, lo studente non porta mai la goletta piegata sulla cravatta, perché la  sua camicia fa il servizio d’una settimana: l’avvocato e il medico porta- no la goletta alta e ben insaldata: l’artista la porta rovesciata sull’orlo d’una piccola cravatta nera: l’uomo d’affari, l’impiegato, il diplomatico, e quasi tutta la nobiltà portano la goletta distaccata (faux) piccola, ton- da e ugualissima; e finalmente il militare, vestito alla civile, di rado si vede con la goletta sporgente.

Oggidì la camicia varia di moda come la veste; la sua importanza è giunta a tale che sembra aver voluto gareggiare con l’importanza della cravatta bianca. Come questa, la camicia ha avuto i suoi fautori e i suoi avversari; ha subito le più atroci rivoluzioni della effemeride moda, ma in oggi la può dirsi all’apogeo della sua gloria, nel punto più luminoso della sua carriera. Oggidì le maniche da cui pendono due grossi botto- ni, rivelano tutto il genio delle cucitrici e il loro amore verso questa parte importante del vestimento.

Ma a bastanza ci occupammo di questa modesta figlia dell’indigenza e del pudore, la cui fattura è abbandonata esclusivamente al debol ses- so. Slanciamoci ora a toccare le sommità artistiche che rivestano di giubbe e di calzoni i figliuoli di Adamo.

Che cosa è la donna senza i sarti? Che cosa è l’uomo senza la mano portentosa che il veste? Non osiam definirli, ché troppo umiliante sa- rebbe ogni, benché larvata, definizione.

In Napoli, vi sono sarti di ogni abilità, per ogni stato e condizione: vi son di quelli che abitano sontuosi appartamenti e di quelli che si  acco-

modano in anguste botteghe e che riuniscono al tempo stesso diverse industrie. Nominiamo con rispetto, nella classe aristocratica de’ sarti, i signori Lennon, Plassenel, Casamassimo, ec. ec. i quali han raggiunto la perfezione e l’altezza del genio, Londra e Parigi s’inchinano reverenti innanzi a questi colossi dell’ago, a questi Michelangeli del soprabito.

Ma a fianco di queste glorie, dobbiamo porre altre più modeste, ma non meno celebri, intendiam parlare di que’ proprietari di stabilimenti dove si vendono vestiti confezionati, come dicono coloro che hanno sempre il mele e lo zucchero francese in bocca. Sì, signori, in questo se- colo in cui non si ama di perder tempo, in cui tutto è celerità febbrile, velocità di vapore, in questo secolo in cui le distanze spariscono e non rappresentano che punti matematici, non si vuol più aspettare che un sarto ti porti un abito dopo un mese dal tempo che ti prese la misura. Tu corri un bel mattino da Tesorone o da Pacilio, ed esci di là vestito come per incanto, e, quel che è più sorprendente, vestito così attillato come se gli abiti fossero stati tagliati e cucili addosso alla tua persona. Senza parlare di quella sensibilissima economia che si fa, non pur di tempo, ma di danaro, però che una giubba, un paio di calzoni, un cor- petto ti costa presso a poco la metà di quel che ti sarebbe costato se l’avessi fatto fare al tuo sarto parigino, siciliano o tedesco.

E una curiosa osservazione a fare, che al presente i sarti, i calzolai, i cappellari ed altra gente di simiglianti mestieri hanno ad essere parigi- ni, siciliani o tedeschi. Che la moda richiegga da lungo tempo le cose e le persone di Francia perciò che risguarda il vestire e il cucinare, è nolo e stabilito; in questo la Francia si gode a buon dritto la supremazia, e nessuna nazione al mondo ha mai preteso di contrastargliela. In fatto di cuffie e di pasticcetti la Francia ha il primato, e buon prò le faccia! Ma tornando agli opifìci di vestiti belli e fatti o confezionati, se vi gar- ba, ne abbiamo al presente parecchi in Napoli, e più ne avremo, non ostante la guerra che fanno ad essi tutt’i sarti. Ma che volete, signori miei? Persuadetevi che il denaro è denaro, e il tempo è tempo; e chiun- que risolve il gran problema di economizzare l’uno e l’altro rende un gran servigio alla società.

Non si creda per altro che l’introduzione di questi stabilimenti di abiti fatti sia nuovo e recente nella nostra capitale. Da moltissimi anni noi avevamo ed abbiamo un gran numero di botteghe nella strada de’ Guantai, al vico Travaccari (volgarmente detto vico de’ Baraccari) 1 e alla strada Medina. Gl’industriosi proprietari di queste botteghe non affettano lusso e magnificenza, perché il loro modesto guadagno deriva in gran parte dal basso popolo e dal medio ceto: barbieri, tessitori, cal- zettai, calzolai, lustrastivali, banderai, tintori, farinai, beccai, trippaiuo- li, pizzicagnoli, fruttaiuoli, droghieri, muratori, imbianchini, magnani, ramai ed altre mille specie di costoro che esercitano arti meccaniche, come eziandio studenti, impiegatucci, pittori, flebotomisti, esattori, ed altri mollissimi vengono a rifornirsi di vestimenti in queste botteghe a prezzi discreti e ragionevoli. Attraversate il vico Travaccari o la strada di Fontana Medina e vedrete a dritta e a manca sospesi e pendenti sulle botteghe calzoni, giubbe, mantelli, Terraiuoli, corpetti, giacche di ogni dimensione; di ogni misura, di ogni qualità. E se andate a dimandare un soprabito, il negoziante trarrà da uno stipo enorme un enorme cas- setta, e schiererà a’ vostri sguardi un batuffolo di soprabiti, ve n’è un centinaio; scegliete: la vostra scelta paleserà il vostro stato, la posizione sociale che occupate, le vostre tendenze, la vostra età, il vostro gusto.

Ci è una scala graduala di venditori di vestimenti, da Tesorone fino all’ambulantc venditore di robe vecchie, di cui offriamo l’immagine ai nostri lettori con la figurina che accompagna questo articolo.

1 I barraccari han lor botteghe disposte in via del Castello, e precisamente lunghesso la strada Medina, e Guantai nuovi. Vendono eglino non pure roba adoperata ma nuora eziandio, e talvolta se ne trova di buona. Il ceto non agiato né assolutamente sprovvisto bu quivi onde provvedere convenevolmente al suo bisogno, e Se grossolano è il lavoro vien compensato dal comodo. Talvolta vi si trovano anche abiti tali che ogni gentiluomo può valersene per uso ordinario, quando eleganza non vi ricerchi né precisione.

E, notisi bene, noi qui non definiamo altro che i baraccar’! quali s’intendono general- mente, perché in Napoli, ove nulla manca al bisogno al comodo ed al lusso, da qualche anno a questa parte si son posti de’ magazzini ove vendesi roba a nuovo bella e cucita, si che non occorre altro che adattarsela in dosso; la quale non pure è di buona qualità, ma anche di una certa eleganza abbenché veggasi disposta allo stesso modo di quella de’ ba- raccati propriamente detti.

Nulla diciamo poi, degli splendidi e magnifici magazzini sili nelle strade principali della capitale, messi sul gusto delle nazioni più incivilite, e con lusso veramente asiatico, ove tutto si ritrova che faccia al bisogno, alla più squisita eleganza congiunto. (Nota dell’edit.)

Vedetelo; sovra un braccio ei stringe tutta la sua merce, il suo capita- le; e nell’altra mano tiene aperti e ritti vari cucchiai ed altri utensili di staglio per cucina, oggetti di libero scambio che ei dà per qualche pan- no vecchio e sdrucito. 1 Nella strada Fontana Medina vedesi ancora la penultima espressione dell’industria di vestiti, vale a dire le venditrici di robe vecchie. Queste industriose danno la mano all’ultimo anello della graduazione di questa industria, che è per lo appunto il CENCIAIUOLO.

Pochi giorni fa stetti quasi un’ora a contemplar questo rispettabile industrioso che cammina mezzo mondo per procacciarsi l’obolo quoti- diano: la sua merce è un pò di sapone e alquanti lupini, e talvolta eziandio un. pugno di carrubbe.

Egli non vende la sua mercanzia, ma la dà bensì in iscambio di pochi cenci vecchi e logori.

Vedetelo: sospesa a un braccio ei recasi la cesta che deve raccogliere gli stracci, e appeso all’altro il paniere in cui contengonsi gli oggetti che ci deve spacciare. Tra gli oggetti che il cenciaiuolo prende in cambio della sua merce notansi anche talvolta vecchie masserizie di casa, tra le quali antiche dipinture e quadri di un merito mollo ambiguo e dubbio- so.

Non vi è strada romita e solitaria che sia, nella quale il cenciaiuolo non faccia udire la sua voce rauca e stanca pronunziando alla distesa la parola sapone. I fanciulletti del popolo, i furbi monelli gli corrono die- tro offrendo chi un avanzo succido di moccichino, chi un lembo di grembiale, chi un canavaccio di mille colori, chi uno straccio di pezza; e tutti vogliono i lupini, le carrubbe e i pastorelli, cioè bambocci di cre- ta che si pongono nel Natale su i presepi; e questi bambocci sono la merce principale ch’ei pone in commercio. 2

Il cenciaiuolo ha davvero una seria faccenda per le mani, quando ha da contentare parecchi di que’ diavoletti ghiottoncelli i quali non sono mai soddisfatti della porzione che dà loro l’onesto industrioso. Le don- ne poi gli offrono cenci più sani, più bianchi e più fini, e dimandano in compenso un buon cartoccio di sapone pel bucato. Il cenciaiuolo, co- meché di naturale flemmatico e poco espansivo, ha nonpertanto sem- pre garbatezza e riguardi per le donne, cui non manca di dir talvolta un motto di galanteria, e si fa lecito puranche non poche volte di stringer la mano a qualche bella lavandaia o stiratrice, nel porgerle il   cartoccio

  1. 1  Vedi la figura.
  2. Vedi la figura.

di sapone.

L’ho veduto anche regalar graziosamente un pastorello o un dieci lu- pini a qualche povero monello che non avea neanche la propria camicia da dargli per cencio.

Tra le tante innumerevoli piccole industrie delle vasti capitali, quella del cenciaiuolo è la più innocente, la più disinteressata e la più popola- re. Egli non mira intrinsecamente al valor delle merci che gli si dànno in cambio de’ suoi lupini e delle sue carrubbe: ogni maniera di cencio, fa al suo caso; ogni qualsiasi frastaglia aumenta la massa del suo capi- tale a due grana il rotolo: egli non bada né a’ colori né alla finezza de’ tessuti che stiva nella sua cesta.

La fanciullaglia che gli si accosta per barattar con lui, si parte sempre contenta del cambio ricevuto, tranne che si trovi tra que’ tristanzuoli qualcuno più seccante, più lecconcello che gli va dietro lunga pezza, chiedendo due altri lupini o un altro bamboccio.

Il cenciaiuolo scevera la sera i cenci che gli si sono dati nel corso del giorno, scompartisce la tela dalla mussolina, e fa tante sezioni per quante sono le diverse qualità di tessuti capitategli. Ma tali scomparti- menti e sezioni nulla gli fruttano di più, imperciocché il suo capitale vien considerato in quantità e non in qualità.

Il cenciaiuolo gitta il primo elemento della civiltà delle nazioni: sen- za la sua industria non potrebbero esserci que’ tanti magazzini in cui si fa spaccio di quella pallida figlia del progresso, la carta. Dalla cesta del cenciaiuolo nascono, come la farfalla dal bruco, que’ sommi volumi dove sta scritta la storia de’ popoli, e dove l’ingegno dell’uomo ha fissa- lo i suoi maravigliosi e altissimi voli.

L’andatura del cenciaiuolo è lenta e pensosa: raramente egli ride, ra- ramente si mischia al gaudio delle feste popolari. La sua vita è trista e solitaria. Benché ignaro dell’alta missione che la società gli affida, egli ne sente per istinto l’importanza, ed è però il più grave e malinconico  di tutt’i vagabondi industriosi.

Il cenciaiuolo è il vero cinico della nostra società: egli guarda con oc- chio indifferente e spregiatore i be’ palagi de’ signori, le seriche cortine de’ balconi, i fastosi damaschi e i magnifici tessuti de’ magazzini di moda: contempla con ischerno la seta e il raso onde si covrono le dame del gran mondo, e grida con ironia: Chi tene i pezze, u pasturiello!

Con queste parole egli intende dire; o voi che possedete seta ed oro, voi non siete che creta e cenere! ovvero ei pronunzia il suo molto dileg- giatore (sapone) col quale significa a’ vanitosi del secolo come ogni cosa  bella  e sontuosa  dovrà  pure alla  fine  ridursi  in  miseri cenci da

scambiarsi con poco sapone. Alcuni pretendono, e forse non senza qualche fondamento di ragione, che quando il cenciaiuolo fa udire la prolungata parola ne, egli intenda l’Omnia vanitas vanila, cioè che tut- to non è che bocce di sapone, le quali andate in aria, risplendono di tanti gai e brillanti colori, e che poscia un lievissimo soffio annienta e riduce a misera goccia d’acqua.

FRANCESCO MASTRIANI

Tutti convengono qui d’ogni paese.

DANTE.

In un’opera come questa, scritta più per lo straniero che pei: napoli- tani, non deve certamente andar dimenticata una breve narrazione di Castellammare, de’ suoi costumi e della vita i che ivi si mena nella sta- gione estiva; nel quale tempo napolitani, provinciali e stranieri si reca- no in quella città per godere di un aere più fresco, per bere le acque mi- nerali che colà sorgono e finalmente per la consuetudine o quasi direi mania di correr dietro alla moda; la quale impone che de’ mesi dell’anno se ne abbiano a passar quattro solamente in Napoli e otto gi- randolando per le sue vicinanze e suoi contorni. E però questa legisla- trice capricciosa esige che ne’ mesi di marzo, aprile e maggio si vada  sul Vomero, sull’Arenella o in altri siti elevati vicino a questi; in giugno, luglio, agosto e metà di settembre a Castellammare, Sorrento, o più lungi ancora, verso la costiera di Amalfi; e in tutto il mese di ottobre a Portici o Resina, donde si ritorna dopo aver mangiato il gallinaccio e la copela nel giorno di S. Martino.

Qualunque straniero arriva in Napoli, venga per affari o per   diletto,

non manca mai di fare la sua gita a Castellammare e di là passare a Sorrento, per godere, più di ogni altro, della deliziosissima via che mena alla patria dello sventurato cantor di Goffredo, e che offre allo sguardo del passaggiero un continuato spettacolo di tante svariate e pittoresche vedute. E se per lo passato tre ore di faticoso viaggio in car- rozza, un nembo di polvere e l’ardore del sole non rattenevano lo stra- niero dal correre fino a Castellammare, non è a dire di quanto ne sia aumentato il concorso, ora che vi si può giungere in meno di un’ora per la più bella strada a rotale di ferro, tracciata in mezzo a deliziosi casini, a ubertosi orti e ridenti villaggi, che fuggendo rapidamente l’un dopo l’altro da un lato, ti lasciano dall’opposto la grata vista del mare e della pittoresca costa che sempre li accompagna.

Ora dunque che Castellammare si è più levata in grido presso di noi  e dello straniero per l’ameno cammino di ferro, per le fresche aure, per le acque minerali, pe’ suoi bagni a mare e pei suoi asini, crederei farle il più gran torto se non ne dessi un breve cenno in questa opera, il cui scopo si è quello sempre di svelare, con l’aiuto della storia o della tradi- zione, la origine di quegli usi e costumi che si rendono affatto caratte- ristici in questa più bella parte della penisola.

E per cominciare dal principio, come suol dirsi, senza qui sciorinarvi un trattato di geografia fisico politico statistica di Castellammare, e senza rompermi il capo a discutere con gli archeologi su la origine dell’antica Stabia, accennerò brevemente che sulle rovine di questa cit- tà è stata fondata la moderna Castellammare; la quale, per quanto ne dice qualche scrittore moderno, ritiene questo nome da un costruito a’ tempi di Carlo I d’Angiò prossimo al mare; e Castellammare non à conservata altra eredità dalla sua vecchia madre Stabia che l’antico porto, qualche avanzo dell’anfiteatro nel luogo detto ora Varano e i ru- deri di un ginnasio presso 1‘ osteria del lapillo.

Dirò che Castellammare à pure avuto i suoi uomini illustri fra i ve- scovi e Magistrati; e che oggi vi son tutti negozianti e speculatori, la più brava gente del mondo, che pensano a rendersi illustri col lustro dell’oro che guadagnano e che è il frutto de’ loro onesti traffichi e delle loro ponderate speculazioni sul cotone, granone, grano, sulla robbia, su le paste e pelli lavorate, e su’ tessuti di lana, cotone o filo.

Dirò che è popolata di circa 20 mila anime, e queste anime si au- mentano di molto ne’ mesi di està; che i Castellonici sono gentili, buo- ni, cordiali, onesti; che ànno un seminario, delle scuole comunali, un conservatorio per le orfane, un ospedale civile ed un altro militare.

Dirò pure che Castellammare à un cantiere stabilito da Re Ferdinan- do I, fin dai primi anni del suo regno, e che dal 1841 in poi è stato am- pliato da Ferdinando II, con farvi aggregare il cantiere mercantile ed aggiungendo nell’antico un nuovo scalo per costruzioni di vascelli e fre- gate, una macchina a vapore per animare i torni e le fucine, un’altra macchina per la pruova delle catene di ferro e molti altri magazzini;  per modo che oggi è il primo arsenale del regno, e tale da far invidia a quelli di molte nazioni di Europa. In esso sono stati costruiti la mag- gior parte de’ nostri legni da guerra, e non à guari furono varate quat- tro fregate a vapore, mentre ora si attende alla costruzione di un va- scello.

Dirò… dirò infine che Castellammare è celebre per l’aria, per le ac- que minerali, per le eccellenti giuncate e ricotte, per le ottime gallette 1, e per la gran quantità di asini e ciucciari 2.

Se poi a qualcuno non bastassero le poche notizie che ò date, potreb- be leggere il Viaggio da Napoli a Castellammare del chiaro sig. Giu- seppe del Re, ove ne troverà a dovizie. — A me resta ancora a dire di molte altre cose sugli usi di questo paese..

Pel villeggiante di Castellammare andar alle acque il mattino è una occupazione, un affare, un obbligo o, direi quasi, un dovere. La sera al caffè vi sentirete dimandare da tutti: — Domani andrete a prendere le acque?—Non mancate domani alle acque. —Ci vedremo alle acque. — E, vogliate o non vogliate, abbiate o pur no il desiderio di andarvi, do- vrete levarvi dal letto di buonissima ora per non mancare alle acque.

Eccoci dunque alle acque.

Qual varietà, qual movimento in quel recinto che diletta ed affligge, che offre uno spettacolo misto di allegria e di tristezza! Vecchi e giova- ni, uomini e donne, belle e brutte, ricchi e poveri, nobili e plebei, am- malati e sani, tutti vanno alle acque. Chiunque non è Castellonico deve pagare la sua entrata nello stabilimento, beva o pur no, con due grana.

Oh, quanti acquaioli, 3!!.. Che brutte figure!!.. Che visi pallidi!.. Che fisonomie sparute!. . .

Vedi là quella giovanetta?… Ella è tutta intenta a curare sua madre,  la quale, seduta sopra un banco di pietra, debole, pallida e stecchita, tenta riacquistare la sanità bevendo la tonica acqua ferrata del pozzil- lo.

Guarda quell’uomo dal ventre gonfio che passeggia, con un grosso

  1. 1 Ciambelle, barchiglie.
  2. 2 Conduttori di asini.
  3. Nome dito da’ Caslellonici a que’ che vengono a fare la cura delle acque.

bicchiere pieno della catartita e dioretica acqua media in una mano, e delle ciambellette nell’altra. Egli spera così far scemare l’idropica sua epa-croia; e, diventando snello e mingherlino, rendersi più gradito agli occhi della sua Dulcinea.

Ma chi è quel giovane biondo da’ mustacchi volti all’insù, che tutto si dondola e si pavoneggia presso quel gruppo di fanciulle sedute all’ombra degli alberi? È forse un ammalato?… Oibò!. Egli non manca mai di andare alle acque il mattino, non perché il suo fisico ne senta il bisogno, ma perché Ih conviene una quantità di belle giovanette, le quali sarebbero desolate di non trovarvelo, per ridere alle costui facezie ai suoi motti arguti o forse alle sue spalle.

Egli è uno di quegli odierni lions che corrono dovunque è molta gen- te, più per farsi osservare ed ammirare, che per ammirare ed osserva- re!… E quando da un lato veggo costui, dall’altro scorgo un uomo in su’ quarant’anni, gracile, debole, sparuto con un bicchiere colmo di acqua sulfurea ferrata atto a guarirgli un erpete che gli h preso il mento; e, bevendo bevendo, guarda con occhio di commiserazione quel giovane bellimbusto, e pare gli dicesse: — Giovinotto, venti anni or sono anche io era vispo e gaio come te, ma ora… guarda a che mi à ridotto una sre- golata e tempestosa gioventù!. . .

Oltre alle acque che sono nello stabilimento vi è la stomatica e diore- tica acqua acetosella, che è acidetta anzi che no; e la terribile acqua  del muragliane, della quale vi sono de’ pazzi che ne bevono ne bevono ne bevono, fino a che Basta!… sul merito di ciascuna di queste acque potrebbesi dire con Dulcamara, che

muove i paralitici, Spedisce gli apopletici, Gli asmatici, gli asfitici, Gl’isterici, i diabetici; Guarisce timpanitidi,

E scrofole e rachitidi, E fin il mal di fegato Che io moda diventò.

Ma lasciamo stare le acque, ché già parmi di averne bevute tante da sentirmi quasi idropico; e invece inforchiamo gli arcioni di qualche pa- cifico somaro, per andare sopra Monte Coppola.

È questa la più bella passeggiata che il mattino far si possa in Castel- lammare, dappoiché si va sempre all’ombra di fronzuti e spessi   alberi,

che ti fanno godere di una grata e leggera brezza sino alla cima del monte.

Per salirvi bisogna prendere un asinello.

Non si tosto chiamo un ciucciaro, eccomi assediato, circondato e quasi pestato da ciuchi e da conduttori di asini.

Finalmente mi trovo montato sopra uno di quegli asinelli senza sa- per come, ed accompagnato da mille ah!.. ah!.. ah!.. per ridestare nella mia bestia quel vigore che più non è o per mancanza di vitto o per la troppa fatica, lascio di galoppo la piazza del, perseguitato dal mio ciuc- ciaro, per salire sul monte; mentre gli altri asinai si fanno tra loro un grazioso scambio di cortesie non udite mai, per la preda del passaggie- ro perduta, gridandola croce addosso al fortunato che s’impadronì del- la mia persona per formi ballare sulla sua bestia a rischio del mio pove- ro collo.

Ma giunti alla salita del monte l’asinello rilenta il passo, quasi per darti l’agio di osservare le pittoresche bellezze di quella via si amena;  ed allora

O’ Voi che io bocca il sigaro tenete, Fumando in ogni tempo e in ogni loco, Deh!

cavatelo fuori dalle vostre saccocce, ed accendetelo; ché in fede mia non vi avrà mai dato tanto gusto, quanto il fumarlo in quel sito, a quell’ora, e procedendo con quel passo tardo ed equabile della più pa- ziente bestia del mondo.

Intanto, lungo il cammino, vi farò conoscere un poco il ciucciaro.

Il ciucciaro!.. Egli è quel giovane che corre sempre dietro il suo so- marello, armata la mano da una bacchettina per fargli sentire la forza del suo comando, ed al quale parla col più laconico linguaggio. Un ah! secco ed un ih! prolungato bastano per avviare o far fermare l’asino; servendosi della bacchettina nel crescendo del trotto o del galoppo.

Il ciucciaro, dall’alba fino a notte, non fa che accompagnare sempre  il suo somarello, salendo e scendendo monti, girandolando per Castel- lammare o per quei paeselli circostanti, covrendosi di polvere, brucian- dosi al sole, bagnandosi alla pioggia, a seconda della volontà de’ pas- saggieri; e sta sempre pronto a correre come se allora uscisse di casa, altrimenti verrebbe ingiuriato, maltrattato, e forse forse gli tocchereb- be pure qualche bastonata. Ma non è questo mai il motivo che spinge ad alzare il bastone contro di lui, perché, essendo siffatto modo di vive-

re divenuto una consuetudine, egli corre anche più del suo ciuccio.

Quando poi si ritira trafelato, pieno di polvere e grondante sudore, trova nella stalla la sua camera da Ietto, ove la paglia fa le veci di un soffice materasso; e gittato su la stessa, riposa per tre o quattro ore le stanche membra dalle durate fatiche del giorno.

Vi sono pure de’ conduttori di somarelli che menano una vita meno penosa e meno faticata; quelli, cioè, che sono pagati a mese da qualche signore, il quale, prendendo in affitto il somaro, vuole ancora la sua guida. Allora bisogna vedere il ciucciaro! tutto vestito bianco, con un fazzoletto di seta nera fermato al collo da un gran nodo, le cui punte svolazzano in balìa del vento, ed in capo una paglia piena di nastri di vari colori parimente di seta. Vestito a quel modo egli diventa il fashio- nable il lion de’ ciucciari, desta l’invidia dei suoi compagni e l’amore di tutte le vispe contadinotte del paese e de’ contorni.

Il ciucciaro è allegro, ti fa ridere con le sue facezie, canta le canzoni popolari se vuoi, e a questo modo si cattiva la benevolenza dei passag- gieri, affinché la mancia per comprarsi i maccheroni, come essi dico- no, non sia tanto avara.

Il ciucciaro capisce il francese e vi risponde nello stesso idioma, e cinguetta anche un pochino l’inglese. Egli non fa che vantare la velocità dei suoi asinelli, a ciascuno de’ quali à imposto un nome, come a dire Barone, Ciccillo, Coviello, Rafaniello, Cocozsiello o altro più bizzarro ancora; ma io ò sempre trovato migliore per il moto quell’asino che è di più brutta apparenza e che meno viene stimato dal ciucciaro.

Costui, come la formica, lavora nella state e provvede pel verno.

In effetti egli mette da parte per la fredda stagione quel tantoché può noi suo salvadanaio, per non essere obbligato nelle gelide ore mattuti- ne di andare a caricar legna in su le montagne, con la quale fatica vive allora che Castellammare non offre alcun guadagno per sé e pel suo asinello, che il più delle volte vende nel verno, comprandone altro la prossima stagione estiva, se pur lo stato di sue finanze non gliel vieta affatto. Ma prima di giungere a metter da parte una trentina di ducati quanta fatica non deve egli spendere! quanta polvere non deve ingoia- re! quanto sudore spargere!

Il punto di riunione de’ ciuchi e de’ loro conduttori è la piazza del Quartuccio, donde muovono per riunirsi alla stazione della strada a ro- tale di ferro ogni volta che giunge il convoglio da Napoli, e quindi, se non ànno avuto fortuna nel trovar passaggieri, ritornano al loro posto. Di là poi se si addanno di qualche straniero, di lontano cominciano a

chiamare, a salutare 1e ad invitarlo a montare a ciuccio: e, avvicinando- si a lui, tanto lo stringono e lo circondano che a stento egli può liberarsi da quell’intricato laberinto asinesco.

Ma eccoci arrivati in cima al Monte Coppola!

Questa collina ritiene siffatto nome da un palazzo de’ Conti Coppola, che trovasi quasi a piè della stessa.

Giunti lassù, che bello spettacolo ti si para innanzi agli occhi 1 Quale incantevole panorama!… Napoli, il monte Vesuvio, Torre dell’Annun- ziata, Pompei si scorgono a mano a mano rimpetto a questa montagna. Alle sue falde poi stanno Castellammare. Qui si sana 2 ed altri luoghi circostanti; e in mezzo al mare vedi l’isoletta o scoglio di Revigliano con la sua piccola torre, che trovasi poco discosto dal lido. Tutti questi paesi chiudono quel mare si limpido e si cristallino, in cui riflettendosi il nostro azzurro e sereno cielo compongono il più bel quadro che la natura abbia potuto creare, e che è dato a noi solamente di possedere

in questa più bella parte dell’Italia.

Mentre dolcemente ivi ti riposi, vedi di lontano avanzarsi dalla parte di Napoli, su due nere linee parallele che si prolungano e si perdono alla vista nell’abitato, una cosa che cammina e che sembra assomigliar- si per la forma quasi ad uno di quei vermi detti millepiedi; ma che poi riconoscerai per il convoglio della strada a rotale di ferro…

L’ora intanto avanza, ed è mestieri di scendere a Castellammare per prendere un bagno.

Il bagno a mare è un altro dovere imposto dalla villeggiatura di Ca- stellammare, e non se ne può fare a meno. Avrai un bel dire le tue ra- gioni di non voler fare il bagno, saranno credute scuse, pretesti, e ti ter- ranno in conto di uomo da non comprendere che cosa s’intenda il vive- re in Castellammare se non ti bagni.

Infine, sia per compiacenza o per buona volontà, bisogna tuffarsi nel mare; ove, se avrai la fortuna di capitare qualche amico che gli frulla  un po’ il capo, ti assicuro che ti farà passar quel tempo con gran diletto, gettando te con la faccia nell’acqua e nella rena o gettandoti arena ed acqua in faccia; senza tener conto di mille e mille altri scherzi di cui po- trai esser vittima, se non ti mostrerai saldo e capace di commettere an- che a tua volta qualche diavoleria.

Dopo del bagno viene il pranzo, e dalla tavola si passa poi al letto,

  1. 1 Vedi la figura.
  2. Il palagio di Catalana, ed ora Quisisana, fu fondato da re Carlo II, a memoria di esserci ivi guarito da una malattia; e fu poi ampliato da re Roberto per la stessa ragione.

per abbreviare quelle ore noiose che precedono il tramonto, e durante le quali uno non sa che farsene.

Destatosi bisogna andare verso la bella e ridente strada che mena a Vico Equense ed alla patria dello immortale Torquato, a quella incante- vole Sorrento ove tutto ispira poesia, sentimento e voluttà.

Nè sono queste le sole gite che offre Castellammare; dappoiché po- trai andare a visitare Gragnano che tanto nome à levato di sé pel suo vino e per le molte fabbriche di maccheroni; potrai recarli pure a Lette- re per vedere il suo castello, o a Scansano abbondante di allegre e vispe fanciulle, o in altri luoghi e paeselli circostanti non meno dilettevoli de- gli altri.

Si prendono dunque degli asini, perché in Castellammare i ciucci fanno le veci delle cittadine 1  e de’ cavalli da sella, benché di questi  pure se ne trovino facilmente; e, se non vuoi andare fuori del paese, passeggiando per la strada della marina che in quell’ora è affollatissi- ma, potrai ammirare da quel luogo le bellezze di un tramonto di sole, che ci parrebbe inverosimile se lo vedessimo dipinto su qualche tela. E pure nulla è più vero di quei vivaci e sfumati colori che si perdono e si confondono nel vasto orizzonte che ti si para innanzi agli occhi, e quei mille scherzi di tante vaghe nuvolette che or si formano come una mas- sa di candida neve, or disposte in ordine circolare in guisa di una coro- na o aureola illuminata da’ risplendenti e caldi raggi del cadente astro del giorno; talora riunite insieme e come una lunga striscia dorata che si va a perdere nel fumo del nostro Vesuvio che tien sempre acceso il suo fuoco, e tal altra in mille e mille svariate forme rivestono il nostro bel cielo in quel l’ora in cui il sole s’invola a’ nostri sguardi.

Ritornando a casa dopo questa gita avrai a mala pena il tempo di spolverarti e pulirti, perché l’ora di andare al caffè è giunta, ed ivi le persone più distinte dell’alta società non ricusano il loro posto all’aria aperta… Ma a quale caffè si deve andare? mi chiederà chi non è mai stato a Castellammare. —Al caffè di Europa, che sta sotto la locanda dell’antica Stabia alla strada della marina, al caffè di bon ton.

Ivi troverai seduti vecchi, giovani, uomini, donne, il nobile altero ed il ricco speculatore, l’avvocato e l’artista, il soldato ed il prete, che tutti confusamente stanno a chiacchierare ed a discutere, avvolti in una nebbia di fumo de’ sigarri.

E frattanto che ognuno perde il suo tempo, vengono una dopo l’altra a cantare e sonare là innanzi varie compagnie di girovaghi-pseudi- artisti indigeni, i quali immancabilmente canteranno la melodiosa can-

1 Nome dato ad aIcuD« piccole vetture da nolo. —

zone di Luisella, la patetica Carolina, la sentimentale Stella dell’Are- nella con le altre più gaie canzoni del nostro popolo. Oltre a ciò ogni anno si trova qualche altro sonatore o cantore straordinariamente ve- nuto da Napoli con l’organetto o con altri strumenti, perché sono certi di guadagnar mollo in Castellammare.

Nè si dà solamente musica…. vi è ancora la commedia… la commedia i Nome dato ad alcune piccole vetture da nolo. — I. 16! de’ burattini con Pulcinella… Infine la sera passa senza avvedertene; ma, ritornato in casa, ti accorgerai come siasi votata la scarsella.

A questo modo, lettor mio, si spende il tempo e ’l danaio in Castel- lammare; e, dopo due mesi di siffatta vita, sei sicuro che ne partirai bello, sano, florido e grasso il doppio di quello che eri prima di andarvi.

FRANCESCO DE BOURCARD.

1

NELL’amena riviera di S. Lucia spesso allegrano la solitudine della mia stanza i canti e i suoni del lieto popolo che sotto un cielo tutto luce ed armonia, su le rive all’azzurro Tirreno, in cospetto al fu mante Vese- vo, apre l’anima ai deliri d’una festa che non ha mai posa. Un mattino dal mio verone guardavo ai raggi solari che a poco a poco dissolvevano la vaporosa cortina entro cui nascondevansi monti ed acque; e quindi come dissonnate andavano scoperchiandosi Portici, Pompei e Castel- lammare, e la marina fatta lucente mostravasi festante di barche pesca- recce e di vele. Della qual vista mentre io pigliava godimento, mi giun- se caro suono di arpa; ed era una melodia conosciuta, una canora ami- ca che recandomi dilette memorie mi conduceva all’isola d’Ischia, nella festa campestre di Lacco.

Guardai attorno, e vidi il buon vecchio sonante d’arpa, che in Ischia mi fé ricordare il Re profeta arpeggiante intorno all’arca d’Israello. Lo chiamai perché delle sue armonie fosse venuto a vivificare la mia dimo- ra. Venne il buon vecchio con due giovanetti sonanti il violino, e poiché ebbe di cari suoni rallegrata la mia stanza, lo richiesi della patria.

  • Sono di Viggiano — mi rispose.

Voi siete dunque nato in quel paesello di Basilicata di cui gli abita- tori a guisa degli usignoli vivono di armonie naturali! Più volte avea de- siderato conoscere da vicino i Viggianesi, questi figli della musica,   che

1 Vedi la nota a pag. 79.

traendo una vita nomade vanno accattando un pane coll’arpa, ché nell’arpa hanno locate le speranze dell’avvenire, e coll’arpa portano per tutto il mondo il pensiero della loro patria e l’affetto delle italiche me- lodie — Oh! ditemi, soggiunsi al vecchio Viggianese, ditemi il vostro nome, e qualche cosa del vostro viaggio.

  • Io mi chiamo Francesco Pennella: da 17 anni viaggio con quest’arpa su la quale il mio avo sonò i canti di Cimarosa e del Jomelli; e mio padre m’apprese quelli di Rossini e di Mercadante. Fanciullo io scossi queste corde, con cui viaggiando tentai procacciarmi un pane.
  • Ma dopo lungo pellegrinare trovaste alfine buona fortuna?
  • Oh fortuna! io giù avea raccolto tanto danaro che mi avrebbe ba- stato a menar giorni beati nella quiete del mio paese: senonché in pa- tria fui invidiato, e la calunnia mi percosse di malvage accuse, dalle quali per uscir salvo mi fu mestieri spendere tutto l’aver mio. Ridotto all’estremo della povertà, vecchio di settantatrè anni, per vivere sono costretto a nuovamente viaggiare coll’arpa.

Mi mosse a pietà il buon vecchio che raccontava le sue disavventure con ingenuità di parole e bagnando di qualche lagrima le rughe del ma- gro volto in cui era significato il crucio dell’anima contristata. Da quan- to poscia mi disse appresi non essere il Pennella di coloro che molto avessero pellegrinato in lontani paesi.

Avea soltanto percorsa l’Italia e la Provenza, la patria delle romanze e de’ trovadori; ma diceami, un suo nipote, il padre dei giovanotti che seco conduceva, assai più ch’egli non fece aver viaggiato in lontanissi- mi siti, e, visitato il Perù, stanziatosi in Lima, viver bene ammaestran- do molti nella musica. Merita veramente il saluto della poesia naziona- le il melodico Viggiano: imperocché deggiono essere piene di armonia le sue acque, i suoi alberi e le sue pietre: una musica segreta deve acca- rezzare la culla di quel semplice popolo, e gemere nel santuario delle lor tombe.

Sorge Viggiano in cima ad un monte dell’antica Lucania, e conta cir- ca settemila abitanti, i quali sono vantati non solo per la musica, ma eziandio per saper bene lavorare la terra. La vanga e l’arpa, ecco i due strumenti che la natura e l’arte congegnarono per quella svegliata ed operosa gente. Altri imprenda a celebrare i bravi vangatori di Viggiano, e chi ha dovizia di tenimenti se ne provveda. Io figlio errante della poe- sia cerco in Viggiano i miei fratelli, i figli dell’armonia. I quali sotto l’ombre de’ faggi che inghirlandano il colle natale si ammaestrano alla musica, e danno i primi suoni al santuario volgarmente chiamato San- ta Maria del Monte, donde traggono conforto alle pellegrinazioni, e re-

duci vanno a prostratisi, grati alla Madre di Dio che della sua benedi- zione ne tutelò il canoro pellegrinaggio.

Alcuni suonano il violino, certi altri toccano con maestria la mando- la, ve n’ha dei valenti nel clarino e nel flauto, ma la più parte di questi armoniosi pellegrini suonano l’arpa, strumento che meglio di ogni al- tro al popolo viggianese si addice 1. Conciossiaché la Basilicata ne’ suoi interi costumi, nelle sue feste innocenti, e nella sua amicizia ospitaliera conservando una vita tutta patriarcale, dovea ben anco serbare in rive- renza lo stromento degli antichi patriarchi. Epperò il vecchio Pennella ritoccando l’arpa mi parea un risorto padre degli antichissimi tempi, e mi toccava il cuore con parole di cristiana pietà ricordando Santa Ma- ria del Monte e il fonte d’acque limpidissime che scorre presso al san- tuario.

Deve pure essere una scena piena di cari affetti il trovarsi in Basilica- ta fra diversi Viggianesi che nel fior degli anni usando dell’arpa in terra straniera si procacciarono alla cadente età riposata esistenza in patria. Essi vi additeranno campi e case acquistate col danaro raggranellato in Europa, in Asia e nell’America. Vincenzo Miglionico, uscito di patria nell’anno 1806, tornò nel 1852. Sonando l’arpa nelle città d’Europa e d’America la’ musicagli fruttò molto danaro, il quale con propizie sorti converse poscia al commercio scambiando l’arpa con le cambiali, le note musicali con le cifre algebriche.

Antonio Varalla per trentacinque anni aiutato soltanto dalla musica corse Europa ed America, ed ora vive dovizioso in patria.

Misi narra d’un porcaio che dal signor Poliodoro suo padrone co- stretto a partire perché da lui privato di ogni lavoro, né sapendo più a qual partito fidare, fuori d’ogni miglior speranza si appesesi collo un’arpa ed errando di paese in paese giunse in America: dove coll’arpa fatta gran fortuna, prese moglie ed ebbe prole ridente.

Tornato a Viggiano, Vincenzo Poliodoro, il figlio dell’antico padrone, fece liete accoglienze al povero guardiano di porci salito in prospero stato, e si acconciò di pigliare in isposa la figlia di lui ricca di cospicua dote.

Per simili modi Viggiano in ogni età ricorda diversi suoi figli che, partiti poveri, tornarono ricchi per deporre le stanche ossa su l’ospitale benedetta balza dove sortirono la vita. A’ dì nostri si contano trecento di tai viaggiatori lucani che ricchi di armonia vanno per il mondo; e per questi pellegrini sono inutili trovati e cocchi e strade di ferro: perché viaggiano pedestri recando su le spalle reietto strumento, e ad ogni

1 Vedi la figura.

paese che incontrano danno il saluto della musica. Avverrà talvolta a chi navighi i nostri mari o quelli del Norie di udire un dolce suono di arpa che uscito dal fondo della nave vada a mescolarsi colla tempestosa armonia delle acque.

Sarà qualche Viggianese accolto con amore dal capitano della nave per addormentare nella sua musica il pensiero de’ pericoli e le traversie della navigazione. Non vi ha persona gentile che non accolga benigna- mente il Viggianese, questo trovadore della nostra età, che fra gl’inte- ressi materiali del secolo decimonono viene a provarci che ferve ancora un po’ di poesia entro il cuore de’ popoli. Tornato esso in patria, nelle lunghe sere d’inverno aduna la famiglia e gli amici attorno al gran foco- lare domestico, e loro narra le città visitate, le meraviglie vedute, e le accoglienze trovate in ogni parte. Nè pensate che solo parlino del mi- nuto popolo accolto su le piazze, e delle porte de’ santuari presso cui andavano a sonare.

Narrano puranco liete accoglienze in sale di ornate dame e di splen- didi signori; il che prova eziandio come lo spirito cavalleresco, di che animavansi i castelli dèli’età mediana, non sia interamente estinto. Nelle lontane regioni come figlio della musica nostra ammirasi l’armo- nico pellegrino di Viggiano, il quale non che soltanto ripetere i canti del teatro italiano, reca pure altre armonie, che gli stranieri non potrebbe- ro avere dalle opere de’ grandi nostri musicisti: reca le armonie de’ no- stri pastori, de’ nostri devoti.

Il Viggianese va informato dello spirito della sua patria, e passando per mezzo alle più cospicue città italiane, lo ingagliardisce; né avviene che lo deponga per cantilene straniere: nel qual caso perderebbe il marchio della musica nazionale.

Perfino l’arpa è strumento congegnato cogli abeti delle selve lucane: e Vincenzo Bellizia in Viggiano e fuori vien reputato ai dì nostri valen- tissimo costruttore d’arpe. La sua fama, varcate le falde del paterno colle, si estese maggiormente nell’anno 1845 quando nella pubblica esposizione di belle arti in Napoli si ammirò un’arpa del Bellizia splen- dente di dorature e di grazioso lavorio, bella a vedere, dolce ad udire; tanto ché il lucano artista dall’Instituto d’Incoraggiamento venne deco- rato d’una medaglia d’argento, e la Società economica di Basilicata lo regalò di cento ducati. Ora più che mai i pellegrini di Viggiano vogliono l’arpe del Bellizia, ed egli nel corso di pochi anni ne ha per loro lavorate centoquarantacinque: le quali erranti su la terra dispensano i tesori dell’armonia per tutta Italia, sulle piazze e nei caffè di Parigi e di   Lon-

dra, fra i castelli della Germania, fra le moschee orientali, e presso la pagoda del Cinese: per ogni dove ammirate e desiderate.

L’ arpa del Pennella non era opera del Bellizia, ma forse una di quel- le antiche nelle quali studiò l’artista viggianese. Il Pennella mi vantava il suo strumento, e dalle sue trentasette corde traeva accordi di soave beatitudine: e poiché ebbi da lui ascoltate diverse melodie de’ più cele- brati nostri maestri, lo invitai a sonarmi melodie popolari. Il cortese Pennella fece la mia voglia, ritoccando con altri tuoni l’arpa, e facendo un cenno ai vispi giovanotti, i quali con voce melliflua cantarono amo- rosamente canzoni napolitane. La mia stanza divenne un teatro della musica popolare. Mi segnai una delle diverse canzoni che ascolta i pie- na di pastorale soavità.

Sto crescenno no bello cardillo, Quanta cose che l’aggio a mparà; Ha da ire da chisto e da chillo, Le rresposte po m’ave apporta.

Sto crescendo un venoso cardillo: Quante cose lo deggio imparar!

Dovrà gire da questo e da quello Poi dovrà le risposte recar.

Nel teatro della mia dimora erano tre gli attori, un solo spettatore. Ma fu aperta la porta della stanisi, ed ecco allo spettacolo aggiunto un nuovo spettatore. Era il paesista Mattei che veniva a visitarmi recando le armi dell’arte sua, la tavolozza e la cartella ricca di bei disegni—Oh, mi sciamò il Mattei, sarà vero ch’io deggio spesso vederli fra scene arti- stiche!— Meco, o caro amico, vieni a godere della musica popolare che mi recano questi buoni Viggianesi. Mescoliamoci col popolo, beviamo alla tazza delle loro armonie fragranti di amore e di fede!

Sorrise il Maltei e riprese a dire: Cantino, suonino i Viggianesi, ed io frattanto ritrarrò l’immagine loro, perché sono una cara pagina ne’ co- stumi napolitani: sono essi che nelle feste del S. Natale vengono per le nostre vie a rinnovare quei canti e quc’ suoni che innanzi al divo Prese- pe di Betlemme celebrarono il gran riscatto: sono dessi che nel finire e nell’albeggiare dell’anno recano armoniosi auguri di prosperevole av- venire.

Così dicendo si assise il Mattei e ritrasse il Pennella, calvo, sdentato  e dolorante. Frattanto i nipoti dell’armonioso vecchio mi rallegrarono con tal varietà di canzoni, che entrai in desiderio di sapere il come fa-

cessero ad averne in tanta copia—Colla massima facilità, mi rispose il Pennella, comperandole al prezzo di un grano per ciascuna dai vendi- tori che con un fascio di tali canzoni schiamazzando fanno il giro di tutta Napoli.

Addio, o canuto Viggianese: il Mattei mi fece dono del tuo ritratto, il mio cuore è colmo delle tue melodie. Addio. Prosegui nell’armonico pellegrinaggio, e quindi torna felice al tuo monte, alle tue acque, alle tue selve; ed all’ombra del tuo santuario la pace de’ patriarchi ti accol- ga santamente. ‘ Lascio i miei pochi lettori: andrò qualche giorno er- rando nelle vie di ‘ Napoli, per far conoscenza co’ poeti del popolo, co- gli stampatori e venditori di tali canzoni, e quindi tornerò fra loro per narrare qualche istoria delle canzoni in dialetto napolitano.

GIUSEPPE REGALDI.

DI MONTE VERGINE

La sapienza discese dai monti.

OMERO.

I Deucalioni, cioè quelli che il mare avea lasciati (ché così si tradu- cono le parole albanesi Deiti-i-ca-glioni, cioè Deiti, il mare, i ca, gli à; glioni, lasciati), è tradizione de’ greci scrittori che dopo il diluvio d’Ogi- ge, posteriore a quello di Noè, discendessero dai monti Caucasei ove si erano salvati, fermando nella Macedonia il carro di Latona (Jatjona, cioè il carro dei padri nostri), simbolo di loro civiltà.

Ivi i Pelei fabbricarono Pella o Pelia (che dir vuole in quel linguaggio cavalla), da cui uscirono poi quei famosi Pelasgi o cittadini di Pelia,  che recarono la civiltà greca in questi luoghi, e furono i fondatori di Phalero o Pale che Palerpoli e poi Palepoli fu detta, cioè città di Palero. Sarebbe una oziosa, e forse pazza idea d’investigare chi prima abitasse queste contrade; contentiamoci di estendere lo sguardo fin dove pos- siamo scoprire segni di civiltà; e qui monumenti, nomi, linguaggio, usi, costumi, riti, feste, proclamano Napoli vetustissima alla Pelasga e  gre-

ca celebrata solennemente da tutta l’antichità col nome di dotta.

SI, miei diletti Napolitani, i sepolcri dove riposano le ossa de’ vostri e degli avi miei, sono opera greca: i vostri maritaggi sino a due secoli ad- dietro serbarono liturgia comune ai Sulliotti e agli esulati Albanesi sparsi in questo regno, incoronando gli sposi di grandissimi serti di rose coperte di un velo bianco sostenuto dai Paraninfi. Il vostro lamen- to funebre da voi chiamato lièpeto e dagli Albanesi glipht, lutto, è anti- chissima costumanza greca. È greca usanza quello stracciarsi i capelli e gettarli sul viso del morto parente; e il coronare di bianche rose la spenta vergine, e l’appendersi dalle donne le recise trecce ai votivi alta- ri. I vostri canti, le vostre danze, i monumenti e tutto infine mi ricorda qui i modelli delle arti e del sapere da cui ebbe origine la civiltà euro- pea, anzi di tutto il mondo: ed io osai chiamarmi straniero nella patria degli avi miei? Ma chi riannoda l’anello di questa catena spezzata dai barbari, chi salva questa sacra eredità dal torrente di tante rivoltose vi- cende, chi mantiene intatte memorie così sublimi e costumanze sì care? La plebe come madre che congiunge le destre di due sorelle igno- te l’una all’altra e le stringe al seno chiamandole figlie: la dispregiata plebe ci disvela coi suoi conservati costumi e con le sue feste, che di- scendiamo da una gloriosa stirpe, e che siamo nella Magna Grecia fra- telli e greci ancora noi.

Due grandi feste rimangono principalmente a questo popolo, dove esso spiega tutta l’energia delle greche costumanze, cioè la festa di Net- tuno, ora sacra da’ Luciani a S. Maria della Catena, e quella di Diana o Cibelc, or consacrata alla Madonna di Monte Vergine. Della prima si è già parlato in quest’opera 1, or qui ragioneremo della seconda: e perché ognuno possa comprendere il parallello tra la pagana e la cristiana fe- stività, diremo poche parole sulle antiche feste di Diana e di Cibele.

Fondare le loro città presso delle acque sorgenti fu sempre costume degli Albanesi; quindi fabbricarono i Pelasgi Faterò vicino alle fontane Sebezie. Al Sole ed alla Luna, prime e forse sole deità di quel popolo, eressero due tempii, e memori di essere stati salvati da loro su gli alti monti, sul piè eminente prossimo Appennino consacrarono un Delubro alla Vergine Diana, onde Monte Virgineo fu detto; la via che ivi condu- ceva si appellò ad matrem magnani: era comune questo titolo a Diana efesina ed a Cibele. —Oh come la mia mente si trasporta a quei lonta- nissimi tempi della primitiva Palepoli!… Parmi ascendere quel sacro monte, confuso con quelle turbe divote e riconoscenti che in comme-

morazione de’ salvati proavi ascendevano al tempio come quelli ascese- ro su le montagne caucasse invocando invano gli Dei, e solamente il sole e la luna in tanta calamità si mostravano di conforto e di benigna scorta a quei desolali. Con qual cuore devoto quelle religiose genti nell’alta notte armate di tede non percorreano quella disastrosa via, cantando l’inno alla Dea salvatrice! con quanta gioia entravano nel tempio della Madre Signora; e di là vedeano spuntare il sole della loro abbandonala patria!… Spettacolo sublime e commovente!… o umana razza!—Che che ne sia, non potremo noi negare che tali feste non fos- sero un grandioso monumento di civiltà senza pari, civiltà greca, che onorava la patria, riuniva i cuori cittadini, e nella gioia popolare serba- va perenne la ricordanza de’ benefizi degli Dei.

Come l’uomo non si dimentica mai del suo primo giovanile amore; cosi le nazioni non si dimenticano delle feste che per tanta cagione àn posta profonda radice nel loro cuore: le madri le trasmettono ai figli come sacra eredità di religiosa gioia: il tempo le perpetua. Così a quel sacro monte si recò tutta la gente Pelasga, e quindi l’Attica e poscia la Latina ancora; quel tempio cadde più volte e più volte venne riedifica- to; cadde ancora la falsa religione de’ sognati Numi, ma non le feste di Monte Vergine; ché sulle rovine del tempio di Diana s’innalzò il vero tempio del Signore sacrato alla Vergine Madre di Dio, e arca mistica salvatrice del genere umano 1.

È sì profondamente scolpito il sentimento religioso nel cuore della plebe napolitana, che sin lo sciagurato, che, per sua o per colpa della società, si brutta di atroci misfatti, non sa deporre giammai l’abitino della Madonna del Carmine; e la mala femina, perduta nei suoi pravi costumi, non lascia di accenderle la quotidiana lampada, consacrando- le il digiuno ogni sabato. All’appressarsi della Pasqua delle rose, cia- scuno si apparecchia per visitare la Madre degli Angeli a Monte Vergi- ne: non lo spaventa il lungo disastroso viaggio, non l’ingente spesa,  non la penuria de’ tempi.

Il ricco ed il povero in carrozza o sul carro, a piedi o a cavallo, sia per sciogliere un voto, sia per implorar grazia, trova modo di recarsi a Mamma Schiavona 2, né sa rinunziare a questo sacro retaggio trasmes- sogli per lungo ordine di avi e di generazioni dalla più remota antichi- tà.

Non è  gran tempo scorso dacché la nubile donzella fra i capitoti ma-

  1. 1          Monte Vergine, abbazia e santuario celebri, importante soprattutto pe’ suoi archivi, i quali formano una sezione defraudi archivi di Napoli.
  2. Nome dato dal popolo alla Madonna di Monte Vergine, per la immagine nera del quadro che fu rinvenuto lassù.

trimoniali ponea prima clausola d’esser condotta ogni anno a Monte Vergine. Il geloso cantiniere, il crudo macellaio ed il ricco mugnaio at- terriscono le altere mogli con la minaccia di non condurle a Monte Ver- gine 1.

1 Leggasi sul proposito la bella poesia in dialetto napolitano del chiaro signor Gioito Ge- noino, che qui sotto vien riportata, la quale mi è stata cortesemente donata dal rinomato autore insieme a molte altre, per pubblicarle in questa opera, quando i soggetti che verran- no trattati ne presenteranno l’opportunità (L’edit.)

A LO SI MATTEO NCOCCIUTO LA MOGLIERA NZORFATA NZIRIA   A FFESTA

Ne? chessa collera comme nce cape? Chessa paturnia che bbene a ddì?

Non forme lefreche Mattè; se sape

Che a Montevergine mme tocca a gghì. Lo ffice mettere da lo notaro

A li capitole pe ppatto; e mmò

Vuò farme agliottere sto muorzo amaro! Ne ne, coscienzia tenimmo, o no?

Nce va Lucrezia, nce va Menella, La vecchia Meneca porzi nce va; Nce va la sgubbia de la sia Stella, Ch’ave na vozzola ch’è na piatà. So pposte ntruocolo nfì le zzellose Che mmeze jettiche songo a bbedè;

E a mme che sciroppano nfaccia le trote Mpedì vorrisselo? Va, leva lè!

Avisse a ccredere che ssò qua llocca Che co le cchiacchiare se fà mpallà? Cca mmiezo subbeto ch’apro la vocca St fanno a ppunia pe mme ngaggià. Già masto Nnufrie ncopp’a lo carro

Ch’ha ppuosto nn’ordene portà mme vo,

E n’auta maschera che ha qua catarro Vorria portareme nchist’anno, e ppo. No pesciavinnolo de lo Pennino, N’alluminario de la cetà,

N’ammola fuorfece, no caccia vino. So asciute ntridece pe mme mmità.

Io puosto nzuocolo aggio ogni accunto Pecché non pozzase parlà de me;

Ma si perfidie mme miette ‘npunto, E lo sproposito faccio, Mattè!

A Mmontevergene la ggente a llava Sparanno tronola vide partì.

Nc’è gghiuta mammema, nce jette vava, E chesta è mmutria de non ce jì?

Mm’aggio da mettere le frasche nfronte, Ll’antrite a ppiennole da ccà, e dda llà, Mmano na perteca, ncopp’a lo ponte Cantanno ll’aria = Perucca e bbà.

Non baglio perdere pe tte la fede, Sarvarme ll’anema mme mporta cchiù; Si tu sì areteco che non ce crede,

E bbuoje dannerete, dannate tu.

Il povero artigiano trova nel suo salvadanaio fabbricato al muro quanto seppe risparmiare nelle sue scampagnate di ogni domenica al Campo, a Poggioreale, a Capo di Monte; e se ciò non basta, impegna e vende le tavole del letto per condursi a Monte Vergine.

Gli accattoni e gli storpi sono i primi a partire: gli seguono i mercan- tuzzi detti cassettieri, che recano ad ogni festa il torrone 1, i taratimi in- zuccherati ec., gli acquavitai e venditori di tamburelli, di chitarre bat- tenti, di crotali, sistri e tricche ballacche 2, e tutti vanno a formare te loro piccole baracche a Mercogliano, o a Monteforte 3.

I festeggiami intanto adornano i loro carri coperti di lenzuola con mirti e con rose, ed i più ricchi si provvedono de’ Conta figliole. Questi son de giovani lazzaroni di voce gagliarda, fra i quali molti ànno preso lezione di canto da qualche disperato corista del Teatro Nuovo o di S. Carlo, e vengono assoldati a quattro carlini il giorno e a tutto pranzo per mettersi dietro le carrozze ed intuonare la canzone nazionale che è per cadenza figliole, figliole, per accrescere l’allegria della festa, massi- me nel ritorno alla capitale.

Quando nell’alta notte del Venerdì, che precede la domenica della Pasqua rosata, sentite degli spari che improvvisamente vi destano dal sonno, e vi fanno trabalzar nel letto, tintinnando le vetrate dei balconi  e scuotendo le pareti della stanza come per terremoto, dite: Questi sono i devoti di Monte Vergine che annunziano ai confratelli di viaggio la loro partenza. Come castelli che si rispondono, altri ne danno rispo- sta più lontano ancora, ond’è che questi spari si chiamano risposte. Così sferzando i cavalli lasciano l’addio alle serrate porte delle loro case e s’avviano con la gioia di un fanciullo che dal carro materno scorge la prima volta il mare. E dal borgo di Loreto, dal Pendino, dal Molo picco- lo, da Chiaia, dalla Stella e da tutti quanti i quartieri di Napoli partono carrozze e carri adorni di mirti e di rose, tirati da bovi. Centro di loro unione è la piazza fuori Porta Capuana, dove si vede giungere il gran carro di Franciscone, nel quale stanno trentasei delle più belle figliole del borgo S. Antonio Abate: Franciscone antico, cocchiere or   verdum-

1Mandorlato Confezione di mandorle ed albume, ridona a candidezza e a sodissima consistenza.

  • 2  Strumento di coi si serve la plebe nelle sue musiche, composto di tre martelli di legno, de’ quali i due laterali, mossi dalle mani battono su quello di mezzo che sta fermo.
  • 3   Mercogliano e Monteforte sono due comuni appartenenti alla Provincia di Principato Ultra, il cui capoluogo, Avellino, è distante 28 miglia da Napoli. — Monteforte si trova 21580 piedi parigini al di sopra del livello del mare Mediterraneo.

maro 1, che fabbrica il carro, e grida tutto l’anno:

Sei carlini pe persona

Ncoppa lu carro de Franciscone Jammo a trovà Mamma Schiavona, Figliole, figliole!

È storpio di gambe sì che cammina con le grucce, ma robusto di braccia e giovine di cuore, che grida, schiamazza, fa di auriga e infonde la sua allegrezza in tutti i cuori. Al suo apparire si alzano a salutarlo mille grida di gioia: qui succede il grande sparo delle bombe, né vigi- lanza di polizia basta a raffrenare quella nuova battaglia di Vaterloo. Rivolti a Napoli ad alta voce gridano: Addio! e facendosi il segno della santa croce, si mettono in viaggio cantando:

Nce ne iammo a lo frisco e senza sole

Nce ne iammo a trovà Mamma Schiavona Poi tutti a coro:

Figliole, figliole!

Questi rozzi canti alternati dai vicini e dai lontani, si disperdono in quelle solitarie campagne, come la rimembranza dell’infanzia. Trecen- to carri e carrozze ingombrano la strada di Poggio Reale, e molti li se- guono a piedi dicendo il rosario: chi scalzo per voto, e chi tenendo le scarpe appese ad un tronco, formano una commovente interminabile processione. E là in una carrozza vedi co’ suoi parenti una pallida ver- gine con le chiome discinte e scalza recar su le ginocchia un mazzo di ceri in dono alla Madonna per averla salvata da mortifero morbo. Qua sovra un carro incontri una madre che tiensi in grembo il fìgliuolino ammalato, volgendo l’affettuoso sguardo ora su quello smorto viso, ora al cielo. Una giovanetta reca all’altare la sua recisa biondissima trec- cia., e chi una lampada d’argento, chi una collana d’oro, voti che si sciolgono per i benefizi ricevuti dalla Madre Signora. Un venticello ri- storatore spira intanto da quei monti, che scuote le macchie. La dolce stagione, quei canti, quell’aura mattutina, l’idea del santo peregrinag- gio infonde su quei pietosi una dolce malinconia. La vista dei bianchi monumenti del Camposanto, che vanno ad incontrarsi coi primi raggi del sole, svegliano memorie dolorose, chi rammenta la madre che giace

1  Colui che vende insalata e simili verzure. Insalataio.

colà, chi la sorella, chi il padre, chi il fratello, chi l’amica che un anno addietro le fu compagna di Monte Vergine, ed una lagrime ed un sospi- ro accordasi al mestissimo requiescat in pace!— Una voce grida pieto- samente: All’anime sante de lo Purgatorio che v’accompagnano pe lo santo viaggio: è il Romito della cappelletta vicina uscito sulla strada, a cui ognuno è largo di elemosina per le ricevute impressioni. Varcano quel tratto di strada col silenzio e la religiosità con che gli scozzesi montanari passano di notte un gran fiume dove credono presedere il genio delle nazioni; ma quel vecchio allegro di Pasqualotto, quel bandi- tore di vino, che in cinquant’anni non ne tralasciò un solo di recarsi a Monte Vergine, infonde con le sue facezie la gioia in tutti; i canti si ri- prendono; gli abitanti di Pomigliano si fanno su la strada e su i balconi per vedere il gran carro di Franciscone che transita come in trionfo fra le acclamazioni e le grida de’ ragazzi. Così festeggiami scorrono Cister- na, Marigliano, Pontecicciano, e si restano a merendare a Cimmitile 1. L Ecco una generazione in viaggio fermarsi nel più romantico paese, pieno di bellissime ville di salici, di alberi piangenti, di croci sotto archi che le difendono. I cocchieri rinfrescano gli stanchi cavalli: le piccole osterie e le baracche si empiono di gente, e la più parte stende sull’erba i bianchi tovagliuoli come su nobile desco. Oh qual mensa avete voi scelta! Non sapete che il vostro pranzo posa sovra le volte che chiudono le ossa di tanti martiri della fede cristiana, di tanti eroi dell’antichità? Le catacombe nolane, onde à nome Cimitero, o Cimitile, una città sot- terranea che si estende da Nola a Napoli, da Napoli a Pozzuoli, città ar- cana anteriore ai tempi omerici abitata da’ Cimmerii, di cui la scienza archeologica non à saputo ancora diradare le tenebre Ma intanto ch’io mi fermo a fantasticare, i nostri Monteverginiani mangiano, bevono, scherzano, ridono e partono: ed eccoli là su, che toccano l’erta di Mon- teforte. Oh quanta gente 1… quasi tutti scesi dalle carrozze tirate da bovi indigeni co’ cavalli legati dietro ascendono a piedi la ripida salita.

Par che la natura goda di esperimentare in certe congiunture di no- stra vita l’eterna inviolabile legge che uguaglia la condizione umana: tutti la necessità qui affratella ed accomuna, e fra quel devoto immenso popolo s’incontrano fisonomie non mai viste, quantunque nate e cre- sciute in una stessa città; e con libertà cittadina si trattano con quella affabilità che distingue dalle altre nazioni la plebe napolitana. Oh vedi quel pazzo di Pasqualotto che fra le tante à ritrovata la sua bella, e le fa da bracci ere: è una vecchia grassa e burbera come esso, alla quale egli terge il sudore e manda i zeffiretti sul viso con un grande ventaglio   da

1 Tutti paesi appartenenti al distretto di Nola, in Provincia di Terra di Lavoro.

Ischia, e cento strambotti le dice che fanno ridere tutti, rendendo così men aspro il cammino. Altri si fermano a pernottare a Monteforte» al- tri scendono ad Avellino, e scorrono a vedere le carterie di Atripalda per trovarsi sabato a Mercogliano e domenica all’alba a Monte Vergine.

Mercuriale, o Mercurii arae, è un piccolo paese appiè del Monte bene detto, conceduto al reai monastero dall’imperatore Arrigo lo sve- vo. — Il freddo è penetrabilissimo: molti stanno nelle taverne» molti dormono stanchi sdraiati al suolo, coperti da tende e da coltri di lana. In tutte le strade si veggono dei gran fuochi accesi intorniati da asser- ragliata gente, vere are di Mercurio, a cui forse consimili roghi furono consacrati dagli antichi. Una notte a Mercogliano è la notte più roman- tica che si possa immaginare; è la festa più sublime che vide mai popo- lo al mondo; è una voce della madre terra che par che dica agli uomini: Voi passate sul mio seno, come Tacque de’ fiumi; io vi rivedo ogni anno festivi nel modo che mirai i padri vostri. —Al chiarore di questi fuochi, dov’è ora la farmacia del monastero, sembrami di scorgere il tempio di Apollo, e su quel piano chiamato tuttora Vesta, il delubro di questa Dea, presso il fonte Fitia, il tempio del nume Fidio. Il tempo à distrutti quei monumenti, ma non la pietà nel cuore della nostra plebe. E tutti quei gruppi tengono discorsi or superstiziosi tradizionali e strani, or veramente cristiani.

Una donzella con esultanza confida alla sua compagna che dal carro corrente giunse ad annodare il ginestre, augurio di prossimo maritag- gio, e tien per certo che tornerà sposa il venturo anno a Monte Vergine. Una vecchia chiede alla giovine nipote se si è lavati i capelli per purifi- carli dal grasso della fornata: altrimenti il Monte si coprirebbe di nubi, e il fulmine cadrebbe su la loro testa: è noto il divieto di mangiar carne de’ sacerdoti di Cibele e degli Eleusini. In un altro gruppo con la santi- tà della religion cristiana un buon fittaiuolo narra come alla sua terra arsa dal sole la Madonna di Monte Vergine da lui invocata mandò la pioggia a salvamento della messe: e la tenera madre racconta come la figlia moribonda tornò in salute facendo voto alla Madonna Ma la stel- la polare segna la mezzanotte; i galli cantando si corrispondono da tut- te le alture di Mercogliano; e mentre la devota popolazione si accinge a salire il Santuario, io mi studierò a descrivere brevemente il Monte fa- moso.

Questo monte, che con le radici tocca gli Appennini, s’innalza solita- rio su di essi come l’Olimpo, il Peleo, l’Orebbe, il Sinai, ed è, come

quelli, si elevato dal piano della terra, che par che tocchi la seconda re- gione dell’aria: nella sublime vetta manca la vegetazione; e vi sono sco- gliose rupi, precipitosi sassi, quasi tutto l’anno coperti di neve. Il gran tempio sacro a Cibele stava anticamente a terzo del monte, dove oggi sta sul monastero. Il Panteon di Agrippa consagrato alla Madre degli Dei dicesi che l’ebbe a modello. La chiesa venne fabbricata sulle rovine dell’antico pagano edilizio nel 1124 per S. Guglielmo, e santificata da Giovanni Vescovo d’Avellino il mese di maggio, giorno di Pentecoste, con immenso concorso. Due volte fu visitato da Federico II, e il Re Manfredi vi fece innalzare la sua tomba; ma ben altra tomba la fortuna avea serbalo a questo infelice sovrano al ponte di Benevento, dove cad- de trafitto in battaglia. Il suo vincitore Carlo d’Angiò nel visitare quel tempio volle che i suoi tre gigli d’oro si scolpissero, come si vede, nell’architrave: da quell’epoca prese il titolo di real monastero.

Tutti i sovrani del regno e molti re stranieri visitarono da remoti tempi questo monte. S’incontrano per via delle piccole croci, e quattro cappelle: cioè la Panila, l’Aja, il Cirreto e lo Scalzatoio, così detto per- ché ivi sogliono scalzarsi i fedeli e scalzi salire al tempio. S’incontra pure la così detta sedia della Madonna, ch’è un piccolo incavo naturale del monte, ove è tradizione che la Madonna ivi si fosse seduta per ripo- sarsi, stanca dal cammino, e che nel sedersi il vano del monte si fosse ingrandito tanto da formare una comoda seggiola. Ora si mostra a’ viandanti la impressione lasciata dalla Madonna nel vano, pel modo come stava seduta; ed i devoti nello ascendere o nel discendere il mon- te non mancano di riposarsi in quella santa sedia per acquistarsi l’indulgenza plenaria.

Da Mercogliano al tempio si contano quattro miglia di ardua salita, per la quale si elevano disastrose rampe, interrotte da querce, da cerri  e da altissimi castagni: di tratto in tratto si scorgono delle nevaie che provvedono della miglior neve Napoli ed i paesi circonvicini. Migliaia  di devoti d’ogni età camminano scortati dalle fiaccole per questa ser- peggiante strada: la maggior parte con lunghe pertiche, costume che ri- monta alla più lontana antichità. Oh qual commovente e grandioso spettacolo! qual pennello può ritrarre questa mistica notturna proces- sione? I raggi di quelle faci scappano come baleni tra le oscurissime verzure, s’intrecciano in mille guise e spariscono e tornano ad illumi- nare una moltitudine vestita di ricchi abiti risplendenti d’oro e d’argen- to, che ora si perdono di vista dietro due burroni, ora ricompariscono sull’alto, mentre al basso ne spuntano degli altri, ed ascendono silen-

ziosi, o recitando il rosario, o cantando inni alla Madonna. Alcuni cam- minavano scalzi per quella pietrosa via! oh come mi sono rimaste im- presse quelle fisonomie!… Una giovine scapigliata, scalza, egra, maci- lente, viene sorretta dal padre e dal fratello!… Il giorno è vicino… ecco la spianata del monastero. Ivi si trova una chiesuola ove i devoti vanno ad orare ed a lasciare le elemosine, prima di avviarsi al santuario. Mol- ta gente prima di noi giunta riposa, o dorme per su gli scalini, o dinanzi alla soglia della chiesa… La campana suona la Salve regina, e tutti can- tando Salve regina Mater misericordiae, entrammo nel tempio.

Nella Casa del Signore entrano i fedeli Napolitani chiedendo ad alta voce la grazia col cuore confidente ed espansivo, come figli giunti da lungo viaggio che entrano nel tetto paterno, e vanno a gettarsi tra le braccia della loro madre, ed offrono a lei i doni volivi, e ne ricevono la benedizione e la sua santa diletta immagine rappresentante la Vergine SS. seduta con quella maestà e riposo degli antichi simulacri greci. — Assistemmo divotamente silenziosi al sagrifizio della messa pontifica- le; molli si diedero quindi ad aspre penitenze ed a fervide preghiere; al- tri gettarono per le inferriate della cappella chiusa di S. Guglielmo delle monete di rame, di argento e financo d’oro; altri scesero a bere per di- vozione l’acqua del pozzo di S. Modestino. — Il sole percorreva il primo stadio dell’immensa sua parabola; ed il nibbio e la cornacchia volavano a mezzo della montagna per quell’aria purissima. Io volsi lo sguardo alla mia Napoli, ed il Vesuvio mi sembrò un piccolo vapore che usciva della terra lontana, che costeggiava il golfo. —Guardai verso l’oriente i vasti campi della Puglia, e nella provincia Piacentina i paesi degl’Irpini, Benevento, Ariano, Arpadio, Caudano, Avellino, Bisaccia, Montesar- chio, S. Agata dei Goti, ed i fiumi Sabato, Levitella, l’Aufrisio. — Ma ecco che compito il religioso dovere con tutta la cristiana pietà, ecco  che la festa comincia ad un tratto a prendere m carattere antico, spe- cioso, singolare, ben diverso dal primo.

Questi novelli Deucalioni discendendo dal monte si abbandonano ad un’allegrezza baccante, e senza freno; ecco che si adornano le teste di antrite 1, di ciriege, di pampini, di frassino; in mezzo agli applausi inco- minciano Forgio; da per tutto tende innalzate, da per tutto tavole im- bandite, vino, carne, frutta, neve ed esultanza. Da Mercogliano a Napo- li è un lauto banchetto, una immensa festa di ballo continuata. Carri, carrozze, che si contendono il passo, uomini e donne a piedi che suona- no i tamburelli o le nacchere, che cantano, danzano e tripudiano. Ma il

  1. 1    Dicesi a quelle nocciuole secche, che, infilzate ad un fil di refe, sono raccolte in mazzo.

carro di Franciscone primeggia su tutti: sedici donzelle suonano i tam- burelli, dieci altre le nacchere, e dieci cantano circondate da cinquanta coppie di danzatori e di danzatrici 1, e il vecchio Auriga canta anch’esso figliole, figliole. Oh quanta gioia nel riscontrarlo! È questo forse il car- ro simbolico di Latona? Si è accesa una gara fra due più valenti Canta figliole, uno è Masaniello caccia-vino 2 di giarra d Argento, l’altro è Gennarello garzone della cantina delle Corna d’Oro. La lite sarà decisa dal popolo festeggiale nella gran piazza di Nola. I cocchieri delle rispet- tive carrozze sferzano, battono i cavalli col furore di due celèti olimpici perla via del Cardinale; se natura non à degradato le sue forze, questi non la cedono ai cavalli di Aulomedonte; 1 pedoni spaventati da lonta- no si causano a diritta e a manca; i piccoli legni temono la pizzata, cioè 1 urto che li rovescerebbe, e si precipitano fuori la strada; le due car- rozze corrono come due fulmini, e mentre tutti tremano, le baccanti cantiniere gridano anch’esse aizzando i velocissimi destrieri,, e l’uno non supera l’altro, e tutti stanno ancora di pari passo, ma già sta per vincerla il cocchiere di Giarra d Argento: Vira regge il freno dei cavalli dell’altro che li abbandona su quelli del rivale carrozze, cavalli, cocchie- ri, uomini e donne vanno tutti in un fascio. Un urlo di spavento si leva dagli spettatori; ma quegl’intrepidi si alzano con coraggio inaudito e fa- sciandosi braccia o testa, suonando e cantando si riducono tutti su la piazza di Nola alla disfida del canto.

Nella vastissima piazza di Nola tutt’i festeggiami formano un gran cerchio. Una pertica vien piantata nel mezzo con fazzoletti spiegati a bandiere con frondi di quercia e la santa immagine della Madonna ed una borsa di seta, premio e trofeo del vincitore. Menalea e Melibeo si avanzano coraggiosi alla disfida: ciascuno à i suoi partigiani e i suoi co- risti. Alle grida e al frastuono succede il silenzio; e il caccia vino ài Giarra d’Argento incomincia:

  • Garzone di cantina.

Tu che bevuto l’ai chisto matino, Dimme, se truovi canta alti pparole Che de chell’aequa de San Modestino Chi sana d’ogni male le figliole?

I cori fanno eco, e quasi tutti decidono a prò di questo cantore; ma nel popolo ottiene sempre ragione chi parla Tultimo e chi grida più for- te. Quindi con voce più robusta del primo, perché un tempo era stato notturno venditore di castagne, così rispose il secondo:1

Chell’acqua santa, che scenne a lo core, Gomme cade l’acquazza a le viole.

È l’acqua che guarisce de lo ammore E sana d’ogni male le figliole.

Questi ebbe i suffragi di tutti, anche de’ suoi nemici, ed ottenne il premio e fu condotto in trionfo fra canti e suoni, dove si danno per chiudere la giornata alla più solenne orgia, e vinti dal vino e da stan- chezza sdraiati nella locanda, o nel cortile, abbandonano il loro corpo  al sonno; né si destano che col sole.

Udita la messa all’Arcivescovato, si rimettono in cammino. In quell’ora mattutina una foltissima nebbia ingombra quel piano, foce a cinque strade spalleggiate di acaci che dànno soavissimo odore: la più amena è quella che guida a Saviano, per la quale si avviano.

Saviano è in festa anch’esso, e sospende all’asta nella chiesa il drap- po damascato, premio della corsa dei barberi, di tal vaghezza che per dinotar l’assoluta bellezza la plebe dice per adagio: bello comma lo pal- lio de viano,, nel modo che i Francesi dicevano: sublime come il Cid, o bello come la Zaira.

Da Saviano giungono a S. Anastasia. Le donzelle di questo ridente paese per antico costume si lavano in tal dì nei bacini di limpide acque sparse di rose, dalla sera esposte al sereno: lavacri Pestani mantenuti da tempi remotissimi! AU’apparire dei reduci di Montevergine esse muovono incontro ai loro carri coronate di rose, di frassino e di mirti, e affratellandosi in quelle verdeggianti pianure si trasferiscono alla chie-

sa della Madonna dell’Arco, distante di là un trar di pietra. 1

In quell’atrio si raduna l’innumerevol popolo di devoti che riceve la sacerdotale benedizione innalzando quando più può le lunghissime pertiche cariche di piccoli cati, di castagne, di antrite, di scarpe e delle sacre immagini; santo trofeo che con tanta fatica, per si lungo viaggio à portato sulle spalle. Questo luogo diventa il centro della gran festa; qui è la fusione di tutti i celi; qui nobili Napolitani, Inglesi, Tedeschi, Fran- cesi, Russi, godono di far parte del gran pranzo cittadino; ma la plebea napolitana in tal rincontro cederebbe il suo posto a una milady, come una milady il cederebbe a quella in un convito diplomatico….

Eccoli, eccoli, che ritornano. I carri di Porto, del Pendino, del Merca- to si fermano alle rispettive case: tutti i vicini accorrono a dar loro il benvenuto, e ne ricevono in dono le immagini della Madonna e le an- trite benedette. La povera madre arriva stanca, e i piccoli figli lasciati in custodia della vecchia suocera le corrono incontro e con allegrezza la sollevano della grave pertica… e chi narra le fatiche durate del lungo viaggio, chi i miracoli della Vergine, chi giungendo bacia la soglia della sua casa: o quanti commoventi e svariati quadri! — Ma altri carri e car- rozze fanno la trionfale entrata per la parte del Molo, e corrono a com- piere l’ultima orgia a Posilipo. Eccoli che già ritornano, e a tutta corsa passano cantando per Toledo con le loro sventolanti bandiere. Ditemi, o stranieri, avete voi nella vostra civiltà feste da anteporre a questa che vanta così sublime origine e trenta secoli di antichità?—Salve, o napoli- tana plebe, che conservi a noi memorie così remote, costumanze uni- che al mondo: tu sei sempre grande, sempre greca, e le tue celebri feste dovrebbero studiarsi come da Canova si studiavano le statue del Gla- diatore e del Laocoonte.

EMANUELE BIDERA.

1 Vedi l’articolo per la festa della Madonna dell’Arco.

S’EGLI è pur vero che i disordini e i danni siano antichi quanto il mondo, e che d’altra parte non siavi male al mondo senza rimedio, di leggieri è a dedurre su quanto saldo principio l’arte del conciare riposi; epperò qual posto essenziale debba tener ne’ vocabolari questo verbo, ed i suoi derivati: il il conciacaldaie, il conciategami, il quale ultimo, siccome degli altri |non accade tener proposito, solo un pochino, e con occhio fisiologico, per cosi dire, seguiremo.

Le rotture (intendo di masserizie) a quanto parmi aver dedotto dai miei studi di economia domestica sul vero a tre specie principali ridu- consi, vale a dire: rotture volontarie, involontarie; di uso o sia per desti nazione. Per ira, per dispetto, per disprezzo, o simigliante cagione avengon le prime; per distrazione, balordaggine e pura disgrazia le se- conde. Le terze, onde ninna di tali ragioni potrebbe assegnarsi, concer- nono esclusivamente i familiari, e sono per una terribile fatalità le più inevitabili.

Il tempo, questo tremendo divoratore degli anni, questa immensa potenza sterminatrice à pure i suoi piccioli delegati. V’à certe minuzie; v’à certe piccole rovine, che sono atomi rimpetto alle grandi e magnifi- che cose, che van quaggiù distruggendosi e per le quali sono impiegati cotesti ausiliari.

Cadono le città, cadono i regni

crollano i templi più superbi; le più belle opere dell’arte distruggon- si; e queste rovine vengon bene da quella mano cui nulla resiste; ma la caduta d’un tondo, d’un tegame, d’un bacino, il frangersi d’una qualsia- si stoviglia è opera solo de’ familiari.

Questi antichissimi Attila flagello domestico non saprebbero vivere senza rompere e distruggere, ed hanno un bel gridare i padroni che son devastati, assassinati; che le loro suppellettili son danneggiate e dispa- iate. Quella volgarissima ma pur vera sentenza: natura dat tollere nemo potest 1 trova un’applicazione sicura ed infallibile ne’ familiari; eglino debbono fare così. Non è d’altra banda a maravigliare se una ge- nerazione naturalmente aritmetica, e che pur troppo sappiamo quanto perfettamente conosca la sottrazione, non sia meno intelligente delle frazioni e pur troppo i poveri padroni, fin dalle più remote generazioni stan facendo un continuo e tristo esperimento del distruggersi presso- ché quotidiano delle loro masserizie rompevoli: ogni dieci giorni un bicchiere di meno; ogni quattro un tondo: ogni sette un tegame: ogni venti una bottiglia, ogni diciassette una tazza ec.

Ci si perdoni la piccola orazioncella in, e l’episodio al quanto lun- ghetto, avvegnaché non affatto lontano dal filo principale.

Avvi un amicissimo dell’umanità, che, senza aver mai aperto libro, conosce a perfezione l’economia domestica senza intender nulla di scienza nuova, conosce a meraviglia la vecchia, quella cioè della distru- zione. Nuovi per lui non son neanche taluni principi fondamentali di chirurgia, che applica quasi sempre felicemente alle sue operazioni. Vero è che le stoviglie più fine, le argille straniere, le elette porcellane non son mica della sua facoltà, ma ben l’esercita sull’argilla di bassa estrazione, sul tondo, sulla suppiera, sul tegame principalmente onde  il suo nome deriva.

Le arti secondarie, i piccoli mestieri, nocivi indubitatamente alle arti primarie ed ai negozi in grande, o per meglio dire a quelli che gli   eser-

1  Che vaio quanto l’adagio napolitano. Vizio de natura fino a mmorte dura.

citano, comunque talvolta a prima giunta comparir possano di poco conto e ridevoli, sono di non leggiero utile al bene della generalità, onde elemento principale non è certo la dovizia; e la volgar sentenza che il vecchio guarda il nuovo ha senza dubbio nelle arti secondarie fondamento. In effetti in qual modo menerebbe innanzi la vita l’onest’uomo, obbligato a trarre un assai scarso frutto da lunghe fati- che; sostegno tante volle unico di lunga e numerosa famiglia; senza il benefizio di queste arti, senza una perfetta conoscenza de’ verbi rat- toppare, accomodare, stringere, accorciare, allungare, rimediare, e si- nonimi del vocabolario economico domestico che è il più vero ed in uso?

Così quella del conciategami è un’arte secondaria, nulla diversa da quella p. e. del ciabattino, che se non può restituirti la scarpa nello sta- to primiero, sa almeno accomodartela per guisa che tu possa alcun tempo rimanerti dal far la nuova. Così il conciategami è né più né man- co d’un artista sui generis, ed essendo le arti sorelle, un conciate gami ed un pittore in viaggio, per cagion d’esempio sono fratelli 1. Il pittore in fatti ha la sua cartiera, la sua tavolozza, la sua sedia portatile, il suo ombrello; il conciategami o che or or vedrem mo come suonino lo stes- so, ha parimenti un trapanatolo ed una cassetta, che fa alla sua volta da sedia 2, ed un ombrello; l’uno impasta colori, l’altro la sua mistura ci- catrizzatrice che chiamasi con vocabolo tecnico il gesso (u gghisso) l’uno aduna le tinte, l’altro i pezzi di creta; sicché l’uno all’altro vicino:

Non sai se quello a questo, o questo a quello Tolga o non tolga del conciare il vanto

E puoi ben dire: e sono egual cotanto,

Che il pittor non discerno e il concia-ombrello.

Nè sarebbero per avventura affatto fuori luogo queste due domande? Quale delle due arti è più utile?—Quale di questi due artisti è più gran- de? Quanto alla prima non istaremo un momento a dichiararci pel con- ciategami. Quanto alla seconda ricorderemo quel che scriveva un no- stro autore e giornalista, valutando le opere dal proprio pregio più che dall’utile e—io amerei di diventar piuttosto Fidia che l’abilissimo dei falegnami—ma il secolo è positivo per eccellenza, i tegami in conse- guenza ed i tondi son più positivi de’ quadri; onde il secolo esclama:— io amerei diventar piuttosto conciategami che l’abilissimo de’ pittori. —

  1. 1   Non cadrà, siam sicuri, alcun dubbio sullo scherzo di tal paragone

ché se l’opera del pittore è ammirabile, divina; se sa riprodurli vivace- mente il bello fantastico e naturale; non men grande o prodigiosa i l’opera del conciategami. Non altrimenti favoleggiasi di Deucalione, del quale le pietre che gittavasi al dorso uomini ridivenivano; tale i frantu- mi nelle mani d’ un conciategami ridivengono tondi, tegami, bacini, pentole; tre pezzi inutili divengono un pezzo utile; il che è mirabile, ma nullameno non cosi come tre balordi che divengono scienziati, tre cen- ciosi che divengono ricchi, tre ladri o meschini che vengono in onore  ad un tratto: —esempi onde abbonda il regresso ed il progresso!?

Sarebbe questo il vero caso dell’omnia renascentur quae iam ceci- dere laddove il poeta tosto ed accortamente non avesse soggiunto   que

ché anzi l’arte stessa del conciategami, propriamente detto, quest’arte che pur mostrammo sì nobile ed eccellente, è andata sensi- bilmente decadendo.

E perché mai?— Felix qui potuit rerum cognoscere causas — e noi non istimandoci fra tali felici non crediamo saper indicare appuntino la cagione di tal decadimento, imperocché potrebbero essere molte; o il lusso non tollerante cose rattoppate o medicate — o l’essersi talvolta osservata la poca galanteria ed esattezza della cucitura, non di rado es- sendo incontrato che il brodo, liquefatto il gesso che saldava i punti mal dati d’una suppiera, a traverso di questa filtrasse 1. O perché sia agevol cosa acquistare un tondo, una ciotola, una pentola, a modico prezzo, o perché (e ciò persuade di più) ogni padrone, dotto dall’espe- rienza, ha chiamato responsabili i familiari degli oggetti che romponsi per loro mani: o per altre cagioni ancora; il certo si è che di conciatega- mi propriamente detti, puri e semplici, come direbbesi in modo lega- le, non si veggono che pochissimi, a fronte di quella immensa moltitu- dine che, già tempo, assordava le strade.

1 In arte questi punti, che eglino danno col mezzo del trapano e del 01 di ferro,  distinguonsi in punti alla romana, che sono quelli dati con maggior precisione e passati per entro la creta, di modo che non appariscono al di fuori, e punti semplici che son più rozzi, passati in croce dall’una all’altra parte e poi saldati col gesso.

Possiamo anche aggiugnere che al conciategami (assolutamente ple- beo)1 non era talvolta strano di esser chiamato su per le nobili case, e che ora lo è a stento quasi anche per quelle del popolo; imperocché neanche pel gentame oggi è malagevole l’acquisto d’un tondo, o d’un tegame. In cambio alla troppo cognita voce — Chi tene mbrelle viec- chie da vennere—Accattatele u mbrelle 2 riconoscerete la novella in- dustria, onde il conciategami ha saputo supplire a’ suoi bisogni. Da abile professore di più dottrine, che dà nome alla sua scuola dalla prin- cipale, vedendo egli esser più facile oggi si accomodi un ombrello che un tondo o un bacino, si fa chiamar più volentieri conciambrelli.

Accennammo, ed or ripetiamo,, come il nostro popolo attenda sem- pre a due o tre piccioli mestieri ad un tempo; perocché nulla curanti  del Pluribus intentus seguono in cambio la massima, che più si fa e più si guadagna; ond’é che il conciategami suole anche usare d’una picciola industria cerusica su i gatti, che noi non istaremo a ripetere; meravi- gliati per altro come una specie di uomini dedicata ad accomodare pos- sa indursi a scomodare quelle povere bestie.

Aggiungo qui le strofe d’una canzonetta napolitana sul conciategami, che panni graziosa e vivace, e veramente questi canti ed ariette napoli- tani sono assai belli quando sappia ritrarvisi verità e vivacità. Ho inteso a cantarla sulla chitarra; e facile e gaio ne é l’accompagnamento, gaio come l’indole della mia bella patria, creata per gioire e per sorridere e che neanche la feroce tristizie dell’uomo sa talvolta forzare alle lagrime ed alla desolazione.

1 In effetti questo personaggio è democratico per eccellenza, e suole appartenere al quartiere* Vicaria, uno de’ più popolati della nostra Napoli; e propriamente il Borgo S. Antonio è la sede di tutti i conciategami.

2  Chi ha ombrelli vecchi da vendere — Compratevi l’ombrello.

* Quartieri o contrada — Non trascuriamo quando ce ne pala il bisogno, di richiamar qualche notisi che stesa potuto dimenticarsi dal forestiere.

Napoli era anticamente divisa in 29 ottine o rioni che formavano la cosidetta Piazza o Reggimento del popolo. Era questa governata da 29 capitani e dieci cittadini consultori, a’ quali presiedeva l’Eletto. Ampliata la città, per tutta quella parte che chiamano comunemente Napoli nuova, fa divisa, come lo è di presente, in il quartieri che equivalgono alle ottine o rioni, e sono S.  Ferdinando, Chiaia, Montecalvario, S. Giuseppe, Avvocata, Vicarìa, S. Carlo all’Arma, Porto, Pontino, (volgarmente Pennino), Stilla, S. Lorenzo e Marnato.

L’edit.

Mamma mia suppuri! chiù nun pozzo Stu destino marditto schiattuso;

Me so ffatta che ffeto de nchiuso, So arredutta che ffaccio piatà.

Vide cca — cchiù nun tengo culore S’è la carna da cuollo caduta,

Me so ffatta na mazza restuta, Me ne scolo pe ttanto unguttà.

E ppe cchi ? — Pe nu chiappo de mpiso, Ch’è ppartuto        e          man    puosto onammuollo,

Ma po cchiù nun s’a rutto lu cuollo; Nfracetare l’acciso me vò!

Gioia mia, deceva, sto flora

Tre sommane e ppo faccio retuorno, È passato nu mese e nu iuorno,

È  turnato lu cano ? — Gnernò.

E bba cride sti mpise! — Cu qquanta Piccie e squase venette a frusciarme, Me scennevano nfaccia le llarme, Me faceva lu core spartì.

Me scennette no nuozzolo ncanna, Me restaie a la vocca lu ffele,

Me so strutta pe D’esse fedele, Mo nu bboglio guagnolla muri.

Nun so ppieczo de stareme a spasso, A sti diente nun manca lu ppane, M’aggi’ asciato nu conciatiane

Che speresce, che mmore pe mme. È tutt’auto de chillo gnellato;

Che nun tene nè arte nò pparte, Che sse ioca lo tuppo a lli ccarte,

Che se mpacchia, e cchiù bbuono nun è. Cu ttre ppunte de fierro filato,

Che mm’a dato a nu gruosso piatto, Tre ppertose a stu core m’a fatto,

E a Ila reta m’a fatto ncappà.

Nu buon’ommo che ssempe fatica, Ch’è cchiammato pe ttutte le ccase, Lle ttiane, l’arciule e lli rase

È nu gusto a bbederle accuncià. Songo asciuta da dinto a nu fuosso

Mamma, e cchiù nun c’è tiempo da perde,

Astrignimmo, ra songo a lu bberde E cchiù stare nun pozzo accuss.

Maramè, pe nu chiappo de mpiso, Cumm’ammore m’aveva cecata!

Vi che ssciorta me steva stipata, Si lu sfamo turnava a bbeni!

Siccome interviene, non esser sempre il lusso segno di miseria, anzi spesso là esser lusso maggiore ove maggiore è il bisogno, parecchi dei conciategami o concia ombrelli indossano oggi un abito compiutamen- te pulito, e superiore alla loro condizione; di qualità che ove voleste aver per modello infallibile di conciategami un uomo lacero, sudicio e cencioso mal vi apporreste; lo erano ben quasi tutti gli antichi e sem- plici conciategami, che vestivano alla leggiera con la sola berretta, in semplici calzoni e camicia a maniche rimboccate; taluno ne vedrete che non lascia l’indivisibile pipa e il suo cappel di paglia, per quanto imper- versar sappia la stagione, e che si annunzia con una voce tutta propria; che suona a un dipresso concia ti an con un n semi spenta, ed altrettali dell’antica generazione, conciategami retrogradi; ma non sarebbe a farne generalità.

Un concia ombrelli può vestir decentemente, non di rado con una certa eleganza, sempre pertanto con la sua cassetta (nella quale vari ar- gomenti conserva del mestiere, come fili di ferro, martello, lima, le

paglia, gorbie, gesso e simigliami cose) e il trapano sospesi ad arma- collo, suoi compagni indivisibili. Ha sempre sotto il braccio una quan- tità di ombrelli, ordinariamente di cotone, e spesso è seguito da una specie di allievo che porta altri ombrelli, e cosi egli vendendo ed acqui- stando mantiene la sua industria e trae la vita.

E sia prova che l’industria ed un’ onorata povertà abbian sempre onde sostenersi il veder come anche in questi mestierucci possa trovar- si un mediocre guadagno; perocché ne’ torli della fortuna ottimo rin- francamcnto è la solerzia e il lavoro.

ENRICO COSSOVICH!

La beautè ili; l’èdifice moral ne consiste pas seulement dans la grandeur des dimensions, mais aussi et surtout dans

la sagesse des proportions.

DEGERANDO

ALL’ombra del portico che decora l’ingresso del massimo nostro tea- tro, là dove la spessezza del pilastro offre riparo al vento ed alla piog- gia, veggonsi tuttodì, fino a che luce risplende, pochi uomini di sparuto aspetto e di abiti gretti e cenciosi seggono presso un tavolo di povera apparenza, tenendo innanzi qualche foglio di carta, uno sporco cala- maio di terra ed una selce che frena le volubili carte, se il vento avvien che le sollevi. Di tali uomini tardi, meschini e pazientissimi, altro breve drappello sta in ordinanza schieralo di fronte allo edificio della Posta, volgendo le spalle all’angusto teatro, cui si volle dare un gran nome rappresentante piccola cosa, e però si disse teatro del Sebeto.

Una terza onorata legione ha quartiere e ricovero presso la porta mi- nore del teatro del Fondo, e nelle intemperie si fa ombrello di una atti- gua volta di fabbrica, ove a sera nel durar dello spettacolo riparano al coperto le carrozze de’ Reali Principi.

A voler guardare nella sua posizione questa misera ed onorata legio- ne di scribenti che si raccoglie all’ombra de’ portici armoniosi e si ren- de letterariamente l’interpetre degli affetti, delle ire e delle passioni de- gli analfabeti, direbbesi che, quelli uomini, sono i rappresentanti di  una specie di filosofia e dir potrebbesi quindi

Povera e nuda vai filosofia.

Lo scrivano pubblico è il sensale delle parole.

Il suo stile è immutabile, semplice, abbonente da metafore e da qual- siasi figura.

Ama la brevità per convincimento che ha di persuader meglio altrui  e giovare più sollecitamente a se stesso.

Egli non cerca mai modi eleganti nel manifestare ciò che pensa il suo vicino. Sa bene che l’eleganza e il lusso ingenerano la corruzione della specie umana. Indarno i suoi clienti gli raccomandano di usare de’ mezzi termini, delle frasi velate, delle allusioni.

Egli è chiaro ed originale. — Ama come Orazio il vin di Bromio «la solitndine, ma non possiede una villa. Gli basta una pietra Vesuviana che lo sostenga nel giorno, e le lettere o per dir meglio le epistole! Egli ama le lettere e gli cal poco che siano amene o belle lettere. Pur che sia- no lettere altro non chere.

L’apice delle sue cognizioni leggesi sur una tabella che talora pende sul davanti del tavolino. — Colà è scritto si traduce il francese! L’apice della sua agiatezza è quando ha tal credito mensile, da trovar ricovero in qualche canto di bottega, o quando riparasi presso un fabbricante di occhiali della strada Quercia, ed accoppia la sua insegna a quella dell’ottico. Così al trasparir degli occhiali, quegli stima esser meglio ve- duto.

Lo scrivano ha pure la sua tariffa col prezzo de’ suoi lavori, comin- ciando dalla supplica in carta semplice fino al volume delle cento pagi- ne in folio scritto alla spagnuola, vero apogèo dell’arte sua.

Tra noi i popolani han bisogno di ricorrere altrui, quando son lonta- ni da’ lor compagni e da’ congiunti, epperò stretti si veggono a doman- dar l’opera del segretario pubblico, a svelargli i più intimi misteri del cuore, ad affidare a prezzolata penna quella prudente indagine paterna che custodisce la pace del focolare domestico.

Però di costa a questi uomini che seggono professando lettere ne’ siti già innanzi descritti, vedete posarsi una o più donne e vecchi e giovani con bamboli.1 Quella al marito assente, ricorda se stessa, i figliuoli, le miserie in che lasciavate, la seduzione che la circonda, ed i fatti gelosi dell’onor suo confida all’ironico segretario che sol di parole fa merce: questa ammonisce giovane figliuolo perché desista da scioperata vita che in sorgente di precipizi lo mena. Altri rimprovera la frode, altri sparge la discordia, altri promette di solvere il debito.

E lo scrivano pubblico vede innanzi agli occhi passarsi le immagini di tanti uomini traditori o traditi, spergiuri o fraudolenti, ovvero mise- ramente virtuosi. Lo scrivano è non pur l’interpetre di tante svariate   e

1 Vedi la figura.

strane passioni, ma è il depositario degli altrui palpiti, delle amarezze, delle gioie di fanciulle povere ed onorate che per difetto d’istruzione debbon talvolta con se medesime e di se stesse arrossare. Il segretario pubblico meglio che alcun altro scrittore del giorno potrebbe riassume- re e redarguire i moti dell’animo plebeo, tenendo innanzi le tendenze, tipo del popolare intendimento e del costume.

Fra le più assidue creature del popolo che chiamate fossero dal biso- gno a richiedere e pagare l’opera dello scribente pubblico era una fan- ciulla dal volto ingenuo, i cui grandi occhi color dell’acqua marina rive- lavan credula indole. Vago di conoscere il popolo nelle sue abitudini e forse di contare i dolori d’ogni specie che straziano questa per taluni sempre allettevole vita, chiesi della assidua visitatrice dello scribente il nome, la condizione, la onesta povertà.

Ella chiamavasi Gelsomina! La sua bella personcina, il suo correre ogni dì con lettere fra mani, vederla sempre sollecita attraversar la via come un colombo che vada di nido in nido, il seder sempre affannosa accanto al suo secretano a rincontro della Posta, me la fecero sempre guardare più di un’altra, e (spero non mi si faccia una colpa della espressione) me la fecero mirare con predilezione di sguardi. Quanto era vivace la sua parola, quanto animalo il suo volto se spiegava all’uomo di lettere del popolo quel sentimento di caldo affetto ch’ella vergognava di dire amore al cospetto del suo impassibile e tacito scrit- tore.

Gelsomina era la figlia di un venditor di pece, stoppa e catrame: ella così bianca era uscita fuori da un tetto nero ed oscuro; da un padre bruno, da una brunissima madre. I genitori, come avvien sempre nelle classi nostre più volgari per non darle molestia e per volerle troppo di bene, non l’avean fatta punto istruir di lavori d’ago e molto meno di scrivere e leggere. Ella era un’analfabeta, né la fanciulla sapeva quanto nella vita abbisogni l’intendersi per voce o per lettera. Ella rideva dello scerpellarsi che faceva sull’abbaco e sull’abiccì una sua compagna di nome Annella dimorante a pochi passi di distanza da Gelsomina: ma le loro due case, sebben vicine, non avevano vano o fenestra dalla quale potessero traguardarsi. Il padre di lei, uomo accorto era negoziante di legnami da costruir barche, e per non aver sempre a pagare questi o quegli che gli portasse i suoi conti, avea fallo istruire Annella che del suo saper leggere e scrivere menando gran vanto con parole tonde e so- nore  era  riuscita  tra  popolani  ad  acquistarsi  nome  di  dotta. Veniva

quindi chiamata la pagliettessa, motto che in italiano suona, e dove e quando capitasse di dover dar ragioni, cercar cavilli, imbrogliare il mondo, mettere a rumore la marinella non mancava mai la pagliettes- sa. Gelsomina rideva di tanta boria, e motteggiava talvolta ma senza fiele la saccente e quando le parlavano della virtù di saper leggere scri- vere ed abbacare che avea la compagna ella rispondeva «ed io so fare la pasta all’Avellinese, la copeta, gli struffoli e la ch’ella non sa fare! Ma tutte queste cose ancorché tali da fare ai popolani leccar le dita, non potevano aver la stessa importanza del leggere e dello scrivere. Gli analfabeti e gl’idioti si danno la mano, eppur non s’intendono! L’idioti- smo costa caro a tutti gl’idioti in paesi che intendono a forme di civiltà, poiché l’idiotismo non solo ci fa bruti, ma poveri.

Tra i giovani marinai che più frequentassero la contrada era Tomaso, svelto, ardito, destro e lo si chiamava pesce di mare. La state si lanciava già in mare dal bompresso dei grandi vascelli e minacciava con temeri- tà di farlo dal picco di trinchetto. Era alquanto parolaio ma buono, né smentiva sempre quel che diceva. Era di un fare aperto, ma sopra ogni cosa bellissimo di forme. Quando Gelsomina lo vedeva passare innanzi alla bottega spalancava i suoi grandi occhi ed erane ricambiata di un guardo, ma ella non sapeva che Maso fosse innamorato di Annella. Lo seppe un giorno che in lui s’avvenne nella casa di Annella ed era giorno di baruffa, come dicono i popolani, cioè giorno di alterchi. Annella con la sua boria diceva che Maso ne voleva troppo, e Maso le rispondeva. — Tu ti credi una singolarità e mi vendi caro l’amor tuo, mentre di figlie  di buona madre è ricca la contrada ed io ne troverò quante ne voglio. Va cercane dunque e vanne in buon’ora pe’ fatti tuoi. — Si si — la trove- rò e non sarà molto da te lontana.

Il giovane irritato andò via. Egli avea veduto Gelsomina. Gli parve umile e perché umile, bella: era già tanto sdegnato dell’alterezza insul- tante di Annella che la pacatezza e la calma di Gelsomina sembrarono a lui pegno di pace e di amore. Egli non stette in forse un istante e la di- mandò al padre. Lorenzo uomo di speculazione gli rispose. — Mia figlia è tua, ma io negoziante di pece e stoppa non la posso dare ad un mari- naro della Capitanìa. Fa di viaggiare, diventa padrone e ti darò mia fi- glia. Il giovane pieno di lodevole ambizione s’impegnò in un viaggio di lungo corso e partì, con obbligo che dopo quel viaggio sarebbe stato fatto pilota. Si partiva per le Antille ed era un brigantino Sorrentino  ben armato ed attrezzato che spiegava le vele accompagnato dalle lacri- me, dai sospiri di Gelsomina, e dalle benedizioni dei genitori di lei.

Annella seppe e vide tutto, sentì profondo un corruccio che simulò

con apparenze oneste e liete, anzi quando Gelsomina le disse — Maso mi ha dimandato a Papà, ma io non accetterò la sua mano, se tu da buona e cordiale amica non me ne dai l’assenso; ella rispose — A me parli di Maso? Io penso e ho pensato tanto a lui quanto alla punta del berrettino di mio nonno. Sposalo cento volte e godilo in pace.

Gelsomina partì persuasa che Annella non le avrebbe fatta, e le parve che la sua unione potesse e dovesse esser benedetta da tutti.

Ma il brigantino al quale per impegni del padre del giovane era stato posto il nome di Gelsomino, ebbe a soffrire le più dure traversìe. Fallì  la via, fu da una tempesta, come i marini dicono scarrozzato, disalbera- lo, sulle spiagge d’Affrica ed avariato in più parti. In tutto questo tem- po Gelsomina non ebbe mai nuova di Maso, mai. Ella veniva ogni gior- no ad impegnar Io scrìvano per nuove lettere che dirigeva sciòccamen- te in opposti punti con espressioni passionate, né a lei giungevane ri- sposta. E pur quelle lettere le costavano danaro, perché Io scrivano crescevane il prezzo ogni giorno, spesso riteneva il danaro per inviarle, e punto non le facea passar la frontiera. E Gelsomina non sapendo scri- vere non sapendo leggere, ignorando ove fosse questo o quel paese e tutto fidando in quell’uomo avea dato in pegno gli anelli, la catenina d’oro, le rosette e quanto altro formavano dote alla bianchissima crea- tura. Ed al padre alla madre che non le vedevano più indosso quelle oreficerie, rispondeva. — A che me ne adornerei se Maso non è con  me?

Parole schiette e genuine che l’amore rendeva immensamente loqua- ci.

Spesse volte ella avrebbe desiderato di svelar solo a se stessa i suoi pensieri e si struggeva di non saper scrivere e perché, diceva nel suo! linguaggio, perché sono analfabeta. Oh mio Dio potevi farmi tu men bella di quel che la contrada mi accenna, e darmi invece la capacità di leggere e scrivere, poi pentivasi di aver accusato il sommo Iddio, e se  ne confessava amaramente pentita, ed ella pregava, pregava sempre.

Un giorno (e forse non ispuntò mai più bello per lei) ecco una lettera anzi due sgorbi di Maso che sapea scrivere. Al primo scendere da una nave Genovese un marinaro l’ha portato a lei con l’ali ai piedi, quella lettera è manna, è celeste rugiada che scende improvvisa a riconfortar- la di speme. Ella riconosce la mano di Maso, ma non sa leggere. E Do- menica: io scrivano non siede al suo pósto, suo padre non sa leggere, il marinaio neppure. Cerca di un signore in una casa vicina, ed è uscito, ferma un gentiluomo per via, pregandolo di legger quella lettera e il gentiluomo dai guanti gialli legge speranza mia, si accorge che è una

lunga lettera d’amore e le risponde—Che cosa vuoi? ch’io perda il tem- po a leggere queste ciance e respinge la lettera—Ciance Signore… no Maso non è ciancioso, e vuol persuaderlo a continuare, ma quegli monta in carrozza e via. Gelsomina resta di sasso: ella piange. Misera ella non sa leggere. Recasi presso un maestro di scuola agli Armieri. È occupato, né può darle retta. Allora si rammenta di Annella, Annella che dopo quel discorso non le fa più buon viso, Annella che sputa fiele e sentenze. Ella sente un colai ritegno, e si farebbe tagliare a pezzi pria che implorar l’aiuto e l’opera di chi, vedendola, volge altrove la faccia, ma ella smania, arde di conoscer quanto si contiene in quel foglio scrit- to. Adiratamente lascia la casa del maestro di scuola, ritorna alla sua, indi bussa alla casa di Annella, e il volto amaro dell’amica le viene in- nanzi come un sinistro augurio. Io non dirò quali parole si scambiano Annetta e Gelsomina. Annella nelle pungenti parole non fa che umiliar la compagna dicendo. —Finalmente ti ho veduto, hai avuto tu pur biso- gno della pagliettessa: tu sai fare la pasta all’Avellinese, ma il tuo inna- morato non ti mandò struffoli ma carta. E Gelsomina sebbene umiliata la scongiura che legga quel foglio, che la renda felice, e sparga di un co- lai po’ di gioja l’amarezza della sua vita. Alla perfine Annella legge la lettera. Tutte le speranze, i palpiti, i dolori descritti nella lettera passa- no fuggitivamente sul bruno volto di Annella e sul bianco volto di Gel- somina, ma con espressioni diverse. Ella piange nel sentir descrivere le traversie di Maso. Ella si umilia ancora di più, ella bacia le mani della sua rivale perché non sa leggere e scrivere, e così le dice—Annella, mia vera amica, non mi dir no, per quanto ami il Papà: la nave Genovese ri- parte stasera, mi farai tu la risposta? Annella pensa un istante s’infosca nei bruni lineamenti poi le dice. — Ti servirò. Ella siede, scrive e sug- gella.

La risposta è portata rapidamente al marinajo Genovese. Gelsomina non sa leggere né può accertarsi se Annella ha bene espresso i suoi sen- timenti, ella guarda e discorre con gli occhi la soprascritta. (Immobili cifre per lei come quelle del destino. Povera analfabeta!) Partita la let- tera, Gelsomina non sogna che Maso, il suo ritorno, l’amor suo, la sua mano. Maso ha salvato la nave dalla burrasca. Egli sarà pilota e suo! Una febbre di delirio la prende. Gelsomina non è più bianca, poiché il suo volto è di fuoco. Ella delira sempre e delirando dice. La carta, la penna, il calamaio voglio scrivere. Povera analfabeta! Passan così ven- tuno giorni, il delirio cede, manca la febbre, ma ella è sfinita di forze, vivente cadavere. Ove è la pristina bellezza? chiedono i genitori e pian- gono sull’emaciato aspetto della loro figliuola. Che non farebbero    essi

perché sapesse scrivere. Ogni giorno vien lo scrivano, e perché lascia il suo posto, vuol essere ben rimunerato. Gelsomina dice il suo sentimen- to, quegli scrive e intasca danaro. Nessuna lettera va, meno quella di Annella. Dopo tre lunghi mesi di pianto e di esacerbazione mentale ar- riva la risposta alla lettera di Annella: ahimè. La nave che la portava ha sofferto essa pure nella traversata, e però la lettera indugiò nel venire in sue mani. Maso risponde di suo pugno.

» Gelsomina (scrive) io non credeva mai che la mia fata mi dovesse abbandonare così. Ingrata! tu dici ch’io non ti ho scritto e non ti ho detto quante burrasche ho superato, quante volte sono stato per per- dermi: tu alla fine del mese sposi un altro. Gelsomina: infame Gelsomi- na. Tu hai giurato innanzi alla Madonna, la Madonna del Carmine non ti perdonerà. Tu mi lasci, così solo senza speranza. Se il dolore non mi uccide, se non mi getto a mare io verrò a Napoli per scannare tuo mari- to, no io scannerò te… (dopo qualche giorno e quindi con altra data). No Gelsomina, la Madonna mi ha fatto la grazia, ti renderò la pariglia, sposerò un altra. Maso.

Un vecchio frate visitatore della umile casa legge la lettera: a quella lettura Gelsomina sì squallida, invetrisce gli occhi. —Infami, infami, !

(grida) che avete scritto a Maso? Annella bugiarda, Aonella tradilo- ra! Oh Vergine santissima aiutami…. Oh perché non ho imparato a leg- gere… Papà, madre mia partiamo, andiamo incontro a Maso. Forse a quest’ora non ha per anco contratto nozze… Andiamo…

Ella è frenetica, il suo passo è vacillante..

Infelice! l’ardente febbre ricomincia. Elia delira e delirando ripete perché non so scrivere! perché… II padre spende tutto il suo per rive- derla in senno, per ridonarle la vita che un incendio di febbre consuma

— Invano. Gelsomina delira sempre. Annella si è ritirata in altra casa per isfuggire alla vendetta della povera ma onorata contrada, ella stes- sa presa da crudel rimorso scongiura gli altari e scrive a Maso che ven- ga, che ritorni. In un momento di lucido intervallo parla a Gelsomina, le fa sentire la nuova lettera, Gelsomina risponde freddamente a Che  ne so io? posso io credere, se non so leggere? Viene Io scrivano, rispon- de nella stessa guisa: è chiamato il maestro di scuola» se tu mi volevi bene, ella risponde, mi avresti imparato a scrivere. Sopraggiunge il fra- te per rassicurarla sulla verità di quanto esposto le avea la sventata An- nella. Ma ella è in momento solenne. Ella non intende, e il frate invece di rassicurarla viene per benedirla. Intorno al suo letto piange tutta  una contrada, e qualche fanciulla come lei piange l’amica che prestava gli anelli, la veste, i (accetti e fin la camicia. Povere idiote che piangono

un’idiota, povere analfabete che piangono un’analfabeta e non impara- no! Otto giorni dopo la lettura di quella lettera Gelsomina non era più.

Il tempo con le sue ali non ne spazza la memoria. Gelsomina è sem- pre il ricordo mesto della contrada, ricordo pari solo a quello di un naufragio.

Un mese dopo torna Maso pilota della sua nave. Egli non si è ucciso  e non ha tolto moglie. Egli à veleggiato con vento fresco e non’ interrot- to ed è giunto con isperanza di riprendere il suo bene. Ma il misero non trova di Gelsomina che lacrime e cenci. E quando chiede ai genitori. — Mio Dio, ma perché perché ella è morta si presto, quelli rispondono. — Gelsomina è morta per non saper leggere e scrivere. Povera analfabeta! Tu sei morta, ma nessuno ba contalo sì acerbe pene nel mondo, nessu- no ha pensalo quanti muoiono per non intendere, per non potersi spie- gare con lo scritto.

CARLO TITO DALBONO.

1

IN una città come Napoli, circondata di fertili terreni ove allignano ogni sorta di alberi fruttiferi, il mestiere del venditor di frutti dev’esse- re al certo esercitato da immenso numero di persone. Ed è appunto così. Non v’ha uomo del popolo che in qualche stagione dell’anno, in qualche circostanza della sua vita, non abbia fatto, non faccia o non sia per fare il fruttaiolo.

I fruttaiuoli dividonsi in due classi. La prima è la più numerosa, ed è facile capirne il perché. Basta avere una cesta e una bilancia, un capita- le di dieci carlini in contante o in credito, buone spalle e grossa voce,  ed eccoti divenuto fruttaiuolo ambulante.

Ma non vi ha arte che non abbi le sue gradazioni di perfezione; eppe- rò anche il fruttaiuolo ambulante e girovago può aspirare all’eccellenza nell’arte sua. Non parlerò della collocazione de’ frutti, poiché in questo la sua abilità trova emuli formidabili nell’altra classe di venditori. Ma gli è indispensabil cosa la conoscenza degli uomini, e specialmente quella conoscenza per cui salirono in rinomanza Giambattista Porta e Lavater.

Se il compratore è un fanciullo che viene a spendere il tornese o il grano della sua merenduola, ei ne profìtta per dargli quei frutti che nessuno comprerebbe, o perché troppo acerbi, o perché troppo maturi, o perché bacati o altrimenti magagnati; né in tal caso gli è duopo ado- perar la bilancia; i fanciulli non badano a sì fatte minuzie. Se poi il compratore è un cuoco che fa la spesa pel padrone, o una fantesca che viene a spendere il denaro della signora, allora la cosa è ben diversa: bisogna adoperar la bilancia, e adoperarla con somma abilità, poiché non vi è esempio che un fruttaiuolo abbia mai derogato alla regola di dare tre quarti e anche meno per un rotolo; bisogna contendere un buon tratto sul prezzo e sul peso, dirsi scambievolmente un mondo di villanie, e spesso finire col rimettere nella cesta i frutti già pesati. Oltre a queste conoscenze, il fruttaiuolo ambulante dee aver l’arte di cono- scere i siti più opportuni allo spaccio. Se gli riesce di situarsi presso un fruttaiuolo a posto fisso che abbia la pazienza di sopportare la concor- renza di un sì fatto vicino, la vendita è in gran parte assicurata. Giran- do per le strade men frequentate, dove abitano donnicciole e gente del popolo, la sua mercanzia ha spaccio maggiore che non nelle vie dove sono grandi palagi e trafficano in gran numero le persone e le carrozze. Di buon mattino lo troverai nelle piazze ove si riuniscono gli operai, come in quelle della Carità e di S. Ferdinando ove convengono i mura- tori e i materassai. Più tardi gira per le strade, e quivi va provando

……….. come è duro calle

Lo scendere e il salir per le altrui scale,

imperocché bene spesso dopo essere salito ad un sesto piano chia- mato da una voce femminea, è costretto a scendersene senza aver nulla venduto. E però a simili chiamate non si presta sì facilmente il frutta- iuolo, ma prima risponde gentilmente scendete o calate un paniere, e solo quando ha esaurito sì fatti mezzi si risolve a salire, pur dicendo: Scendete in mezzo alla scala. Finalmente dopo le ore meridiane, se ebbe la mala ventura di non aver venduto ogni cosa, troverai il frutta- iuolo ambulante sul Molo, ove a prezzi diminuiti, come negli appalti so- spesi di S. Carlo, l’uomo della plebe si diverte a mangiare ogni sorta di frutti mentre assiste alla commedia dei burattini tutto intento alle amorose avventure di Pulcinella e Colombina attraversate da quel bir- bante di Coviello.

Che fa poi l’ambulante venditore? Esaurita la sua merce, vassene alla cantina, ove con facile processo converte in poco cibo e in mollo vino il denaro guadagnato, e talvolta parte del capitale. Quivi imbriacatosi  ben bene, torna a casa, batte la moglie se ne ha, e vassene a dormire in santa pace, per ricominciare il dì seguente la vita medesima.

Una classe intermedia di fruttaiuoli vi ha pure che fa una dannosa concorrenza agli ambulanti ed ai fissi. Son quelli che portan frutti dalle campagne circostanti e che hanno un asino per coadiutore. Essi sono di una pazienza e di una cortesia ammirabile coi compratori, vendono a buon mercato perché di prima mano, e spesso portano frutti eccellenti, che gli spenditori comprano a vii prezzo e si fan pagar caro dai padro- ni. Con questi fruttaiuoli le donne prendonsi le maggiori libertà: altre metton le mani nelle ceste, e tutto rovistano e mandan sossopra per iscegliere il meglio; mentre il venditore impassibile altro non fa che presentare il piatto della bilancia attendendo che vi sien depositati i frutti scelti; altre provano e assaggiano replicatamente ogni sorta di frutte, e poi sen partono senza nulla comprare, né il venditore se ne in- carica. Il persecutore di questi fruttaiuoli, e anche degli ambulanti quando mettono in terra la loro cesta, era il grascino, volgarmente det- to prubbechella, che spietatamente imponeva ad essi multe, e per esi- gerle toglieva loro le bilance. Ma grazie all’anno 1848 questa persecu- zione è finita, e possono i fruttaiuoli d’ogni genere ingombrar le strade come meglio loro attalenta.

Veniamo ora alla classe più nobile de’ fruttaiuoli, a quelli che vendo- no nelle botteghe, innanzi alle quali dispongono in bella mostra le ceste ripiene delle più belle e squisite frutte. Essi sono l’aristocrazia del me- stiere, sono per rispetto ai venditori girovaghi quello che un negoziante di ragione è a un mercantuccio a ritaglio.

Il loro apparato rassomiglia da lungi ad un esercito schierato in ordi- nanza, ove da un lato sta la cavalleria, da un altro l’infanteria, altrove l’artiglieria: così vedi in varie ceste le arance di Palermo o di Sorrento, in altre le mele di molte varietà, in altre pere d’ogni maniera, e poi se- condo le stagioni ciriege, albicocche, peschecotogne, peschenoci, persi- che, prugne rotonde o ellittiche, lazzaruole, giuggiole, uva, fichi, ec. ec. Tutta la loro abilità consiste nel disporre la mercanzia nel modo più appariscente e aggradevole alla vista.

Situati l’un sopra l’altro i frutti in bell’ordinanza, sicché formino come tante piramidi, essi son collocali in modo che le parti più belle, che mostrano i più bei colori, sien le sole che appariscano agli occhi de’

riguardanti. Se v’ ha parte bacata o vizza o altramente magagnata, essa vien sottratta allo sguardo da quella magistrale collocazione. La polve- re vien nettata accuratamente con un fascetto di felci o di altre erbe secche. A questo modo è adescato il compratore, che a quell’ordine e a quell’apparente bellezza si sente venire l’acquolina in bocca. Così ve- diamo alle volte sotto certi tali governi celale le interne piaghe e i can- cri che rodono la società, mentre l’esterno aspetto rende testimonianza di stato prospero e felice! E per non uscir dai frutti, così vediamo la ca- stagna di bella corteccia esser dentro magagnata e guasta. Ma fate che venga in quella cesta così bene ordinata la mano sovvertitrice di una fantesca che voglia da tutti i lati esaminar le frutte che dee comprare, ed appariranno ben tosto i guasti, le magagne, i buchi. Penetrate più addentro, esaminate l’interno di un di quei frutti, e troverete mezzo quel che pareva maturo, inverminato quel che sembrava intatto, fradi- cio quel che si mostrava sano, pien di putridume quel che appariva in- contaminato.

Non è già che questi venditori non abbiano veramente frutti squisiti: essi li tengono fuor della vista, dentro le botteghe, per non destar le vo- glie delle gravide. Quivi li comprano gli spenditori in livrea dei gran si- gnori, o il galantuomo amante della buona cera che si fa da sé le spese della buccolica. E vi so dir io che trovate frulli d’ogni maniera, e delle più grandi dimensioni, e quasi quasi in ogni mese dell’anno. Imperoc- ché quando i fruttaiuoli delle altre classi han finito. ogni merce, quan- do cominciando dalle nocciuole e terminando alle nespole hanno esau- rito ogni sorta di frutte vendibili alla bassa gente, quando si sente can- tar per le vie:

Quanno vedile nespole, chiagnite;

Chist’è l’urdemo frutto della state

non perciò le frutte sono finite in Napoli, dove in tutti i giorni dell’anno le mense de’ ricchi sono imbandite di frutti. Il fruttamelo che vende in bottega se ne provvede da tutti i dintorni della capitale, e se occorre da tutti i più lontani punti dei regno dove può giungere una barca. Egli conosce i modi di conservarli per lungo tempo, conoscendo meglio che i filosofi moralisti quanto l’uomo sia portato per quello che è più difficile ottenere, e sapendo quanto i frutti fuor di stagione, pri- maticcio serotini, siano più apprezzati dei tempestivi e venuti a suo tempo.

A questo proposito ricorderemo, come cosa unica nel suo genere, il regalo che la Città di Napoli presenta al sovrano la vigilia del Natale, il 24 dicembre di ogni anno. Esso consiste principalmente in frutti di ogni specie, che con camangiari anche fuor di tempo e con uccelli di varie specie vengon recati nella reggia attraversando la strada di Tole- do. Noi consigliamo tutti i mariti che hanno le mogli gravide a non por- tarle fuor di casa quella mattina, poiché si esporrebbero al rischio di spendere molto per impedire un aborto, o per far si che il figlio non na- scesse con un fico troiano sul naso o con un par di pesche in qualche altra parte del corpo.

Ma prima di chiudere la rassegna de’ venditori di frutte, non bisogna dimenticare quei che vendono le fragole e le arance, che dagli altri per peculiari condizioni si distinguono: i primi non sono già fruttaiuoli di mestiere; son contadini o villani che sospendono il lavoro della terra per fornir di fragole la capitale.

Dai giardini dei dintorni, dalle apriche colline raccolgono le fragolet- te in ceste di forma speciale, e nelle ore mattutine vengono a venderle in Napoli. La loro prima fermala è al vico Tedeschi e al vico Conte di Mola, e quindi di là si spargono per tutte le strade gridando: Fravole, fravole! Fraole de giardino! 1

Hanno poi una mirabile abilità nel frodare il peso; e rovesciando le fragole dalla cesta nella bilancia; vi fanno sempre cader le più piccole e le men fresche.

V’ha colazione più squisita di un piatto di fragole condite con zuc- chero e con suco di arance? Se dunque avete pronte le fragole, siate solleciti a chiamare il venditor di arance. Eccolo che passa trascinando un carretto, ove i suoi dolci frutti son distribuiti in varie ceste secondo le più o men buone qualità.

Udite: ei grida a tre, a quatto, a sei, secondoché tre quattro o sei ne vanno per un grano. Scegliete le ben mature, che abbiano liscia la cor- teccia, che siano di sufficiente peso; e non vi importi punto che siano in qualche sito magagnate, come le così dette toccatelle di Palermo.

Vendono anche arance i venditori fissi e gli ambulanti; le vendono sul Molo e al Largo del Castello altri fruttaiuoli improvvisati, che le di- spongono in piramidi a un grano la, e giungono a darne otto per grano! Ma quando girano sul carretto per la città 1, allora è la macca, allora è il buon mercato, allora sguazza e sciala la plebe e il minuto popolo, allora c’invidiano Inglesi e Russi ed altri popoli nordici, cui la provvida natu- ra negò i bei colli e i bei vigneti della lacerata Italia.

EMMANUELE ROCCO

ERA il maggio del 1849, ed io solitario e pensoso in un picciolo navi- cello veleggiava alla volta di Procida. Il mare limpido e appena mosso da un vento tepido e soave, che mi aleggiava perla fronte, l’alterno bat- tere de’ remi, il canto de’ pescatori, le case che di lontano biancheggia- no frastagliate da alti e verdeggianti alberi, le colline che ora sporgono ora si ascondono e dileguano, e ad ogni muoversi della barca nuove scene mostrano allo sguardo attonito, quel susurro lieve e confuso che si leva da’ lochi abitati, la ricordanza di recenti dolori, la speranza di poterli addolcire, tutto nell’anima mia destava un molle e indefinito sentimento, che mi gettava in un giocondo e voluttuoso obblio. Appena toccata la punta di Miseno, ecco dispiegarsi in tutta la sua bellezza Pro- cida dinnanzi a’ miei occhi; il cuore mi batteva forte, ed io colla fanta- sia mi creava mille dolcissime speranze, che tutte poi doveano svanire. Di sopra un lieve e dolce pendio, che si dilunga verso la sinistra in un piano smilzo e bipartito alla punta, s’innalza un colle, alla cui cima tor- reggia la Chiesa di S. Michele, che siede a cavaliero di tutta l’isola. Io ri- volgea nel pensiero i costumi miti e giocondi di quella gente, che si slancia ardita sul mare per molcere la fame de’ figliuoli, per sostentare  i vecchi e poveri genitori, per confortare colle nozze della cara giovinet- ta le lunghe e fortunose vicende durale; e quella gente, che per solleci- tudini cotanto innocenti concepe il vasto divisamento di valicar l’ampio oceano, apportando su fragile legno merci alla lontana America, mi riempiva la mente di stupore.

Questo picciolo popolo, che vive gran parte della sua vita fra le tem- peste del mare, che baratta merci con popoli diversi per lingua, per co- stumi, per religione, per reggimento, nondimanco serba intatte e pure le sue native costumanze, le affezioni del tetto paterno. Non mai un di essi sposò donna francese, inglese o d’altra gente, non mai per vaghez- za delle cose vedute abbandonò il suo paese, non mai vi arrecò nuove opinioni e nuovi costumi. In Procida i vecchi non lamentano il buon tempo antico messo in obblio. Pare che nel procidano la volontà sia più forte delle vicende e delle varietà della fortuna, che gli affetti poco ab- biano efficacia nell’anima sua, la quale usata a scorrere l’infinito del mare è sola atta a vasti e profondi amori, l’amore della famiglia, l’amo- re d’Iddio, l’amore tenacissimo delle tradizioni e delle costumanze pa- trie. Quindi non recherà maraviglia, se la grande anima di Giovanni da Procida, di quel Giovanni che non fu domato dall’avversità della fortu- na ede’ tempi, in quest’isola si educò a vasti e gagliardi pensieri, all’amore delle tradizioni, a quella volontà invitta, che è maggiore dell’infortunio. Più temperala, è vero, è l’indole dell’abitante di Proci- da, ma al certo di sotto a quelle vesti rozze e neglette, a quelle maniere semplici e ruvide, a quel parlare molle e nativo, tu sapresti rinvenire l’uomo, che indura ed esercita la vita fra’ pericoli del mare? — Dolci sono i loro costumi, ma forti i loro propositi; e l’anima loro. serena e intollerante di ozio, come l’onda del mare limpida ed agitata sempre, non posa mai.

Un giorno verso l’imbrunire della sera io montava per la china del colle, e mi avviava alla Chiesa, — ed ecco venirmi all’orecchio un lieve ed incessante fruscio di piedi, — io porsi l’occhio e l’orecchio, né andò guari che allo svoltar della via m’incontrai in tutte le donne dell’isola, che dalla Chiesa di S. Michele si riducevano alle loro case. Una solleci- tudine pensosa e malinconica si dipingea su que’ volti, ma quella solle- citudine era al presente confortala da un pensiero più sublime, dalla fede di rivedere i loro lontani parenti, i figliuoli dispersi per quanti ha porti e mari il mondo. Colla preghiera sembra, che l’anima loro abbia acquistala una tranquilla e sicura fiducia; questa sera la madre appor- terà a’ figliuoli una pia speranza, le vergini consoleranno l’animo per- plesso delle madri, la sposa porterà in casa la fede salda che il giovine sposo tornerà. Il dolore confortato dalla fe. de si muta in una sublime rassegnazione.

L’abitudine di trovarsi lontana da’ suoi cari, l’inquieto pensiero de’ loro casi, la cura solinga e tenera de’ suoi portati rende la donna proci- dana così timida, così affettuosa, così abborrente da ogni altro pensiero che potesse per poco turbar la pace della sua famiglia. Ammannar le robe di casa, racchetare il pianto de’ bimbi, raffrenare l’ingegno indoci- le de’ grandicelli, allestir la dote e il corredo alle figliole, risecar sul poco, che ha rimasto il marito pria di partire, quel pochissimo che ba- sta per l’elemosina, e per mille altre minute faccende domestiche, che gli uomini non sanno, ma che non sfuggono all’occhio vigile della don- na, questa è la loro vita. La Chiesa e la famiglia — la donna Procidana non ha altri affetti, non ha altre sollecitudini. Essa si asconde ad ogni guardo, non sta sulle vie, non ama feste, non tumulti, è ritrosa colla gente che non conosce, poco conversa con gli uomini, è poi ciarliera  con le compagne. Ma sapete su che versano quelle ciarle? sulle faccen- de di casa, sull’indole e l’ingegno de’ figliuoli, su’ lontani parenti e del tempo del loro ritorno, sulle prediche udite in Chiesa, sulla prossima festa di un santo. E in questi colloqui ella svela quel1’ anima tenera e buona, per cui tutto è amore e sagrifizio, che non ha altra cura che la salute del marito e de’ figliuoli, non altra speranza che guadagni meno scarsi.

Tutti lodano la loro bellezza, ed è in vero maravigliosa, ma niuno,  per quanto io me ne sovvenga, ne ha notato il pregio più singolare, la mestizia, la quale scende soavissima all’anima, ed è un fascino, a cui ben di rado si resiste. Ha bruni e foltissimi e lunghi capelli, le guance delicate e tonde soffuse di un leggiero incarnato, la bocca picciola e con labbra gentili e rubiconde, ma l’occhio ceruleo e languido esprime quel pensiero affannoso e continuo, che non mai lascia di turbarle l’animo colla ricordanza de’ cari lontani e forse pericolanti. Ma quell’affanno non è doloroso, non sconsolante, ma di una mestizia dolce e malinco- nica, perché temperato dalla fede, dalla speranza di rivedere fra breve  il padre, il figliuolo, il marito, confortato dall’affezione di madre di fi- glia, reso mansueto dalla religione. Una pezzuola di seta screziata di vari colori le stringe la fronte e le cade rovescia dietro il capo, le contie- ne il seno un giubbetto con fregi di oro, da cui scende la gonnella di  seta cremisino con una larga fascia di velluto nero al lembo, il grem- biule con arte quasi sprezzata le rileva il fianco colmo e grazioso, e in- filzata alle braccia cade giù dietro le spalle impicciolendosi ne’ fianchi fino al lembo della veste la camiciuola di seta con gheroni di oro. Que- sta foggia ha un non so che di bizzarro e leggiadro a un tempo che  pia-

ce, e la persona non costretta da quelle vesti vi spicca libera e modesta scoprendo mille vezzi, che adescano la facile fantasia 1.

Volete voi darmi uno di cotesti fiori? — dissi io ad una leggiadra gio- vinetta, la quale andava raccogliendo fiori per un giardino, e con genti- le industria ne componeva un mazzetto; — ella arrossì e fuggì via, ma fosse caso od arte lasciò cadere un gherofano, che io mi posi sul petto, un po’ confuso di quella soverchia ritrosia. Dopo breve spazio di tempo io rincontrai per via con una compagna; ella mi vide, e subito inchi- nando gli occhi e lievemente arrossendo mormorò non so che parole alla sua compagna, che mi guardò pure e sorrise, indi affrettando insie- me il passo per un viottolo si dileguarono. Avrei dovuto credere che io fossi poco grato a quella giovinetta, non è vero? — eppure no; quell’arrossire, quelle poche parole dette all’orecchio della compagna, quel dileguarsi in fretta, non mi dicevano abbastanza che ella tuttavia portava nell’animo la ricordanza di quelle mie parole, e che ella sentiva per me un affetto che volea celarmi?Questo è il costume di quel paese, la donna asconde all’uomo che ama, e che ora l’è marito, tutto quel te- soro di affetto e di tenerezza che porta nel seno, ella ama in segreto e cela con ostinata e soave ritrosia il suo pensiero. Questo pudore è poi così ombroso nelle vergini che si mostrano pochissimo e sfuggono lo sguardo de’ giovani.

Mentre viaggia per l’oceano di notte solitario sulla prua del suo legno un giovane rianda nella mente la memoria de’ suoi cari lontani, e le sovviene di una gentile fanciulla, che egli conobbe giovinetto, e ad una ad una va risvegliando certe ricordanze, le quali stavano nascoste nella sua mente e gli rivelano un nuovo pensiero, una nuova cura. Egli nella sua fantasia vede quella giovinetta pensosa della sua lontananza, la vede che novera i giorni del suo ritorno, e protende lungi lo sguardo sul mare per scoprire una vela; che tutta amorosa e lieta cerca con mille cure alleviarlo delle lunghe fatiche, e gli rassetta le robe, e lo sgrida soavemente che egli si accinga a novelli viaggi. Il cuore gli batte spesso, e in quel momento egli scorda il mare, i suoi compagni, i parenti, tutto assorto e rapito in quel dolce fantasticare della mente. Ritorna dopo molto intervallo di tempo al suo paese, e per via e nella Chiesa il suo sguardo cerca quella giovinetta; — i loro occhi s’incontrano e il giovine arrossisce.

Quello sguardo, quel rossore portano nel cuore della donzella un nuovo e caro turbamento, e nell’animo dell’ignara si desta una commo- zione tepida e soave, che la rende pensosa, e le tiene a suo dispetto quasi sempre dianzi alla mente quel giovane. S’incontrano di nuovo e  la giovinetta tremante si stringe alla madre, e risponde distratta e quasi di mala voglia, ma i loro cuori si sono intesi. Il giovane la chiede al pa – dre, e i due amanti sono ornai fidanzati; eppure se egli le parla con istanza di quello sguardo, di quel rossore, ella non risponde e se ne sdegna, e non di rado schiva di ritrovarsi in compagnia del suo fidanza- to.

Questo popolo non ha poesia, non ha quelle tradizioni fantastiche e paventose de’ popoli della Calabria, non danze che ricordano antichi culti,. non si versa nelle pubbliche piazze, poco parla di politica, poco delle vicende che agitano Italia ed Europa; ma è tutto casalingo, è tutto inteso a’ traffici a’ commerci; la moglie, i figliuoli, il mare, son questi i suoi amori. Pare che le commozioni de’ popoli si dileguino e spirino nello strepito de’ flutti, che flaggellano i lidi di quest’isola gioconda. Se- duto in riva al mare io rivolgea la mente trista e malinconica alle condi- zioni delle più fiorenti città; — amori infinti e compri, amistà inganne- voli e bugiarde, perpetuo sospetto delle persone care e de’ parenti stes- si, vana e affannosa cupidità di ricchezza e di agi, spregio dell’uomo onesto e industre, lodi all’infingardo ed opulento; continuo agitarsi fra ragunanze e crocchi, in cui indarno si cerca far tacere l’ozio profondo e pungente con giuochi, danze e suoni; donne che dispensano sorrisi e detti senza badar punto al dolore ed al sospetto che destano nell’animo di coloro, che un fato inesorabile conduce ad amarle; — ecco un breve e pallido quadro della vita, che in esse si mena. Non è forse meglio vivere in cotesta isola senza perplessità dell’avvenire, non turbato dagli odi, conversando con gente che non inganna né mentisce, spendendo parte del giorno negli studi diletti, trovando sulla mensa cibi, se non conditi con delicatezza, resi almeno dolci e sani dalla vita tranquilla e riposata? Mia zia mi chiese l’accompagnassi in casa di una sua amica, a cui di re- cente era morto il marito. Appena toccata la soglia della casa grida la- mentevoli e lunghe ci percossero l’orecchio; io ascesi commosso le sca- le. Spinsi l’uscio; — tutto era mestizia e tutto in quella casa; e le donne alla nostra vista levarono più alto il lamento.

—Giacea sur un catafalco vestito de’ suoi abiti di gala il morto; la sua donna pallidissima e con gli occhi infossati dalle lagrime sollevò colla mano quel capo amato e lo guatò un poco, poi lo baciò in fronte, e ac- cennando alle figliuole porse loro la mano del padre, che esse singhioz- zando baciarono. Indi snodò le loro lunghe trecce, e stata un poco so- spesa colle cesoie le tagliò e ne sparse il corpo del consorte; sciolse dopo le sue e mozzatele pure ne fè un groppo, e legatele con una fettuc- cia gliele pose sul petto. Lo baciò di nuovo, e, addio, disse, Carlo, ci ri- vedremo in paradiso — Si gittò sopra una sedia, e stringendosi sul pet- to il capo delle due figliole più piccine pianse dolorosamente. E che al- tro restava a quella. povera madre, se non abbracciar le sue figliuole e pianger con esse? — Ella ha recise le sue chiome bellissime quasi per esprimere che ornai per lei la vita non ha più dolcezza alcuna, che ella è ornai straniera al mondo, e che porterà nel cuore fino alla morte la ri- cordanza del suo compagno, del suo amico, del padre delle sue figliuo- le, onde gli lascia in segno del suo amore il pregio più leggiadro della donna, i suoi lunghi e folti capelli. Affettuose usanze, che legano con soave cura gli spenti a’ cari, che loro sopravvivono.

La donna seduta fra’ suoi figliuoli si riconforta del suo marito lonta- no; e questi mentre agita la vita in remote contrade torna con la mente alla pace del suo focolare, e lo punge il desio de’ suoi figliuoli, della sua moglie. Ne’ suoi figliuoli la madre versa tutte le dovizie di quel suo ani- mo affettuoso e tenero; pe’ suoi figliuoli il padre erra per lontani paesi  e commette la sua vita alle fortune del mare: e abbenché divisi per tan- to spazio si ricongiungono in un solo affetto, l’affetto di padre e di ma- dre, l’affetto di famiglia.

In Procida rarissimi sono i ladri, rari gli omicidi, raro il mal costu- me; perché l’uomo usato a’ grandi e forti affetti della natura e del mare, il quale si dilaga immenso a’ suoi occhi, non alligna nel seno basse e  vili passioni, ma un solo e profondo affetto vi germoglia, — la famiglia;

  • la donna tutta intesa alla cura de’ suoi figliuoli accoglie nel seno un solo affetto, la famiglia. E niuna gente al mondo ama più del Procidano la dolcezza del focolare paterno. Vivono nell’innocenza dei loro costu- mi antichi, e l’alterne vicende delle cose umane non bastano a mutarne la vita tranquilla e serena.

Fecondi ed odorali frutteti, vigne pampinose e intrecciate ad alti tronchi di albero di castagno, quà e li sparsi piccioli gruppi di case, le quali biancheggiano tra il verde degli alberi, l’aure tepide e salubri, il cielo azzurro e limpidissimo, il mare ora agitalo or cheto, che mormo- rando circonda quest’isola, quasi per esprimerle il suo amore, di lonta- no Capri, famosa per l’orgie di Tiberio, da un altro lato la vicina e mi- steriosa Ischia, di fronte il promontorio Miseno e il golfo mirabile di Napoli alle spalle; il quale colle sue braccia immense par che si disten- da ad abbracciar l’infinito; tutto in quest’isola invita l’animo al diletto ed. all’ozio giocondo. In questo grato soggiorno spesso si recava il ro- mano patrizio 1, stanco degli ardui pensieri di conquista, e molcea di tranquille e liete dolcezze le pungenti cure di patria e di dominio; e Giovenale ritiro amenissimo chiamò quest’isola. Abitala in prima dagli Euboici 2, seguì poscia le sorti del continente; — e i suoi ameni recessi, le sue dolci e feconde colline ricettarono in tutti i tempi quelle grandi nature, che stanche dell’avversità della fortuna ricercano più quieta e più gioconda vita; — quivi soggiornò Giovanni da Procida 3. Fu retaggio di Re e di Baroni, e più volte messa all’incanto 4; nel 1792 divenne città. Questa isola non ha storia, non maravigliose memorie; i suoi porti sono popolati di navigli, e sul lido tu vedi un agitarsi, un brulicar conti- nuo di gente tutta intesa a’ traffici, ed a rassettar le merci che debbono recarsi in altre regioni. Ma se dal lido tu ti avvìi verso la parte interna dell’isola trovi una pace, una quiete solenue, interrotta di rado dal can- to de’ villici. Al frastuono, allo strepito, allo schiamazzo di cento voci discordanti succede il silenzio; stupendo ritratto di un popolo, che ha solamente due pensieri, due cure, la famiglia e il commercio; questo educa l’uomo alla vita irrequieta e faticante, quella alla dolcezza    della

vita domestica e ad una malinconica quiete.

FEDERICO QUERCIA.

  1. 1   Dionigi di Alicanasso. lib. 1. Antiq. Rom.
  2. 2   Strabone, lib. 5.
  3. 3   Fragm. Chron. Napolit. apud. Pelleg. Hist. Princp. Longobard. 1. 3.
  4. Giustiniani, Dizionario geografico del Reg. di Nap. I. 7. pag. 323.

IN TOLEDO

……….un’assordante folla di curiali e di sollecitatori, di negoziami, di venditori si aggruppa, s’incrocia,

per Toledo. BlDERA.

LA città di Napoli vien divisa io due dall’ampia e lunga strada delta Toledo, alla quale metton foce tante vie, siccome un gran fiume in cui sboccano le acque de’ suoi confluenti. Essa si estende dallo Spirito San- to fino al largo S. Ferdinanda presso il palazzo reale, e fu aperta per or- dine del primo viceré D. Pietro di Toledo, da cui ritenne il nome, col di- segno di Ferdinando Manlio, architetto napolitano. 1

Questa è la strada più popolata di Napoli, a causa del continuo traffi- co che vi si osserva. Di qualunque festa, sacra o profana, di gaudio o di tristezza, Toledo deve aver la parte sua. Quivi è il luogo dei ritrovi, la sede di tutti quei venditori e negozianti girovaghi che ora in un punto ora in un altro aprono bottega su delle mobili panche. Nelle ore del mattino e nelle prime della sera Toledo è talmente affollala di gente  che va, che viene, che brulica, si ferma in crocchi, compra, guarda, ozia, che chiunque non è uso di stare in Napoli cammina siffattamente stor- dito iu tale strada che corre rischio di trovarsi sotto i piedi de’ cavalli, o schiacciato da qualche carrozza.

1    CELANO.  —  Delle  notizie  del  bello,  dell’antico  e  del  carioso  della  città  di  Napoli. —

Giornata seconda.

Venditori che gridano, carrozze che corrono, cittadine 1 che guizzano da per tutto; è un andare, un venire, un urtarsi, un pigiarsi, un frastuo- no, una confusione che al certo non si osserva in nessun’altra città d’Italia. E siccome questa è la strada più trafficata da ogni genere di persone, in essa si trova una quantità di venditori che traggono i mezzi alla vita col tenue lucro che ricavano dalle loro piccole industrie e da’ piccoli mestieri, cui sogliono addarsi quei della plebe, mettendo in commercio un capitale di pochi carlini. Ivi troverai dei cartolai ambu- lanti che con una risma di mediocre carta che comprano alla fabbrica del Fibreno e qualche pacco di penne fra le mani ti assordano, gridan- do a piena gola: A sei fogli a grana. Ve ne sono di quelli un poco più agiati che si stabiliscono accanto ad una bottega e che sono forniti di più oggetti di scrittoio; e da questa loro industria essi tengono un gua- dagno certo e durevole, perché ognuno che ama comprar carta, penne, inchiostro, ostie, o altra cosa di simil genere, senza spender molto e contentandosi di una qualità che certamente non è la migliore, preferi- sce comprare da uno di questi venditori, anzi che da’ cartolai i quali fanno bottega nella stessa strada.

Eccoli intanto da un lato un venditor di fiammiferi, di cerini fosfori- ci e di altre materie accensibili, che il progresso à sostituito all’esca,  alla pietra focaia e al solfanello, il quale portando questa piccola mer- canzia in un fondo di scatola, non di rado avviene che per qualche fa- villa di sigarro o per altro disgraziato incidente questa in un momento va in fiamme, e allora sparisce il capitale che dà a quei meschini il mez- zo di buscarsi onestamente qualche carlino; e non di rado avviene che  a tali scene segua una briga con colui che à cagionato il danno. Quindi bisogna cominciare da capo col mettere in commercio un’ altra piccola somma, la quale non sempre essi posseggono; perché quei della nostra plebe usano di sovente spendere oggi tutto il guadagno del giorno, fi- dando che al domani Dio provvede. Ma ritornando a coloro che vendo- no tutte queste piccole materie fosforiche, il compratore con essi non fa alcun vantaggio, dappoiché meno costa la scatoletta de’ cerini e meno genere vi è dentro, ché essi sogliono farvi di tali sottrazioni che vai me- glio pagare di più ed aver la scatoletta intera.

1   Nome dato ad alcune piccole carrozze da nolo.

Quando cerchi liberarli da costui che ti grida nell’orecchio: Nu ran a scatola i cerini, nu ran a scatola: ti trovi fra i piedi una cesta con una quantità di libri vecchi, avanzo di qualche editore fallito o di un seque- stro fatto a povero studente, innanzi la quale vi à un popolano che invi- ta alla compra cd alla scelta de’ libri che vende tutti ad egual prezzo: Sceglite, sceglite cinco ran o libro, sceglile: essendo quei volumi tutti eguali in faccia a questa legge, che non distingue né autori, né opere,  né edizioni. Vi sono pure de’ girovaghi librai che portano con sé una piccola raccolta di libri di ogni genere, ma la maggior parte di essi con- tengono ristampe di romanzi o di opere edite in altre città italiane o estere — furto letterario a cui non si potrà metter fine nel nostro paese se non si provvede alla legge, che guarentisca agli autori il fruito del loro ingegno, e li metta al caso di venderne la proprietà a chi meglio sa apprezzarlo. —

E molti altri ancora potrei notare di questi o simili piccoli mestieri che esercitano quei della nostra plebe, come sarebbe a dire gli spaccia- tori di carte o giornali volanti; coloro che vendono tinta per pulire le scarpe, sapone per toglier le macchie, mastici per acconciar porcellane o terraglie rotte ed altre simili bagattelle che vendono, richiamando molta gente intorno a sè, la quale rimane a sentire le lunghe cicalate che fanno mentre puliscono una scarpa vecchia o tolgono le macchie al berretto sudicio e bisunto di qualche monello: i venditori di calze, di guanti, di canne, di cristalli, di fazzoletti, di nastri di seta e di altri simi- li generi che si vendono sempre nelle ceste a gran ribasso o perché il genere è passato di moda o perché messo in vendita da qualche nego- ziante fallito. In questo caso i venditori sogliono anche negoziare di  sera in sulla strada Toledo, al chiaro di una torcia a vento e chiamando la gente al suono di una campana.

Sopra ogni altra di queste industrie bisogna però dare il primato ai cosi detti galantariari o chincaglieri ambulanti, i quali, forniti di un capitale un poco più forte possono estendere la loro speculazione ad al- cuni generi che più costano e che più bisognano; come sarebbero, tira- calzoni, forbici, temperini, stuzzicadenti, tabacchiere, rasoi, generi di profumeria, spazzole per gli abiti, spazzolini pel capo o pe’ denti, col- telli da tavola, posale di plaquefond, pettini, lumi da notte ec. ec. A tut- ti questi generi i negozianti danno il nome collettivo di grossa, ed i venditori ambulanti comprano tutto sempre a contanti ed a minor prezzo; e se! avviene che essi sentono che i negozianti da cui comprano abbiano avuto dallo straniero qualche genere nuovo di cui vogliono  un

po’ caro, allora passano fra di loro il motto d’ordine di non òomprare, (ino a tanto che il prezzo non venga ridotto al punto che possono ven- der con facilità. Costoro, come tutti gli altri che esercitano simili picco- le industrie, danno i generi a miglior mercato perché non sono costretti a pagare la pigione del magazzino e perché si contentano di guadagnar poche grana sopra l’oggetto che vendono. Domandano sempre più di quello ch’esso vale, ma poi si restringono al terzo del prezzo che àn chiesto.

I galantariari appartengono quasi tutti a’ quartieri S. Ferdinando, S. Giuseppe e Montecalvario, come quelli che si trovano più prossimi alla strada ove esercitano il loro negozio. Essi vanno girando Toledo di giorno e di sera; entrano in tutti i caffè, si fermano innanzi ad ogni ta- volino e ripetono sempre: comandate no bravo pare de tiranti, forbici, temperini? Avrai un bel dire che non te ne fa bisogno, che non vuoi spender danaro: essi allora cominciano a lodare l’oggetto che vogliono vendere, promettendo darlo a buon mercato 1; ma se alla (ine non pos- sono fare faccenda, conchiudono col chiederti il mozzicone del sigarro, che con rincrescimento devi staccare dalla bocca e darglielo.

Questi venditori poi profittano di tutti i tempi e di ogni occasione per buscar danari, vendendo qualunque cosa offra un piccol guadagno, che nella quantità della vendita dà loro poi alla fin de’ conti quei cinque o sei carlini al giorno di utile. Essi sono rispettosi coi compratori, né si lamentano se perdono molto tempo senza concluder nulla; e per lo più sono de’ giovani svelti e di spirito, che sovente ti muovono le risa con le loro risposte argute ma che non eccedono ad impertinenze. Li troverai il mattino nelle varie officine che vanno girando per vendere temperini ed altri oggetti da scrittoio; negli studi de’ pittori e degli architetti per negoziare delle matite o de’ lapis; su’ legni stranieri quando ve ne sono nel porto, e vanno girando con le loro mercanzie nelle varie province del regno quando si celebrano le fiere.

Altri di tali galantariari tengon fissa una panca ed una vetrina a qualche angolo di vico che mette a Toledo, e vi rimangono fino a sera: questi non gridano, ma, ove per caso ti fermi ad osservare la loro mer- canzia, presto ti offrono mille oggetti; e se nulla compri, sentirai nell’andartene qualche parolina di dispiacenza, quasi tu abbia loro fat- to un danno col guardare gli oggetti.

Infine tutti questi venditori non lasciano intentata niuna via quando deggiono buscarsi il pane; e guadagnalo tanto da servir loro ai bisogni della vita, essi, come la maggior parte del ceto basso di questo popolo, si riposano ed occupano il resto del giorno o della sera a mangiare, bere, scialacquare e sentire al teatro Sebeto la, aggressione e morte di Titta Grieco e Bruno Taverna, le avventure del Guerrier Meschino, Stellante e Costantino Bellafronte, l’assedio di Troia con Pulcinella o altro simile spettacolo tragicobernesco eroicomico.

FRANCESCO DE BOURCARD.

A cominciare dal ciabattino che criticò il calzare in un dipinto di Apelle, ve- nendo giù giù fino ad Isidoro Orlandi, detto il ciabattino dell’Adige, buon poe- ta vivente (se non è morto), l’onorevole professione di conciatordi scarpe ebbe sempre le sue notabilità: e basti qui ricordar per tutti, senza fare inutil pompa di facile erudizione, il ciabattino di S. Ginegio che voleva torre lo stato a Mes- ser Ridolfo da Camerino, Asdente celebrato dall’Allighieri e da lui messo in Inferno presso a Guido Bonatti, ed un altro che ebbe l’alto onore di esser pa- dre di papa Urbano IV, e di cui Machiavelli avrebbe potuto dire, come disse del padre di Clemente VII, che assai grandi e magnifiche furono le opere sue avendo generato la Santità Sua, la quale opera tutte quelle de’ suoi maggiori di gran lunga contrappeso. Vatti pesca quante altre nobili famiglie conteran- no dei ciabattini nel loro albero genealogico, che certo non son da meno del beccaio donde derivarono i Capeti di Francia.

Non vi spaventate, lettori pazientissimi, se prendo le cose cosi dall’alto per venire a parlare del ciabattino: io non mi so reggere a lungo sulle ali nelle ae- ree regioni ove non potreste tenermi dietro, e subito poso i piedi in terra per venire al proposito.

E per cominciare dal cominciamento, dirovvi che i ciabattini fra noi si pos- sono dividere in due classi: i fissi e gli ambulanti; appunto come le stelle che  si distinguono in erranti ed in fisse.

I ciabattini fissi prendono per domicilio i portoni più o meno grandi delle case di Napoli. Ordinariamente fanno le veci dei guardaporte agli usci di quel- le case che non hanno stalle; e quivi ingombrando col deschetto mezzo il por- toncino, costringono a passar quasi per trafila chi entra e chi esce. Alle volte scelgonsi un cantuccio in mezzo alla pubblica via dove non siano d’impaccio al passaggio delle carrozze; e quando han posto bottega in una piazza, aggiungo- no all’ufficio di rattacconatori quello di negozianti di scarpe raffazzonate e ac- canto al deschetto schierate in battaglia coll’aspetto di nuove. A vederle, quel- le scarpe sembrano destinate all’immortalità: ma alla prima pioggia si accor- gerà il male accorto compratore come sieno caduche e transitorie le cose di questo basso mondo, non escluse le scarpe più appariscenti.

I ciabattini ambulanti hanno in vece di deschetto una cesta ove ripongono i loro ordigni. Accomandatala ad armacollo mercé una correggia, con quella ce- sta girano tutta la giornata per le contrade della capitale. Al grido usato chià è, accorre la fantesca e fassi mettere un taccone alla pantofola sdrucita; accorre  il cocchiere o l’onesto artigiano e fassi dare quattro punti alla scarpa che ride a bocca sgangherata; accorre la trecca e si fa rabberciare la scarpetta sformata e a cacaiuola; accorre lo studente…. cioè non accorre, ma lo fa venire a se, e si fa mettere un sopralacco con tramezzelti ai tacchi logori degli stivali o dei bor- zacchini alla prussiana. Beati quelli che hanno per calzari la propria cute: se non altro, risparmiano la spesa del calzolaio e del ciabattino, e non sono sog- getti al chirurgo pedicuro ed al callista.

Eccoti al lavoro il nostro ciabattino girovago:1 ei non ha bischetto né trespo- lo: questi blandimenti son riserbati ai suoi più nobili confratelli, a quei che  van per la maggiore, non a lui povero nomade dell’arte.

La cesta che contiene i suoi ordigni è pure il suo deschetto e il suo scabello: riunite le ginocchia, e accoccolato in tal guisa, senza pedale e senza manale, apre bottega ove il bisogno altrui viene a provvedere ai suoi bisogni, e dei den- ti facendo tanaglia, impugnando la lesina colla destra e lo spago colla manca, rattoppa ogni genere di calzari che la provvidenza gli faccia piovere. Così da un sito passa ad un altro, finché a mezzogiorno si ferma alla prima taverna  che gli si offre alla vista o che gli solletica l’organo dell’odorato.

Innanzi ad una di queste taverne fermavasi ogni giorno un ciabattino de’ più miseri che mai siensi veduti. La sua statura non aggiungeva a quattro pal- mi e l’età passava i cinquanta.

Appoggiavasi ad una mazza noderosa che di mollo gli oltrepassava il capo, della quale servivasi per menare a tondo ai monelli che gli davan la baia e che gli gittavan torsi di cavoli, bucce di cocomeri e di limoni ed altre simili galan- terie. La sua figura e più il suo viso contraffatto gli avevan procurato il so- prannome di porco col quale era e forse è ancora in Napoli conosciuto. Sicché egli potrà ben dire quando un nuovo Dante lo troverà in un nuovo Inferno:

Li cittadini mi chiamarmi ciacco.

Ma certo non per lo dannoso vizio della gola si aveva guadagnato questo nome, poiché anzi era l’esempio della frugalità. Il suo desinare meridiano componevasi di cipolla, di peperoni in aceto, di fave crude, di lupini salati, di zucca marinata, secondo le stagioni, con un pezzo di pane nero e stantio, e sol ne’ giorni festivi regalavasi di due grana di maccheroni verdi verdi con pepe e formaggio grattugiato e di un’insalata di pomidori acerbi o di scheruola ama- ra. Vero é che annaffiava cotesta roba copiosamente con quel che in Napoli chiamasi vino di quattro (cioè di quattro tornesi la caraffa) e che in realtà non è che un miscuglio officinale di vino ed acqua intrugliato collo zolfo o col te- nervi dentro. un sacchetto di monete di rame. Ma benché copiose fossero que- ste libazioni, o per natura o per contratta abitudine il suo cervello punto non ne soffriva, sicché non mai fu visto ubriaco né brillo, e cosi non può dirsi che il suo bere oltrepassasse la sobrietà.

La donna che sedeva al banco della taverna, e che era la padrona, giovine e paffutella, era una di quelle bellezze che non di raro s’incontrano nelle infime classi del nostro volgo. Cresciuta in mezzo la strada, senza gl’impacci signorili di busti, di attillati vestimenti, di stretti calzari, senza il forzato sedere e l’incurvamento del cucire e del ricamare che è di obbligo nelle scuole, la sua persona era venuta su ed aveva preso liberamente la naturai conformazione, in guisa che non aveva bisogno dell’aiuto dell’arte per supplire alla mancanza di carne in quelle membra che ne deggiono essere ben fornite. Occhi nerissimi le scintillavano in volto, e la negrezza de’ capelli faceva cornice ad un viso che molte nobili dame di puro sangue avrebbero invidiato.

Il nostro ciabattino si sedeva ogni giorno a mezzodì in mezzo alla strada di- nanzi ad una tavolacela apparecehiata appunto per gli avventori. Quivi si face- va portare in un boccale il solito vino, e cavato dalla cesta il pane e il compa – natico, si dava da fare coi denti.

Ma gli occhi non istavano in ozio, ed amorosi andavano a fissarsi sulla bella cantiniera donde non gli staccava un momento. Conscio della propria defor- mità, ei non sognava neppure che potesse essere riamato: ma in quegli istanti che pasceva lo sguardo in quella bellezza mentre pasceva il corpo di quei rozzi cibi, egli si stimava beato, ed avrebbe esclamato di cuore:

Nettare e ambrosia non invidio a Giove.

Amava quella donna come un padre ama una figlia, e per vivere vicino a lei, pel solo piacere di sempre sempre vederla, avrebbe consentito ad essere anche più miserabile di quel che era.

Da parecchi giorni alleggiava intorno alla cantiniera un giovane calzolaio, e sempre che entrava nella taverna la guardava con cupidi sguardi, mentre poi all’uscirne gittava un guardo di sprezzo sul cencioso ciabattino quando il tro- vava seduto alla panca. Passò gradatamente dalle occhiatine alle parole, e dal- le parole sarebbe passato a qualche cosa di più ardito, se l’onesta cantiniera non l’avesse sempre respinto dicendogli: statti quieto colle mani.

Un giorno, nel più fitto della state, tre ore o più dopo il mezzodì, il ciabatti- no stava ancora alla sua pancaccia: assorto nella quotidiana contemplazione, erasi dimenticato del suo mestiere, ed era rimaso lì inchiodato, facendo chi sa quali castelli in aria. La cantiniera, appoggiata di lato la testa sul braccio dritto’e lasciando cader penzoloni l’altro, erasi addormita al suo banco. La ta- verna era deserta, poiché sdraiati per terra dormivano pure i garzoni. Pel vi- colo non passava un’anima, né una testa compariva ai balconi e alle finestre, ché il cocente ardore meriggiano noi permetteva. In mezzo a questo silenzio, eccoti arrivare il calzolaio, quale, profittando della solitudine, dopo aver dato un’occhiata intorno a se, chinatosi bel bello e ebetin chetino, appicca un bacio sulle labbra socchiuse della bella tavernaia.

A questo il ciabattino non potè contenersi: tutto il sangue gli corse al cuore e al capo che in lui erano più vicini che negli altri uomini; e dar di mano alla cesta, prenderne il trincetto, avventarsi al calzolaio, e gridar con voce tonante tira mano, fu un punto solo. Scosso ed attonito il calzolaio, ma non intimori- to, cavò fuori anch’egli e spiegò un suo coltello, mentre al grido erasi desta la cantiniera e sorti in piedi i cacciavino. Ma giunsero tardi: trafitto d’un colpo  al ventre cadeva il calzolaio, ed il porco senza far nessuna resistenza, baciava  il trincetto, lo deponeva sul banco e si faceva condurre al commissario del quartiere.

Interrogato, non volle mai dire perché avesse ferito il giovine calzolaio. Fu sottoposto a un giudizio, passò più di un anno nelle fetide e contagiose carceri della Vicaria, e dopo avere espialo la pena a cui fu condannato, ritornò gioioso a mangiare il nero pane e le cipolle alla bettola consueta alla vista della sua Esmeralda. Mai non si seppe perché si fosse fatto reo di sangue.

L’abnegazione di questo novello Quasimodo ebbe il compenso che sogliono aver quaggiù le azioni virtuose: la bella caminiera, abborrente dal sangue, guardava con orrore il ciabattino. Pochi giorni dopo la sua ricomparsa, gli fece dire dai suoi garzoni che non si fosse mai più fatto vedere dinanzi a quella ta- verna.

Da quel di non si è più visto per Napoli il porco.

EMMANUELE ROCCO.

NON è già del 5 e del 15 maggio dolorose memorie di questo mese, ma di un giorno lieto e bizzarro ch’io TO’ intrattenervi o lettori, io sì studioso delle vecchie e secolari costumanze napolitane, onde i fore- stieri ancor ma| ravigliano curiosando fra noi e prendendo a riso una plebe che oggi lentissimamente comincia ad intendere esservi al mon- do qualche cosa da careggiare oltre il vino, la donna, e che so io….

Il quarto giorno di maggio è destinato in Napoli, per antica consue- tudine, al cangiamento di domicilio. Ab antico e fin dal tempo de’ no- stri trisavi, i napolitani quando non erano inquilini della casina di Montesanto, godevano sotto i passati governi della sola libertà di mu- tar tetto; libertà che, la Dio mercé hanno conservata fino ad oggi. Mu- tar tetto è dunque pe’ napolitani, non un bisogno ma un uso, quando non sieno gli ospiti della Concordia. 1 Se le case potessero trasportarsi d’ uno in altro loco sui carretti, i napolitani forse non acconsentirebbe- ro a portar via le suppellettili e far viaggiare gli arnesi più sconci; ma posto che le case non possono secondare la volontà del muoversi de’  lor padroni, i napolitani compiono non in silenzio né in secreto, ma pubblicamente e clamorosamente la voluta emigrazione.

1  Le carceri pe’ debitori erano qualche anno addietro allogate in luogo dello   Montesanto:

ora trovansi erette in altro luogo detto La Concordia.

I possessori di case in Napoli ne danno in fitto altrui le parti diverse dal di 4 maggio e segnatamente a cominciare dalle 18 ore del giorno. _ È questa l’ora tremenda in che un inquilino deve all’altro cedere il po- sto: in quell’ora gli abitatori sono a fronte l’uno dell’altro, o almanco l’uno minaccia di salire, mentre l’altro s’affretta a discendere. Ora tre- menda pari a quella di Foscari che pria di uscir dal Palazzo de’ Dogi udiva proclamare il suo successore! Al suonar di quell’ora tutto è scom- piglio tutto è disordine. D. Ranunzio è giù nella corte co’ suoi undici fi- gli, la moglie, la balia, la nutrice, il cuoco mascherato da servitore con livrea gallonata ed il garzone della scuderia. Di sopra sta D. Rosario ve- dovo di due mogli, una figliuola monaca di casa, un figlio cappellano e gli altri demagoghi per esercizio di libere professioni. Ciascuno di que- sti membri porta seco un fardello, un involto ed un commentario alla maniera di Cesare per salvarlo dalle onde de’ facchini che vanno e ven- gono…

L’interno della casa presenta uno spettacolo degno più del pennello che della penna. Il sacro e il profano, il nuovo e l’antico, si accozzano, si mescolano, si confondono. I confini delle proprietà sono violati. Tutto  è comunismo!

I più bei cristalli e le più vaghe porcellane si veggono a lato de’ vasi più immondi: accanto alle casseruole ed alla padella i quadri di decora- zione, il berretto di notte sul candeliere, il candeliere sul letto, i mate- rassi sotto il letto e non sopra, la chitarra vicino alla scopa, gli scaffali  di carte pieni di salami e di caci diversi, gli usci ingombri tutti da dover saltare per passarvi, in cucina le sedie a bracciuoli, ed in galleria le pentole e le pignatte. 1 Nè questo è il solo spettacolo! — Altro e più commovente presentasi all’esterno del palagio—D. Margherita (nubile donzella che sta fra i ventinove e i trenta) non sa staccarsi senza lacri- me dall’amato balcone, ove ba passato un anno, alimentando la ventot- tesima fiamma che dovea condurla a piè dell’altare — Domani! e l’ama- to giovane (studente in medicina) più non le starli di contro, domani! e tanta lava di amore sarà perduta in un oceano di dimenticanza, doma- ni! e invece del giovane amoroso, si vedrà forse rimpetto la calva testa di un vecchio dentista, forse un maestro di scuola; forse un erniario, oh Dio! forse un suonatore di corno da caccia o di violino.

Un corno invece dell’amore, un violino invece di un amante, un ari- do scolaretto ove era già il fiore degli azzimati damerini. Giusto cielo, quale atroce disinganno! Nè qui finisce la dolorosa istoria. Domani D. Rosina non troverà più al suo fianco la Capitanessa per cicalare un paio d’ore, mormorando con bella maniera. D. Lena non avrà più l’agio di sindacare l’entrata e l’uscita di un giovane che frequenta la casa della sua rivale, non potrà metter pecche sui vestire di D. Vincenzella e final- mente non avrà più il destro di quella seconda porta di casa così utile nel disbrigo degli affari domestici et de quibusdam aliis.

I misteri di una famiglia sono sì svariati e tanti che il volerli solo adombrare porterebbe fatica. Cotali misteri crescono come più rigoro- so è il sistema de’  genitori, come è più stretto il cerchio delle affezioni  e delle conoscenze sociali, come è più impacciato lo svolgimento delle idee ne’ giovani e più superstiziose le assuetudini, e come più si chiu- don le vie de’ piacevoli ed onesti diletti che distolgon la mente dalle oc- culte pratiche delle tortuose amicizie. Nella nostra Napoli, città sì ri- dente, sì gaia, sì sollazzevole all’esterno, abbiamo a noverare gran parte di famiglie e forse la maggiore che stimano preservarsi da qualsiasi maligna influenza di seduzione o di biasimo menando vita da orbi, fa- cendo il tempio l’asilo dei dì festivi, sdegnando ogni consorzio, proscri- vendo la lettura, il teatro ed ammettendo in casa ed a tutte le ore per- sone la cui frequenza sarebbe per altri gravissima colpa e che le più volte vestono l’abito incolto e dimesso e portano il capo inclinato come la Garisenda di Bologna o come il campanile di Pisa.

Ma per non dilungarmi molto dal tema soggiungerò che mentre l’interno delle case presenta nel dì 4 maggio questo strano accozza- mento di passioni e di balorderie, le vie della capitale presentano assai più nuovo e vivace spettacolo. — Basta gittare un’occhiata dall’uno all’altro capo delle maggiori strade per persuadersi che quello è il gior- no dello sfratto!! Enormi carrette s’avanzano, enormi per roba accu- mulata d’ogni! maniera e tratte da buoi, da ciuchi e da uomini, che il mio paese suol destinare per civiltà ad ufficio di bestie. Queste grandi cataste s’avanzano stridendo come macchine pirotecniche, vàn trabal- lando minacciando i pedoni di lor caduta, e soffermandosi quando av- vien che s’incontrino con altre più maestose piramidi ambulanti. Ecco  il caso delle montagne che s’incontrano!

Allora è uno sbarrar d’occhi, un pigiarsi, un urtarsi, un fremere, un bestemmiare. — Chi cederà — Abila o Calpe? La via è stretta e mentre i due carri s’arrestano, altri ne sopraggiungono e si arrestano dietro ad essi. La gente strepita per voler passare: i monelli sghignazzano e fan sibili da portar via la orecchie — i facchini s’arrovellano e ciascheduno pone in opera una diversa strategìa — Ai rumori della via i balconi e le circostanti finestre si popolano di osservatori — Sopraggiunge una ele- gante carrozza guidata da un ricco burattino che vorrebbe imporre a’ suoi fumanti destrieri tale un movimento, da farli saltare — Oh quanto gli tarda l’attendere!…

Alla fine, esauriti tutti i mezzi di aprire il transito di due carrette, uopo è che l’un d’essi retroceda e seco il ricco burattino co’ suoi fuman- ti cavalli. — Egli sferzali allora, e la carretta tra i fischi ritorna indietro.

Altrove lo spettacolo è più strano. Un carretto che retrocede ne inve- ste un altro, e come chi troppo in alto sai cade repente, così un armadio troppo alto locato precipita giù con gran fracasso, e mena seco a preci- pizio uno scrittoio, un cassettone, una culla ed un non so quale arnese di notte che contamina il crinito lucidissimo capo della più mansueta fra le umane creature che la moda, non so se per dileggio o per contra- dizione, chiama lion. Altrove le scale della nuova casa son così strette da potervi passare a stento la signora alquanto pingue in conseguenza di afflizioni represse — Allora vedi una specie di. scala di Giacobbe, ma non son mica angeli quelli che van su e giù per aria, ma son mobiglie che col mezzo di grosse funi vengon tratte su da un balcone e calale giù da un altro. E que’ che dall’alto grida al compagno di stare in guardia, e que’ che dal basso grida al compagno di non far lo scioperato. E taluna volta avviene che la fune onorata per lunghi servigi, si spezza, il casset- tone cade sulla via, rovesciasi quanto v’ era dentro e si dissemina a dir dello Scott come le avemarie d’una disciolta corona, e allora i monelli, pronti sempre ad accorrere ove è argomento di gridare e di far baldo- ria, mctton le mani sugli obietti e compion la scena.

Altrove più curiose avventure si manifestano. Il padron di casa fatto certo che il suo inquilino si è ben collocato e che nulla mancagli, gl’inti- ma di volergli crescere il pigione, questi se ne sdegna e non dandogli dritto il suo contratto di restare più a lungo, promette a se medesimo  di vendicarsene.

Queste intimazioni o congedi si danno a di 4 gennaio all’uno ed all’altro contrattante. Il di seguente se il padron di casa sponte non ha concesso altri giorni di dilazione al suo inquilino, questi leggerii sulla

porta del suo palazzo il succinto appigionasi che nel mio paese dalle due parole si loca appellasi si loca. E per quattro mesi il poveri uomo dovrà aprir la sua porta a chiunque si presenti con la parola è, e dovrà come uno scolare al maestro rispondere a mille dimande — E ad un di- presso il dialogo sarà e il seguente:

  • È buona l’acqua?
  • Cosi, piuttosto.
  • È acqua di Carmignano?
  • Non Io so.
  • A casa mia ho l’acqua di Carmignano.
  • Me ne congratulo.
  • Perdonate — il pozzo è profondo?
  • Lo domanderò al mio domestico.
  • Perdonate — Vorrei sapere quante canne di fune vi abbisognano.
  • Scusate — Compiacetevi di osservar prima la casa.
  • Grazie — Avete sole… — com’è esposta la camera a dormire?
  • Mi pare a ponente.
  • Eh! la mia camera da letto è a mezzogiorno…
  • Me ne congratulo.
  • A proposito la galleria è grande. Vi si possono formare due quadri- glie in sedici?
  • Non credo.
  • A casa mia, si balla ogni domenica.
  • Tanto piacere….
  • È astrico a cielo?
  • La sola camera da pranzo.
  • E la camera di letto ha una retrostanza? Piccola si.
  • Il mio piccolo gabinetto a strada Scassacocchi è magnifico. Quando seggo (con rispetto parlando) veggo il mare, le bocche di Ca-

pri….

  • Dal mio, Signore, non vedrete che la cima di albero di celte picco- le….
  • Quanto mi dispiace! — La cucina già è luminosa?
  • Alquanto.
  • Le fomacelle sono alla romana?
  • Non saprei, perché non me ne son mai servito. Io son solo e man- gio fuori di casa alla trattoria.
  • Io poi non potrei tranguggiare un sol boccone di trattore.
  • Tutto è abito..
  • Oh in quanto a ciò son rigoroso — Mia moglie tra le altre sue virtù,

che non son poche, sa fare il sugo di ragù tirato alla perfezione…

  • Me ne congratulo.
  • Non vi parlo poi de’ vermicelli al pomidoro. Potrebbero essere im- banditi a tavola regia….
  • Compiacetevi di veder la casa, perché son sulle mosse di andar via e chiudere.
  • Subito — Voi preferite o signore i vermicelli al pomidoro a…
  • Io mangio tutto.
  • Oh in quanto al mangiare io sono rigido anziché no. Vero è che noi in questa valle di lacrime dobbiamo mangiare per vivere, non vivere per mangiare, ma la proprietà de’ cibi mi piace e con un poco di sapore ed anche con una certa abbondanza.
  • Signore osservate bene dunque la cucina, perché, ve ne pregai già, ho fretta…
  • La cucina. è piccola…. è mal disposta. Il focolare dovrebbe star più prossimo alla finestra. Signore scusale, questo architetto esser doveva una bestia.
  • Sia pure, io non vi ho colpa..
  • Ed ora quante altre camere vi sono?
  • Nessun’altra.
  • Come! — Sei stanze e cucina!…
  • Certo.

A vicolo Scassacocchi ne ho dodici, loggia, mezzano, giardino, por- tone carrozzabile dispensa e cantina, ollima pe’ meloni — Signore vi piacciono i meloni?

  • Amico ho fretta — D’altra parte io vi ho bene spiegato da bel prin- cipio che la casa aveva sei stanze. E poi per cencinquanta ducati all’anno non credo si possa pretender di più…
  • Perdonate signore, non conosco il vostro riverito nome.
  • Giacomo a servirvi.
  • Favorirmi sempre — Uscite forse?
  • Ebbi già l’onore di ripetervelo.
  • Mi maraviglio — l’onore è mio — E da qual parte siete diretto?
  • Alla via de’ tribunali, e per affari di premura.
  • Andate a piedi…
  • No signore; non arriverei in tempo, prendo una carrozzella.
  • Quanto sono comode queste carrozzelle. A tempo antico v’erano…
  • I corricoli lo so, ma.,.
  • Erano incomodi Io so — Se volete compiacervi…
  • Vengo mi farò un pregio di accompagnarvi se lo permettete, io son

sulla strada.

  • Come vi aggrada, ma presto…

E poi sull’uscio le consuete noiosissime cerimonie, e le altre pria di montare in vettura, e le altre dopo esser disceso.

Ed ecco quanto avvien le più volte a chi amabilmente si presta a far vedere la casa nella quale dimora. I vostri visitatori vi guardan sempre d’alto in basso, attestano che la casa è mal costruita, mal disposta, che vi mancano i comodi indispensabili al vivere agiato, che non vi ha luce e finiscono col dirla un sepolcro, con maravigliarsi che v’ abbiate fatto dimora, col dimandarvenc conto e rimproverarvene, se occorre.

E poi non passa intero un dì e son lì sull’uscio ad assediare il pro- prietario, pregando e supplicando col danaro alla mano o con valida guarentigia per ottener la casa che hanno tanto disprezzata, e nell’ora tremenda, in quell’ora di orgasmo e di emigrazione che già innanzi ci sforzammo di descrivere, vi torna innanzi la figura pallida e lunga del vostro visitatore che dimorava nella forte casa del vicolo Scassacocchi.

Un caso ancor più curioso è il seguente. La famiglia di un così detto! strascina faccende abita un quartino mallo — Padre, madre, figli ed un cencio ambularne che diccsi serva son tutti di un calibro— gridatori, accaitabrighe, scialacquatori, mortali nemici d’ogni restituzione — Da che son entrati nella casa non han mai pagato un quattrino, protestan- do al padron di casa di esser galantuomini e mostrando l’ albero genea- logico della loro famiglia. E così il primo mese per essere stato scarso il ricollo, il secondo per non aver ancora introitalo non so qual cespite, il terzo per una malattia sopraggiunta alla figliuola primogenita, e così via via, promettendo sempre e non pagando mai. E gli anni passano, ed i proprietario si macera, e guarda, e scandaglia, e torna a guardare se potesse sequestrar loro qualche buon arnese o qualche abito, ma che? Un sequestro nelle piene forme non lo conpenserebbe delle spese. Fi- nalmente minaccia, indi prega, e disperatamente poi manifesta al suo inquilino di esser disposto a stendere un velo impenetrabile sul passa- lo, ma il fiero inquilino non s’appaga neppure del velo impenelrabile. Egli dimanda riparazione dell’atroce ingiuria che il proprietario gli ha scagliato.

— Ed è a me o signore che voi volete dar, quasi elemosina, il pigione che per ragioni sì gravi non ho soddisfatto? Credete dunque ch’io non intenda pagarvi che mi volgete un tal discorso? A me una elemosina! — La mia famiglia lode a Dio, ne ha fatte in altri tempi a chi non ne vole- va, e voi o signore parlate di alzar la mano. Mi meraviglio! io voglio pa- garvi e strapagarvi, io esigo che accettiate il pigione che vi devo, io    vi

ammonisco ad esser più cauto in avvenire parlando co’ miei pari.

Allora il proprietario va in collera. Adisce il Giudice, invoca tutte le Podestà, spende danaro a ritta ed a manca e munito de’ debiti poteri e della forza recasi nel suo stesso palazzo arma il portinaio e si presenta imperioso in atto come il Console Romano alla dimora di Giulio Sabi- no.

Ma l’inquilino tocco da tanta cortesia non esita pure un istante, rac- coglie intorno a se la sua famiglia, slanciasi al balcone e con mille geste e orribili favelle mette sossopra i vicini gridando: —Buoni vicini miei! quale assassinio! ci vengono a strappare dalla casa nostra, dalla casa che abbiamo tanti anni abitata. o mores! si trattano gli uomini d’ onore come ladri. Si caccia una famiglia dal suo umile ed onesto ricovero per pochi ducati. Vicini miei che orrore! Ho tre figlie zitelle, tre maschi senza impiego, andranno tutti a stender la mano nel mezzo d’una via. Oh figli! —

E qui altre voci Papà, Mammà, Tolò, Popò, Nanè, ninni e pianti sterminati e gridi acutissimi, e muover di braccia in tutti i sensi, sicché tutta quella famiglia stretta ed aggruppata insieme porge simiglianza di un gran mostro con cento braccia ed altrettante gambe, anzi io diresti meglio un Laocoonte attorniato da’ serpenti.

Sopraggiungono a questo i mediatori, tra i quali il fornaio, il macel- laio e la signora dell’ultimo piano, che non li vogliono lontani e non han deposto il pensiero di essere soddisfatti. Essi interpongonsi, parla- no accenti di pietà al desolato proprietario, lo stringono, Io esortano ad aspettare ancora un mese, una settimana, un giorno. Alla fine gli mo- strano che quella buona famiglia non troverebbe altrove un tetto, senza mezzi, senza danaro, che nessun altro padron di casa le darebbe ricet- to. A queste persuasioni si aggiunge il grido di tutta quella gente che lanciasi sul proprietario, ne afferra i lembi dell’abito, lo spinge, Io scuote, ma il proprietario è immobile e duro come una colonna di orientale granito. A questo l’inquilino si tace, richiama a sé la sua fami- glia e con atto tragico impone alla prole di ritrarsi e barricar la porta, indi si volge ai suoi carnefici e dice—Signori, io mi vergoguo di più ab- bassarmi innanzi a costui. Io potrei pagarlo ora, ma no, in coscienza noi posso, e poiché mi veggo astretto a svelare un segreto che tenevo racchiuso nell’intimo petto per delicatezza, io protesto o signori di non voler pagare costui perché non è il vero proprietario della mia casa.

  • Come? — Insolente! — Imbroglione!
  • Imbroglione tu…

E corrono certe espressioni di polso poco decorose.

  • Arresta.
  • Portatemi al cospetto del Giudice, dice l’autorevole inquilino, colà è il mio posto, colà parlerò.

Innanzi al giudice l’inquilino dimanda i titoli che danno al proprieta- rio il dritto di esigere il pigione.

A dirla breve il padron di casa è costretto dalla necessità, dalla dispe- razione e dallo strano sviluppo di tanta sfrontatezza e miseria a conve- nire col suo inquilino perché si contenti di lasciar la casa con sussidio  di qualche somma.

E cosi le più volte avviene a que’ proprietari che si lasciano illudere da belle proteste. L’inquilino che non ha terreno che il sorregga vi en- tra, vi forma il suo nido, e a snidarlo, in difetto di mitraglia, è d’uopo soccorrerlo di danaro.

Questo avvenir suole in una città, ove la miseria è talvolta un prete- sto per non adempiere a’ propri doveri, ove il lavoro non piace, e si pre- ferisce al vivere onesto il viver d’astuzie e di umiliazioni. Però avvien che si trovino inquilini che hanno abito di non pagare e padroni di casa che caverebbero gli occhi a’ Ioro inquilini, per costringerli a pagar la casa come essi intendono, e volgarmente le buone famiglie napolitane sogliono fra commensali noverare, oltre le persone che la famiglia compongono, il padron di casa — ed attestano che costui vuol mangia- re ogni dì e mangia più di loro!

LE CASE DI  NAPOLI

Quando ci avviene di entrare in questa nostra ridentissima città da per l’ampio bacino marittimo, il fabbricato delle napolitane case ci ap- pare con le svariate sue tinte, assiso intorno ad nna parte del pittoresco golfo, ma quando vi si entra per via di terra, lo ammasso delle case sembra arrampicarsi intorno ad un monte, ed affollarvisi ai piedi, men- tre in cima di esso un antico castello, ricordo di non antichi terrori, mi- naccia la città che s’addormenta a’ suoi piedi e la guarda come il cava- liere armato della favola, e non le parla che per la bocca de’ suoi canno- ni.

A notte profonda, quando lo spensierato e molle vivere del volgo si tuffa nel sonno, quando i bianchi origlieri sopportano il peso d’illustri e nobili coppie senza un bricciolo d’intelligenza, e quando il brio ed il suono delle parole de’ verbosi napolitani non è più, rompono il silenzio della notte le voci delle scolte di quel castello, che in sua favella dice alla dormente città — tu riposi ed io veglio!

Il mutarsi e lo avvicendarsi di tante dinastie ha impresso nelle forme della città il tipo della conquista, e l’arbitrio del più forte l’ha ristretta da un lato, slargata dall’altro, l’ha più fiate posta sossopra. Scorgi un apparente disordine ne’ fabbricati, pel quale ti sembra che le case sieno state vomitate dal Vesuvio, anziché distribuite dalla mano misuratrice dell’uomo.

Nell’antico Napoli che ha pur tanta copia di palagi e di bei fabbricati, come più innanzi diremo, le vie sono luride e tortuose, sebbene quella detta Spacca Napoli sia la sola per lungo tratto diretta che Napoli pos- siede; ma le vie che l’attraversano sono sì anguste e per elevazione di laterali case sì triste, ch’ei pare volessero que’ costruttori impedir la vi- sta del cielo agli abitatori, di quel cielo ch’è principal delizia nostra.

Tra gli altri i vicoli che per la loro tortuosità ed angustia posson dirsi le vene di questo corpo di edifici, sono per tal modo stretti, che rendo- no facilmente concepibile come potessero avvenire i duelli alla maniera di Edipo e Lajo, ovvero di padre Cristofaro, personaggio sì bello del   li-

bro Manzoniano. Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnuoli, Austriaci, tutti portarono voglie e disegni di viver diversi. Quindi usan- ze, forme dissimiglianti dalle precedenti; quinci favella, passioni, mo- rale, nazionalità tra lor differenti, ond’è che passioni, morale, favella non sono pregi scolpitamente laudabili tra noi.

Secondo l’imperar delle varie dinastie, le regie dimore cangiarono, e là dove elevossi il tetto reale accorsero i sudditi ed eressero templi e magioni. Castel Capuano, or carcere e tribunale, fu temuto e rispettato edificio. Castel nuovo raccolse altri Re, ed Alfonso vi rinvenne l’arco  del trionfo; quello di Poggioreale accolse la famosa Giovanna. Gli Au- striaci e gli Spagnuoli ebbero un palazzo sull’ingresso del quale l’aquila spiegava le ali, ed ora aquila e palagio più non esistono, poiché la nuo- va Reggia Borbonica abbatte l’antica rivale; e come castel S. Elmo dice a Napoli — Io veglio — la Reggia borbonica disse all’altra — Io regno.

Or le vie che da questo punto menano fino ad aggiungere il pittore- sco Posilipo sono se non rette, spaziose, e verso la riviera nette, fresche di alberi e di frondi, amiche ai diporti e fiancheggiate da case acconce nell’esterno vedere, pulite, eleganti nello interno, ma quando ti avvien di correre all’opposto capo di Napoli, cioè da Posilipo al Pendino, al Mercato, alla famosa chiesa dell’Annunciata, troverai usi, passioni e case che li faranno dimenticare il Napoli aristocratico presente, per menarti nello scurissimo Napoli magnatizio antico. Troverai famiglino- le meschine per fortuna o per vizi, abitatrici di palagi storicamente ri- cordevoli; appartamenti illustri, ove passeggia la miseria e l’ignoranza più crassa; corti interne, ove l’occhio vagava già di fasto in fasto, dive- nuto asilo di cenciosi, e ti avverrà di sentir dire, per esempio, da qual- che archeologo. Qui dove questa donnicciuola pone i suoi panni ad asciugare al sole, un Re Aragonese si fermò sul suo cavallo di battaglia, per aspettar che scendesse l’illustre principe di questo palagio posses- sore. 1

E li avverrà, a mo’ d’esempio, di trovare mura luride ed annerite dal fumo, ed uomini semi nudi con bisunte carni, ove fu già la dimora del Consigliere di Ferdinando I. Aragonese, Giovanni Miroballo; e troverai nella già splendidissima corte del palazzo di Fabrizio Colonna, in via di Mezzocannone, uomini poveri intenti a piallare e sgrossare il legno, e i bei giardini famosi ridotti in isterpi e tronchi e secchi arbusti. Infine tutti i già sontuosi edifici solidamente costruiti che dccoravan la vec-

1 Queste parole Don formano che una semplice allusione. — Un palazzo ricorda in Napoli  il fatto che Diomede Cara fa conte di Maddaloni venne atteso nella corte della sua splendida casa da Ferdinando I. Aragonese, Ma quella dimora lo ò ancora oggidì per opera del suo possessore.

chia Napoli, tra quali molti che serbano ancor le tracce dell’arco acuto  e della gotica sveltezza, come quel diruto palazzo che si traguarda non molto lungi da quel de’ Colonna nomato innanzi, e quello che non lungi dalla piazza del Pendino mostra ancora oggidì le sue leggiadre marmo- ree colonnette, in massima parte ridotto ad uso di famiglie private, of- frono una distribuzione interna di camere che rende il vivere disagiato, che divide e suddivide una vasta sala con soffitto a grandi rosoni in 10  o 12 camerette o bugigattoli senza luce e senz’aria, che pone la cucina accanto alla stanza a dormire e trasforma il più nobile appartamento nel più ignobile ammasso di catapecchie, alle quali si va per una ampia scala marmorea con balaustre dello’ stesso marmo e scaglioni smozzi- cati e smossi e mura laterali tappezzate di cadenti tele di ragno. E di questi grandi e be’ palagi elevali con pietre di piperno e di travertino ti sarà tal volta difficile di conoscer l’autore, perocché alquanti artefici to- scani nelle politiche vicende delle fiorentine repubbliche, campati in Napoli, eressero per saggio del valor loro parecchi di cosiffatti casa- menti e lasciarono ignorato il nome dell’autore. Ed in questi edilìzi tu scorgi talora le finestre e le aperture in generale non poste ad eguale distanza fra loro, perché forse ai comodi interni ovvero alle necessità della luce, quelli architetti sacrificavano le proporzioni più o meno uni- formi del prospetto. E qui dee considerarsi che stando i palagi a fronte l’uno dell’altro in vie strettissime, era d’uopo ottenere il beneficio della luce con quell’espediente che paresse migliore.

Tali condizioni risguardano unicamente la riduzione di antiche case magnatizie in piccole abitazioni, ma quelle che risguardano le case di moderna costruzione che s’incontrano nelle vie del Basso Porto 1, o de’ tribunali o del Mercato, offrono altresì partizioni e sconci più curiosi, e più madornali. Ingressi angusti (detti portelle) ove chi entra è costretto a transigere, o ben intendersi con chi esce, scalette ove il cadere col volto innanzi o precipitare all’indietro è facilissimo, il cadere lateral- mente impossibile; camere ove si sale ove si scende e dove le pareti as- sumono sempre forme trapezoidali, ma purché v’abbia la così detta so- letta ove far attendere il servo, poco monta che il suolo non sia matto- nato, che grosse ed informi travi sieno la decorazione del soffitto, che da una stanza scorgasi agevolmente quanto si fa in tutte le altre.

1  Nome di una strada.

Il più ristucchevole degli errori si presenta nella cucina, là dove si manipolano i cibi, alimento del corpo umano, ove regnano le tenebre e manca lo scarso volume d’aria bisognevole alla respirazione.

La cappa del cammino che è destinata in arte a raccogliere il fumo e metterlo per la sua via, serve invece a dilatarlo, i fornelli o non ritengo- no il carbone o non han capienza a contenerlo, la luce vien soventi vol- te dal lato che men se ne giova e (questo è poi il compimento dell’ope- ra) la doccia sottoposta a scolo delle acque o materiali fetidi e sporchi è strettamente legato al focolare, e i cibi si cuocono, e si compongono i più ghiotti manicaretti sull’assidua esalazione delle pestifere materie e degli escrementi.

E gli uomini che raddobbano, elevano e distribuiscono queste case sono architetti e talvolta vecchi ingegneri che vi citano 500 opere di tal natura per lo manco, e vi alzano a cielo per esempio la casa del barone B… ove ciascun pianerottolo di scale è munito del corrispon dente foro per accogliere le umane miserie; e vi citano la casa del barone G…. che ha il gran vantaggio di un loggiato superiore, dal quale si scorge Napoli tutto e dal quale assiduamente cola nelle sottoposte stanze l’acqua che l’inverno sprigiona dalle sue cateratte. E vi citano la casa del negozian- te R ove si comincia a sa lire con tanta dolcezza ch’ei ti par di andare  su’ cieli, e poi si finisce col raccomandarsi l’anima e pregare il padrone di casa che ti tragga su con le carrucole e ti dia roano nell’entrare, ove sull’uscio sta l’ultimo scalino di due palmi e mezz’oncia.

Eppure nelle esterne sue forme la casa appresentasi una scuola d’architettura. Tutti i cinque ordini. — Vignola, Barozzi, Scamozzi, Lio- nardo da Vinci, Bramante, il Sammicheli, qualche cosa del Demarchi qualche ghiribizzo del Borromino, qualche linea alla Michelangiolesca, tutto tutto il bello, l’utile e il dolce si accoglie in quella facciata da’ bianchi stucchi e dal cornicione centinaio.

Ma ciò non basta: vedi in una via cento case, e son tutte diverse per livello, per istile, e per ogni altra parte di prospettiva, talché accanto alle sobrie e scelte linee di un valente architetto, trovi le storture di un muratore arricchito che vuol farla da piccolo genio, e quell’ordine, quella uniformità che tanto s’ammira nel fabbricato di Torino ed in molti fabbricati di Londra vien respinto a Napoli, perché monotono a vedersi, e ciascun proprietario si diverte a pitturar la sua casa, qual di bianco, quale di rosso, quale di cilestro, quale di un color di feccia!

E qui non sia vano il ricordare che alle stesse chiese piene di antiche decorazioni e dipinture suol darsi di bianco, per modo che l’oscuro sof- fitto sembra piombarti sul capo: prova ne sia l’antica chiesa di S. Pietro a Maiella. V’ha è vero instituito da gran tempo un consiglio edilizio che sopraintende a siffatte cose, e che dovrebbe almeno sotto la forma esterna impedire che si scorgessero in via Toledo certe case a fette o a mosaico, ma egli è ben da sperare che siffatti sconci spariranno, come molti già ne disparirono.

Di cotali errori madornali derivanti da poco studio, e da molta pre- tensione riboccano eziandio altre cospicue città, ma Napoli nostro ha il solo privilegio di porre la doccia detta sotto i fornelli e dar pabolo ad altre preziose abitudini che mostrano non tanto l’imperizia dell’inge- gnere quanto la sozzura di lui e de’ proprietari. In tutte le case edificate in tal guisa cercheresti indarno un camminetto per riscaldare le stanze, perché nell’inverno ponsi un caldano pieno di fetido carbone acceso, nel mezzo della stanza, e i nostri pacifici cittadini si abbracciano a quello ed assonnano fino a che suona la nota campanella e passano da quella pira all’ampio letto carrozzabile a due, mobile indispensabile ad un buon matrimonio. Però case di tal fatta sono abitate da uomini di tal natura, ed è vero pur troppo che la belva conosce il suo covile; e fino a che la civiltà, cui si fa tanta guerra, non avrò snidato le superstizioni e le vecchie assuetudini; non di trent’anni vi sarò d’uopo a riformare abi- tato ed abitatori, ma di trenta secoli. Un solo mutamento senza agita- zioni e senza disordini è avvenuto in quelle contrade, ed è il seguente.

I discendenti di antiche memorabili famiglie che la storia ha  nelle sue pagine celebrato, abbandonarono l’antico tetto de’ padri e le con- trade illustri, per vivere soventi in piccolo e stretto domicilio del nuovo Napoli. Essi sconoscono cosi il loro principio, perché la moda Io vuole; e molti, noti oggidì soltanto per vizi, ricordano passando innanzi alle superbe mura delle loro case che quelle più loro non appartengono.

Essi visitano i marmorei sepolcri de’ loro antenati nelle chiese dell’antico Napoli, mentre vivono immemori d’ogni virtù nelle anguste case del Napoli nuovo. Essi non furono più nobili, dacché obliarono e smarrirono le tradizioni di famiglia. Una caduta nobiltà non può ali- mentar nobili passioni ed eccitamenti. Ella giù specchio al volgo, ne di- vien riso e disprezzo, e il volgo si fa col loro esempio peggiore.

La inedia classe la quale oggi in tutta l’Europa dà prova di coltura, di onesto viver sociale, di potente volontà, è divisa. Una parte (e sono ap- punto gli abitatori delle case del vecchio Napoli) pensa a metter su un bel letto di rispetto 1 e trovarsi di buon’ora in famiglia; l’altra vuole il progresso senza voltar gli occhi addietro, e lo vuole in un’ora e quindici minuti. La parte dalla intelligenza forte ed onesta è sola. Queste consi- derazioni offre a chi ben vi guarda quel formicolaio di case che com- pongono la clamorosa città di Napoli!

CAV. CARLO T. DALBONO.

1 Dora ancora in molte famiglie l’uso ridicolo di dedicare una camera al cosi detto letto di rispetto pien di panneggi e dorature, letto ove niuo individuo della famiglia riposa, poiché  i coniugi, a mantenerlo intatto, dormono io altro letto alquanto disadorno e negletto.

IL 4 MAGGIO 1

Spuntò! con preci ed ansia L’attesero l facchini, L’attesero le nobili.

L’attesero i zerbini, Tutta fra dolci palpiti L’attese la città!

L’involontaria vergine Alfin trovò il consorte, Appena che raccolsero Del nuov’ostel le porte, Un bel vicino, un giovine, Che al babbo parlerà.

Giorno di tanto giubilo Perché non fu finora Tra tanti nostri

A pollini Encomiato ancora? Perché nessun Romantico Cantato ancor non l’ha?

E in questo mese amabile Concitalor del canto.

Se dessi ancor si tacciono, Se in questi di d’incanto Di tante voci al sonito Mista la lor non va; Vergin di lodi, e biasimi Ecco con bel coraggio

lo primo innalzo un cantico Al quarto di di maggio

E almeno avremm’il merito Di bella novità.

Dalla Marina al Vomero Dal Mercatello al Molo Dai Vergini a Posilipo Dall’uno all’altro polo,

Tutto in subuglio e strepito In questo giorno appar!

La procellosa, e stridula Letizia de’ facchini.

L’ansia, la tema, i palpiti De’ miseri inquilini Mentre la for mobilia Ad altri han da fidar!

Tutto io tal giorno osservasi Truffe, magagne, e pianto, Risse, cadute, e sibili,

E de’ somari il canto. Le frante suppellettili E il barbaro pagar!

Oh quante volle un mobile Contro d’un altro urtato.

Rovesci entrambi caddero, Subir l’estremo filo.

Ed il facchino esanime S’assise io meno a lor!

E giacque immerso io lagrime Tremulo al par di fronda Segno di sguardi Innumeri,

E di pietà profonda,

E d’ogni uman sussidio Della moneta in fuor!

1 Nel fine di rendere quest’opera sempre più utile e variata, è creduto far dividere in due parti l’articolo che à per soggetto il 4 di maggio; trattandosi nella prima la dipintura del costume e di quelle scene domestiche che sogliono avvenire fra i proprietari di case e gl’inquilini; quando nell’altra si accenna ad una specie di descrizione storica delle case di Napoli. Oltre a ciò il lettore mi saprà grado, Io spero, di leggere qui, come conchiusione di questo articolo un’ode, scritta dal colto giovane napolitano sig. Carlo Antonelli sul soggetto istesso ed imitata in parodia da quella del Manzoni-il 5 maggio. (L edit.)

È giusto l’oso? equissima Mi sembra e bella usanza: Ch’egli è un solenne tedio Mai non cangiar di stanza, E per ristesse camere L’orme ogni di stampar 1 Lo so ben io, che a scorrere Sempre l’istessa soglia

Mi danna un fato despota O voglia, o che non voglia; Lo so ben io che spasimo Sia non poter cangiar!

Oh quante volte al tacito Passar d’un giorno inerte Volgendo il guardo languido Alle finestre aperte

Sempre le note immagini Lasso! degg’io mirar!

Lo sa colui che capila Tra pessimi vicini

Tra il suono dell’incudiui Di flauti, e violini,

E tra il contuso strepito Di cocchi, e di villan:

Che tuttogiorno il (impano Si sente martellato,

Ne scorge un sol rimedio A cosi tristo fato,

E cerca in tanti triboli Prode remote invan! A solo in tanto strazio

Ei prende un po’ coraggio Pensando al di lietissimo Al quarto di di maggio, Che in più spirabil aere Pietoso il porterà.

E dal fracasso assiduo Per cui Toledo è bella S’avvierà sui floridi Sentier dell’Arenella, Ove silenzio placido Al chiasso supplirà!

Bello gentil benefico Giorno a far dono avvezzo,

Scrivi ancor questo, allegrati, Che un don di maggior prezzo Del dono da te fattomi

Farsi giammai non può!

Per te un atroce giovine, Che colla sua viola Ognor ti tira l’umido T’affanna, e ti desola Dal tetto a me limitrofo Alfin s’allontanò.

Carlo Antonelli

Deh! mira, egli cantò, spuntar la rosa Dal verde suo modesta e verginella,

Che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa. Quanto si mostra men tanto è più bella.

Non leggevamo un giorno questi immortali versi del nostro Torqua- to, e se non fummo indiscreti come quel galantuomo di Paolo quando leggeva gli amori di Lancilotto, volgemmo almeno un pensiero alle no- stre Driadi, alle nostre venditrici ambulanti di fiori.

I fiori! Argomento immenso, oceano d’idee, di meditazioni e di con- siderazioni. Direi quasi non esservi libro in cui una volta almeno non entri il fiore: un poeta esordiente incomincia a cantare il fiore, rosa o malva che sia; una donna bella è un fiore vezzoso, una donna giovane è un fiore fresco, una donna ricca è una camelia, una donna povera è un fior di passione, tutte le innamorale sono gigli o mammole (?) le vec- chie sono fior di camamilla; un fanciullo che nasce è un fiore che sbuc- cia; un giovine elegante è un narciso; un uomo ricco è un tulipano; un vecchio è un papavero, eccetto se volesse far all’amore, ché allora si converte in ipecacuana.

Ed uno de’ belli dori è la fioraia, perché la fioraia sta al fiore come il guanto alla mano; ella che avvicina tanto il fiore; che lo ha continua- mente tra le mani; che lo vagheggia, lo stringe, lo cura, direi quasi   con

1 Vi han benanche i venditori ambulanti di fiori ma a noi basta intrattenerci delle fioraie; primamente perché il numero degli uomini è minore in confronto di quello delle donne, in seconda luogo perché essendo tutti di un uffizio medesimo, basta parlar delle une per intender degli altri; e principalmente perché nulla essendovi che rilevi tra gli uomini, ha in cambio il nostro cuore e la storia de’ nostri costumi maggiori e più vere ragioni a prò di queste poverette.

amore materno, potrebb’ella non dividerne le glorie, le pene, il desti- no? — Osservatela. Questa giovinetta, che non aggiugne forse peranco  il diciottesimo anno, ha il suo grembiule cilestro, una ciocca scinta del- la chioma negligentemente messa, ovvero coperto il capo da un fazzo- letto, per lo più scalza, con un canestrino sotto il braccio; uno o più mazzi di fiori Ira le mani, ben disposti ed acconciati tra calici di verdi foglie; ed un sorriso eterno sulle labbra…. eterno come il sorriso del fiore! La fioraia corre un sentiero pericoloso e tribolalo della vita, e, come interviene quaggiù, circondata di rose, semina la sua strada di spine, sulle quali passa spensierata e quasi senza avvedersene.

Questo delle fioraie può annoverarsi tra i piccoli mestieri abbondanti nel nostro popolo, anche troppo abbondanti; perocché disgraziatamen- te in grandissima parte del basso popolo napolitano l’amor dell’ozio e però la cupidigia d’un guadagno ottenuto a poco stento assai predomi- na sull’amor della fatica e l’onesta, e sia pure scarsa mercede, bagnata da onorato sudore, ma non di rimorsi o pentimenti coperta. In altro ar- ticolo che fa seguilo in quest’opera avremo a dilungarci dippiù su tali considerazioni, bastandoci solo qui far notare come la fioraia potrebbe vivere assai più onoratamente dell’arcolaio, della rocca o del telaio… ma il fiore è bello, elle dicono, e sanno che la loro mercede si acquista con poco; e spesso nasce pel fiore e non dal fiore!

Lunghesso la strada Toledo e precisamente agli angoli delle strade principali, o sotto qualche portone son collocate alcune panche di le- gno a scalini, sopravi disposti i fiori in diverse guise, che in Napoli chiamano posti.1 Quivi comprano all’ingrosso le fioraie e poscia vendo- no in piccoli mazzolini i fiori. Ma questo non è il loro più importante capitale.

La fioraia generalmente è bella o almeno avvenente, come leggiadra e piena di moine è la modista, accigliato il commerciante ec. perocché è pur mestieri che l’uomo secondi la popolare opinione ed a talune esi- genze del suo stato si conformi. Infatti raro è che si affidi una causa im- portante ad un avvocato bellimbusto o una difficile cura ad un medico vagheggino; e siano pur certi come le nostre belle leggitrici assai più volentieri affidino i fasti del loro corpo e del loro capo ad una snella e flessibile madamina che ad una vecchia modista somigliante piuttosto ad una levatrice. La fioraia dunque conosce troppo questa verità e sa

1 Posti o più volgarmente puoste diconsi queste o simili panche o baracche io cui  si vendono dori, frutti, castagne, poponi, insalata ed altri commestibili, onde puoste de verdummare, de fruttaiuolo de castagnare, de mellonare ec, ec. La roba che si vende a’ posti è sempre migliore di quella de venditori ambulanti, benché, in proporzione, si paghi a maggior prezzo.

bene che il fiore brutto passa inosservato e spregiato.

Agile come una navicella costeggia gl’ingressi delle principali botte- ghe e negozi tra il largo S. Ferdinando e l’angolo della strada di   Chiaia

1. Svelta come una ninfa, leggiera come una corifea di S. Carlo, saltella per tutti gli angoli della grandiosa e sempre rumoreggiante Toledo, quando il bel raggio del sole ravviva il nostro orizzonte; perché il fiore non germoglia che al sole; svolazza come un uccelletto per tutta la ma- gnifica strada di Chiaia o del Platamone, offrendo i suoi fiori ovvero gufandone per i magnifici cocchi che numerosi traggono al passeggio; 2 ed in ispecie al largo della Villa Reale. Della quale comeché sia avvenu- to nominarla, vogliam dire alcuna cosa brevemente.

Tra le belle passeggiate pubbliche merita fuori dubbio principal luo- go la Villa Reale 3 posta lungo la riviera di Chiaia. A. renderla amena e deliziosissima concorrono la natura e l’arte, e direi quasi di soave am- brosia la profumi, e quelle fronde e quelle erbette allegrando sorrida, il genio divino del Mantovano e del Sorrentino poeta, i cui busti veggonsi quivi in be’ tempietti di marmo collocati, i quali se non van noverati  per arte tra i sublimi monumenti, lo son certo pe’ nomi che rimembra- no. Molti e magnifici sono i monumenti d’arte che adornano questo de- lizioso giardino, di che abbondevolmente ragionarono gli scrittori, e moltissimi sono gli opuscoli, le passeggiate, i versi, le guide ec. sulla Villa Reale, di qualità che soddisfacendo abbastanza la curiosità    dello

  1. 1             Il nome di Chiaia si dà propriamente alla spiaggia tra il culle di Pizzofalcone e di Posilipo. Si chiamai questo luogo Plaga Olvmpica presso gli antichi. Si disse ne’ bassi tempi playa e plagia d’onde le voci italiane piaggia e spiaggia. Nell’idiotismo napolitano il pia è spesso convertito in chia ed il già in ja.

Galanti. — Napoli e Contorni.

  • 2         Volgarmente Chiatamone. Si vuole da alcuni questa voce discesa dal    greco  Piatamun.

Altri la dissero Platanone, supponendo che vi fossero stati piantati platani.

Galanti. — Op. cit.

  • 3           Lunga 4509 palmi e larga 220. La prima metà di questo superbo passeggio fu fatta nel 1780, la seconda vi fu aggiunta nel 1807.

Galanti — Op. cit. Nell’epoca da Novembre 1831 a Febbraio 1832 vi si aggiunse dippiù al di fuori, dalla parte di Mergellina un’altra specie di Villa, detta Villanuova della estensione di palmi 1210 di lunghezza e da 150 a 250 di larghezza, che arriva tino a Mergellina, e precisamente al sito chiamalo la torretta a Chiaia. E ci irò solo per darne relazione, imperciocché questa nulla presenti né di ameno nò di pregiato, né abbia menomamente a che fare con l’antica Villa, null’altro componendola che alberi infruttiferi fra secchi cespugli ed in terreno arido ed incolto; però non altro fa che allegrare vie maggiormente la vista di chi, passeggiando il grande stradone della riviera ovvero cavalcando pel marciapiede che fiancheggia la grande inferriata dalla parte della riviera medesima, il bello ordinamento degli alberi osserva, ov- vero da Posilipo volgendo lo sguardo verso l’incantevole quadro che presenta il golfo di Napoli e la pittoresca cuna del Sannazzaro, vede un sol gruppo verdeggiante, come ad   in-

canto, in que bellissimi siti levarsi.

straniero, se pure ve ne abbia che un sì ammirato e dilettevole sito non ancora conosca, ci dispensano da ragguagli eterni e vecchi e più ancora fuori luogo. Noi non abbiam che a gittar due parole sulle passeggiate.

Quand’anche il nostro bel cielo, che per verità in taluni giorni non sappiamo che cielo sia, perché in un punto stesso è torbido e sereno, piove e splende il sole, come fa freddo spesso nel luglio, e caldo nel di- cembre, quand’anche, dicevamo, il nostro bel cielo è piuttosto brutto e nuvoloso, la passeggiata alla Villa dilettevole si rende. Però non è a dire quanto grata e soave riesca allorché risplende una di quelle limpide giornate d’inverno, le quali davvero, perché fanno interamente dimen- ticare il rigore della stagione, al nostro clima il nome meritarono di eterna primavera. In queste, dall’un’ora dopo mezzogiorno infino alle quattro incirca, e precisamente ne’ mesi di gennaio, febbraio e marzo, animatissimo è il passeggio, ove il fior fiore delle nobili famiglie e gio- ventù napolitane conviene, e come a maggior pompa del bel giorno, quanto vi ha di più splendido ricco e magnifico pompeggia, di tal che quel lusso farebbe tenere quasi impossibile esservi ne’ quartieri più re- moti della capitale, in quel giorno, in quell’ora medesima una meschi- na famiglia, che, in fondo di un covile, è priva financo di quello che Dio dà a tutti — la luce! —E così interviene nel, le grandi città.

A più magnifico e grato spettacolo, nel bel mezzo della Villa una ben ordinata banda militare, collocata in apposito steccato messo a cerchio, fa udire, a brevi intervalli, le melodie de’ nostri sublimi maestri, ed è bello il vedere la calca che le fa corona, e quella che dall’un capo e dall’altro del giardino ad un punto stesso, accogliendosi, di due fiumi rende somiglianza che per opposte vie in un mare medesimo mettan foce. Lieto o mesto, e sempre soave, quel suono discende ne’ cuori, e le sensazioni che di leggieri scorger potrebbersi nel volto di ciascuno da- rebber luogo ad innumerevoli osservazioni poetiche o fisiologiche. Nuova per altro non è questa usanza della musica alla Villa, anzi all’epoca della sua fondazione risale, secondo questo che leggiamo nell’opera di Giuseppe Galanti, intitolata Napoli e Contorni.

«Ne’ primi anni in cui fu fondato, questo passeggio veniva illuminato a giorno un’ora dopo tramontato il sole, per due mesi dell’està. È im- possibile descrivere il piacere che recava un tal colpo d’occhio, la musi- ca che vi si ascoltava, e la moltitudine della gente che vi accorreva. I venditori di piccole mode, aprivano i loro botteghini 1  ed una specie   di

1 Ora non più veggonsi cotesti venditori di piccole mode; solo nelle sere di state vedesi qualche tavola, a modo di riposto, sopravi dolciumi, arance, ciambelle ec. appartenenti alle botteghe da caffè, che son due nella Villa, le quali inverò fan pagare un po’ cari quei rinfreschi, (neanche ottimi) perché il piacere nel mondo si sa bene che è sempre scarso e

esultazione generale animava la popolazione.»

E così si vede come tutte le costumanze ritornano — Omnia rena- scentur — e così volesse Dio che ritornassero le buone soltanto!

Ma assai più poetico e d’ineffabile soavità è lo spettacolo che offre la Villa nelle belle sere di state, e precisamente ne’ mesi da maggio ad agosto, quando nel suo pieno splendore il bel lume rifulge della casta Diva dell’affettuoso Bellini. L’istessa moltitudine, le stessi illustri, ele- ganti e scelte persone e la musica stessa, ma che in quell’ore silenziose assai più dolce all’animo favella e fra tenere imagini o dilettevoli in un’estasi voluttuosa l’avvolge e il trascina.

Ed oh in quelle ore tranquille quante dichiarazioni di amore, che vanno via come il soffio di vento che agita le fronde; quante rimem- branze di fiamme moribonde, quante ombre vaganti di tradite che come lo spettro di Banco appariscono tra quelle fronde a turbar la pas- seggiata decoro ex Ganimedi; quante incipienti fiammelle divampano allo stridere del conosciuto abito; quante fiaccole che riverberano più del gas de lampioni; quanti rimproveri!

Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci

quanti spasimanti che sospirano sullo chàle adorato della loro bella, o sposa futura, che aspetta altri ducali quattro al mese di amore, quan- te vezzose modiste svolazzate da’ loro magazzini, quanti lions odorosi, quanti dandy spiritosi, quanti napolitani — inglesi vestiti di o bigiac- chi bianchi, che stan loro tanto bene quanto l’elmo di Mambrino sul capo di D. Chisciotte; i quali anziché seguitare l’elegante e stimato co- stume della propria patria, amano farsi segno alla beffe; quante Susan- ne fuggitive dai loro vecchioni, quante Ninfe smarrite, quanti Satiri co- gitabondi, quante Amarrilidi notturne quegli antri onorano, in cui Cu- pido stesso non di rado per ispegnere la sua face a penetrare consente; quanto diletto, quanta poesia, quanta filosofia e quant’altre cose che con poca coscienza ci farebbero dimenticare affatto le povere fioraie che ci aspettano! E vogliate perdonarci l’episodio un po’ lunghetto.

costa assai.

Ci troviamo dunque al largo della Villa Reale e precisamente verso le due dopo il mezzogiorno di una di quelle splendide giornate d’inverno che dicemmo, ed ecco fin sotto l’ingresso, una schiera di costoro vi as- sedia, vi stringe, v’incalza, vi obbliga a prendere il suo mazzolino o il suo fiore; e quando siete assolutamente determinati a rifiutarli, vi col- pisce di pugnale…. sì, di pugnale, ma non come Claudio Frollo ovvero un sicario delle Notti Romane, ma con gli steli del suo fiore, ma come  lo sguardo d’ una povera orfanella, come un dolce ricordo dell’amico che parte; sì che quando credete lei essersi allontanata, sul vostro pet- to, tra la caroiciuola ed il soprabito, trovate piantato il suo stile di fiori. Che fare allora? Sarete generosi pagando alla poveretta la tenue mone- ta onde vive, ed ella ve ne ringrazierà col sorriso del fiore; sarete così crudeli a discacciarla e calpestare la sua fragile offerta, ed ella non muoverà doglianza, ma sì ancora vi saluterà, rinunziando dippiù al me- schino compenso. Talvolta i fiori le vengon pagati il doppio ed il triplo ed è agevole l’intendere come accada ciò, quando una brigata di giovi- nastri non vede nella meschina che un trastullo d’invereconde facezie. Oh! ma chi mai non paga il suo fiore alla povera fioraia, finché ha un prezzo?

Eppure ecco un barbaro e svenevole che esce dalla Villa istessa, la povera fanciulla, com’è suo costume, correndo gli pone il suo mazzoli- no sul cuore, e colui non altro compenso le dà che spargendole beffar- damente sul viso una boccata di fumo della sua foglia fragile e passeg- gierà nulla meno del povero fiore 1; egli, vuoto di pensieri ed annoiato probabilmente come la sua mente tapina: e la poveretta sorride, sorri- de sempre, ed a quel sorriso aggiusta piena fede chi nella sua vita non ha mai meditato un momento, chi non ha saputo mai presentarsi al pensiero lo stato del comico che lasciando il padre moribondo in casa, corre a divertire il pubblico con le sue facezie. Credete voi ch’ella nulla saprebbe leggere in quella stessa boccata di fumo che le è stato gettato sul viso; la fragilità del fiore, la brevità del sorriso, l’annientamento morale? Ella ride e diverte il pubblico nella meschinissima scena della vita, e l’onestà e il pudore vati soffrendo un dì più che l’altro, fra non mollo avrà anch’ella un cadavere in casa, quello della virtù.

1  Vedi la figura.

Infatti noi ci arrestammo alla metà dell’ottava, che segue così;

Ecco poi, nudo il sen, già baldanzosa Dispiega: ecco poi langue, e non par quella, Quella non par che desiàta avanti

Fu da mille donzelle e mille amanti.

ciò che equivale alla flebile esclamazione di Giobbe — «quasi flos egreditur et conteritur» — e vuol dire che il fiore onde parliamo non è quello che pompeggia e muore sul seno pudico della giovane sposa, ma quello che si sfronda e calpesta fra i vortici della danza, o tra il baccano dell’orgia, e quando lo sguardo della misera giovanetta, raccoglitrice oggimai non più di fiori ma spesso di frutti, non si rianima più che alla vista d’una vile mercede, quando l’avvilimento ha improntato delle sue dita di ferro le fresche gote di lei, allora che rimane a dire della fioraia?

La guancia un di si bella Più non somiglia il fior!

e questo è un gran benefizio di un piccolo mestiere!

ENRICO COSSOVICH.

L’arte di beo Maneggiare e addentrare i cavalli, da i tempi più antichi, e fino al presente par che solo ne’ napolitani si trofi perfetta; e particolar- mente ne’ nobili: che però non senza ragione in- nalzatane per impresa il cavallo.

CELANO.

GLI antichi furono i primi a far raro uso de’ cavalli a’ carri di trionfo  o di funerali, il fasto poi indusse ad usarli parimenti per le carrozze,  che oggi sono portate a tanta magnificenza ed a sì gran numero.

La carrozza fu inventata per viaggiar comodamente e vuoisi che essa, tale quale ora si costuma, salvo le modifiche apportatevi dal progresso e dal lusso, sia dovuta alla Francia, usandosi da principio solamente per l’interno delle città. E però alcuni autori osservano che allora non eranvi in Parigi che due sole carrozze, una della Regina e l’altra di Dia- na figliuola naturale di Errico II; e ricordano come cosa memorabile che il primo ad ottenere il permesso di averne una fu Giovanni di Lavai de Rois Delfino, che per la sua smisurata grassezza non poteva più viaggiare a cavallo.

Or se i primi a godere del piacere di andare in carrozza furono Impe- radori, Re e Principi di altissimo lignaggio, è mestieri convenire che nobilissima fin dal suo nascere sia stata l’arte del cocchiere; tanto mag- giormente che anche a’ nostri giorni Sovrani, Regine, Dame e nobilissi- mi signori anzi che tenerla in ispregio, amano di guidare a loro posta i cavalli delle carrozze e prendere non poco piacere da questo esercizio cavalleresco.

Dal che si può argomentare che i primi cocchieri dovettero essere persone distinte e di qualche rango, poiché ad essi era affidata la vita di un Monarca, di un Cavaliere o di una illustre Principessa; e che poi, a mano a mano aumentate le carrozze, i loro conduttori dovettero, se  non altro, essere almeno scelti fra persone di nota probità. Ma la   ster-

minata quantità di carrozze che ora sono uscite ànno siffatta mente av- vilita quest’arte, che, dovendo ciascuna di esse avere un conduttore, ne ànno fatto un mestiere, ed ogni mozzo di stalla, ogni mulattiere, ogni vagabondo si pone a fare il cocchiere: ed in siffatto modo essa è caduta in disprezzo quando che prima era nobilissima.

Però l’infinita moltitudine che vi à di cocchieri li fa tenere in quel si- nistro concetto che di loro oggi si forma; e basta dire esser cocchiere, che viene tosto tenuto per una canaglia, persona piena di vizi, ceto di mala fede e peggio.

Pur nulladimeno i cocchieri napolitani, fin da tempi antichi, sono ce- lebrati come valentissimi in quest’arte ed il Gelano, da cui ò tolta l’epi- grafe di questo soggetto, fa rimontare questo nostro privilegio fin da’ tempi più remoti, dicendo

«che fosse stato antichissimo genio dei napolitani il domar cavalli; e che perciò a Nettuno avessero dedicato un tempio, come primo doma- tor di quelli.» 1 Ed in altro luogo aggiugne vedersi ancora «per antica arma della nostra città un cavallo senza freno; e credo che l’alzassero o per Nettuno o per Castore e Polluce, che adoravano, essendo che questi erano stati domatori di cavalli.» 2

Ma lasciando stare agli archeologi ed agli antiquari il merito di defi- nire gli astrusi misteri di tempi remotissimi; è indubitato che i nostri cocchieri, sia perché da fanciulli si mettono a guidare i cavalli delle car- rozze, sia per la pratica che tuttodì ànno di condurre le carrozze per la popolosa Napoli e per strette ed affollate strade, o sia per la perspicacia dell’ingegno che naturalmente essi tengono da questo nostro salubre e delizioso clima, portano su tutti quelli di qualunque nazione il vanto di sapere con arte finissima, con la più perfetta perizia e con una destrez- za inarrivabile domare i cavalli e guidarli sotto le carrozze. — Infatti la perizia del cocchiere napolitano va tant’oltre che egli vi saprà dire fran- camente che il cavallo nato nelle Puglie è più spiritoso di quello nato negli Abruzzi, questo più forte del Calabrese ed il Calabrese più resi- stente di qualunque altro alla corsa, e vi, sa egli a mano a mano e con un ben fondato raziocinio svelare le proprietà, i pregi e i difetti di ogni razza e di ogni cavallo.

Gli basta una volta sola porre sotto il carrettone il cavallo per dirvi se sia restio o no nel dare indietro, se si debba prendere con l’aspro o col dolce, con le battiture o con le carezze, col freno tirato o molle, se il morse debba essere più o meno aspro; ed a questo modo in pochi  gior-

  1. 1   CELANO — Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli.
  2. Il tempio di Castore e Polluce anticamente esisteva ove ora si trova la chiesa di S. Paolo.

ni riducono gradevole e fastoso il più indomito cavallo. Un cocchiere, con una mano sola al timone della carrozza, è capace di rigirarla tanto fino a che la situa dentro un’angusta rimessa. Egli, come un’anguilla, esce con tanta facilità, con tanta maestria e con tale una destrezza da mezzo ad un laberinto di carrozze, che pare come se avesse già prese tutte le misure de’ tortuosi giri che deve fare, e sa districarsi di là senza che la sua carrozza o quella d’altri ne senta il più lieve urlo.

Quindi il nostro cocchiere è sovente lo scopo di maraviglia degli stra- nieri che vengono in Napoli; ed in effetti è cosa da stupire come in una città si affollata di gente, di carrozze ed in mezzo a tante grida, a tanti incontri ed a tanto chiasso, la mente del cocchiere non vacilli, non si fracassino centinaia di carrozze al giorno e non succeda disgrazia di sorta o assai di rado e più forse per colpa di chi cammina a piedi per le strade che per distrazione del cocchiere.

Ond’è che però molto difficile si rende in Napoli l’arte di ben guidare le carrozze, e che sia solo vanto de’ cocchieri napolitani il possederla a perfezione. Da ciò deriva al certo che quando tuttodì vediamo venire stranieri di ogni sorta per qui stabilirsi ed aprir bottega di qualunque genere, non si è mai visto che sia giunto un cocchiere straniero e che abbia saputo vincere in merito, in perizia ed in destrezza il napolitano.1 Dal cocchiere aristocratico fino a quello del calesso, vi è tale una gra- dazione discendente che non può certamente passare inosservata. E però dopo aver parlato delle carrozze e de’ cocchieri in generale, ora

vengo a’ particolari.

In Napoli oltre delle carrozze che appartengono a’ padroni, vi sono quelle dette di rimessa che sono senza numero o con lettere invece di questo, vi sono poi le carrozze da nolo col numero, le cittadine aperte, quelle chiuse e le diligenze, delle quali alcune fanno il traffico dal largo della Vittoria al Reclusorio, altre dal largo del Castello ai Tribunali ed altre ancora che pure dal largo del Castello vanno alle stazioni delle strade ferrate a Porta Nolana e viceversa.

1 Nel 1776 l’abbate D. Giuseppe Novi, P. A. ed Accademico del Buon Gusto, pubblicò per le stampe in Napoli un libro, intitolato:—Vanto folli cocchieri dell’arte nobilissima che tengono essi in domare li cavalli e guidarli sotto le carrozze, sopra qualsiasi nazione; e consacrato al merito singolare del signor Gaetano Pizzella, cocchiere e maestro di stalla  di

S. E. il signor Principe di Francavilla. — E di questo libro, scritto con moltissima erudizione, mi sono giovalo nella redazione del soggetto che ò impreso a descrivere.

Molti anni or sono vedevansi correre per la città, oltre delle carrozze a due cavalli, de’ calessi a due ruote e ad un cavallo, capaci a mala pena di due persone, che chiamavansi corricoli e del cui nome si valse quel versatile ingegno del Dumas per iscrivere una specie di viaggio nel qua- le prende a narrare di varie cose di Napoli con tanta falsità, che quel li- bro può invece dirsi un romanzo. Ai corricoli poi succedettero delle piccole carrozze a quattro ruote tirate da un solo cavallo e capaci di quattro persone strettissimamente sedute, chiamate carrozzelle, la cui vita fu molto breve, perché essendo incomode e facilissime a capovol- gersi, cedettero il posto ai càbriolets o baroccetti ad un cavallo. Però, avendo il progresso portalo un miglioramento a questi ultimi, perché ancora troppo alti e difettosi per un moto sussullorio che li rompeva le ossa, dal cabriolet si ebbe la cittadina, formandosene una graziosa vet- tura a quattro ruote, tirata da un cavallo e capace di due persone, che si distingue dal cabriolet per l’elasticità delle balestre, perché più bassa, più larga, con cuscini più soffici e perché à un miglior cavallo ed un cocchiere più decentemente vestito. 1

I calessi dunque e i càbriolets essendo passati di moda, si sono mo- destamente ritirati dalla città nelle campagne ed ora fanno il traffico nei contorni di Napoli. Quindi ad essi viene inibito di correre per le strade della capitale, ove fa pompa di se l’elegante cittadina; si ferma- no per raccogliere passaggieri al Carmine, a Porta Capuana o a Porta Nolana, insieme con le così dette capuanelle, carrozze chiuse a quattro ruote le quali servono a viaggiare per le province, e tutto ànno meno che balestre elastiche e cuscini soffici e che per sopra mercato son de- stinate a portare sul loro cielo tutto l’equipaggio e le masserizie de’ viaggiatori. Però se venisse in mente ad alcuno di vedere un corricolo nel suo vero aspetto originale potrà incontrarne lungo la strada conso- lare di Portici, Resina, Torre del Greco, Cancello, Arienzo ec. ove ne ve- drà passare molti, che correndo velocemente portano non meno di 14 o 45 persone per ognuno, le quali occupano spesse volte fino la rete che trovasi sotto le stanghe, fra le ruote, lasciando al calessiere uno degli ultimi posti indietro ed in piedi, il quale con grida e con frustate tirate in aria, (che in dialetto napolitano dicesi scastiàre), incita il cavallo a correre ancora più, ond’èche facilissimamente si prende poi la mano  2.

1  Ora  contansi  in  Napoli  31  carrozza  a  due  cavalli  con  numeri;  376  con  lettere; 1210

cittadine aperte; 22 chiuse e 24 diligenze.

E si osserva che anno per anno, siccome aumentano le cittadine, così diminuiscono le carrozze a due cavalli col numero.

Ma guai!… guai a quei miseri che vi stan sopra se il cavallo inciampi- ca, o se nel correre esce qualche ruota dal suo asse!…

Essi precipitano tutti l’uno sull’altro come una valanga che cade   dal

S. Bernardo, ed è fortunato colui che si ritira senza un braccio rotto o una gamba fracassata.

L’esposizione delle vetture da nolo segnate col numero non è per- messa che nelle piazze più larghe della capitale, ove debbono stare di- sposte in fila, non potendo oltrepassare il limite stabilito; ed essendo vietato a’ cocchieri di fermarsi sulle strade con le vettore vuole o di camminare a piccolo passo per cercare avventori, essi, dopo che avran- no lasciato i passaggieri, debbono recarsi al loro posto, evitando, sem- pre che il possono, la strada di Toledo; ma queste disposizioni non giungono mai alla loro esatta esecuzione, per quanto Fautori ih di poli- zia possa vegliarvi, attesa la ostinazione de’ cocchieri e nonostante del- le multe che pagano quando sono trovali in contravvenzione.

Vengo ora a parlare del cocchiere e prenderò a descrivere in prefe- renza quello della cittadina, sì perché di costoro si conta maggior nu- mero, come per essere essi di una indole più caratteristica degli altri.

Eccolo ih…. l’intemperie più rigida, i freddi più eccessivi, le pioggie più abbondanti non gl’impediscono di star sempre seduto sulla predel- la della sua cittadina, col mezzo sigarro in bocca e la frusta in mano  che t’invita a salire in carrozza…..

— Signori ce ne iammo?…. Oscellenz, i’ vot o? Can ò simmo leste?…. Mossiù…. vulé vu.… 1

Non puoi passare per vicino ad un cocchiere senza che ti offra il ser- vizio della sua vettura o li chiegga il sigarro che stai fumando. Nelle piazze, ove essi si fermano, ti assordano con le loro voci confuse, o li vedrai circondato da’ loro mezzani, a’ quali spelta di dritto un grano  per ogni viaggio che procurano ad un cocchiere.

Se poi ti viene il ticchio di chiamarne uno di lontano…. li vedrai cor- rere da diversi punti tirando colpi di frusta in aria ed a’ cavalli, in modo che se non sei pronto a scappar via, rischi di restar chiuso in un labe- rinto di carrozze, dove per uscirne illeso bisogna durare gran fatica.

Intanto in mezzo a tutto questo chiasso avviene di sovente che quel povero mal capitato signore che gitta fra loro il grido d’allarme, indi- spettito, maledice il momento in cui gli è venuto il desiderio di andare in carrozza e conchiude col non prenderne alcuna.

Quindi i cocchieri ritornano ai loro posti tutti scornati, e non senza lanciarsi reciprocamente qualche gentile apostrofe!

La sera, quando finisce lo spettacolo a’ teatri, avviene lo stesso; e più tardi ancora innanzi a qualche bottega di caffè, li vedrai disputarsi il dritto di menarli a casa; e non sì tosto sarai salilo in carrozza, colui che è stato il preferito li porta via in aria di trionfo, facendo la baia ai com- pagni e scassiando con la frusta. Allora il rumore finisce, gli animi si quietano, e com’è proprio della indole de’ napolitani, dimenticano l’accaduto e ritornano migliori amici di prima, per ricominciare la stes- sa scena alla più prossima occasione.

Il cocchiere generalmente è un giovane svelto, allegro, intelligentissi- mo, bestemmiatore per eccellenza e che non lascia occasione di litigare sul prezzo, quando non è quello della tariffa 1, o quando gli capita uno straniero.

Prima il cocchiere soleva vestire in un modo tutto singolare. Egli portava un calzone di velluto verde olio, stretto assai alla cintola e lar- ghissimo dal femore in giù; una giubba, che non giugneva alla cintola  di panno bleu con due file di bottoni di ottone dagli omeri sino all’orlo inferiore; un fazzoletto di seta giallo o rosso al collo ed un cappello  nero o bianco, la cui forma avea tutto l’aspetto di un cono mancante  del vertice, con piccola falda e senza nessun garbo.

1 L’autorità di polizia à stabilita una proporzionata tariffa su’ prezzi che debbono esigere i cocchieri, la quale, salvo le particolari convenzioni, è la seguente;

Per le carrozze a due cavalli si paga grana 40 nella prima ora, le ore di seguito gr. 25 ognuna. Per quelle ad un cavallo la prima ora gr. 24 e 18 per ciascuna delle ore seguenti.

Per le cittadine poi la prima ora gr. 30 e gr. 22 le successive; e dalle ore 24 sino alla mezza notte gr. 40 per la prima ora e 30 per le altre. 11 nolo della corsa, quando non passa la mezz’ora è di grana 20 per le carrozze a due cavalli e di gr. 12 per quelle ad un cavallo.

Per le cittadine la corso è fissata a 13 gr. di giorno, e 20 gr. dalle ore 24 sino alla mezza notte. Oltrepassandosi la mezz’ora, il nolo deve pagarsi ad ora e questa si ovià come termi- nata ove ne sia trascorsa la metà: un solo quarto d’ora sarà pagalo come mezz’ora. Dopo la mezza notte le ore successive alla prima in cui sarà presa la vettura verranno pagate il dop- pio del prezzo del nolo che si paga il giorno. Ciascun posto nelle diligenze si paga indistin- tamente gr. 5.

L’uso è ridotto per le cittadine aperte la corsa da 12 a 10 grana, lasciando ferma per quelle chiose il nolo di gr. 15. Dj notte sogliono ferii dalle particolari convenzioni sul pret- to, la cittadini fanno anche un ribatto culle 10 gr. delle corsa per lasciarti a casa. (Nota dell’edit.)

Ma ora questo costume ‘a ricevuto delle modifiche e quantunque avesse lasciato quel non so che di caricatura, non è però meno origina- le. Quindi siccome nella loro casta vi sono molli giovanotti di quelli che fanno i tagliacantoni e i ganimedi presso le nostre popolane, così costo- ro vengono chiamati bardascielli cianciusi e sogliono vestire presso a poco come il guappo, di cui già si è fatto cenno in quest’opera.

Quando però il cocchiere sta nelle funzioni della sua carica, egli tiene in capo un berretto di lana rossa e sopra di questo un cappello di cuoio nero vernicialo, che dicono paglietta, e suo compagno indivisibile è un vecchio mantello, che porla in dosso o sotto il cuscino a seconda delle stagioni, per guarentirsi dalla pioggia o dal freddo.

Il cocchiere di cittadina tiene con sé il guaglione ch’è il suo mozzo di stalla ed un cagnolino di quelli della razza detta lupina, con un colla- retto di pelle tuttoguernito di ciondoli, sonagli e di nastrini rossi. Egli passa la sua vita sulla predella della carozza: là mangia, beve, dorme e quello è il suo domicilio ambulante.

Quando aspetta gli avventori egli sta sempre occupato intorno al suo treno o spolverando la carrozza, o nettando i fornimenti del cavallo, o dando a mangiare al suo Bucefalo che certamente non è bello quanto quello di Alessandro il Grande, ma non è poi quella carogna che, se- condo vuol far credere il Dumas nel citalo suo Corricolo, i nostri coc- chieri comprano pel prezzo del solo cuoio, quando i cavalli son portati al Ponte della Maddalena per ucciderli come inutili. —Tristo esempio della ingratitudine dell’uomo, che dopo essersi servito del più nobile, del più generoso degli animali, danna a morte, quando più non può es- sergli utile perché vecchio o storpio! —

I cocchieri comprano i loro cavalli al mercato, alle f iere, ovvero quando i reggimenti di cavalleria sogliono farne lo scarto.

Il cocchiere è l’uomo che sa vivere con tutti e riceve nella sua carroz- za ogni ceto di persone. Egli è allegro e compagnone quando porta quelli del suo ceto; non perde il tempo quando gli capita al fianco qual- che vispa e tarchiata fantesca, è rispettoso quando porla i signori; fa da Cicerone 1 quando conduce gli stranieri; e oltre a ciò li saprò dire tutte le feste popolari che si fanno in Napoli e ne’ paesi circostanti; ti dirò se è finito lo spettacolo al teatro de’ Fiorentini o se è cominciato il ballo al massimo teatro.

1 Si dà il nome di Cicerone presso di noi a coloro che menano i viaggiatori ad osservare le antichità, di cui sogliono dare sovente un inesatto ragguaglio.

Le carrozze che ànno girato tutto giorno si ritirano la notte, ed inve- ce escono delle carrozze più usate col guaglione per conduttore e con delle rozze che contano molti anni di servizio e che per camminare ànno bisogno di essere avviati con grida, pugni, bastonate; e di sovente Toledo offre di notte lo spettacolo di una scuola di equitazione perché qualche cavallo prima di avviarsi suole girare una specie di walzer, tra- scinandosi dietro la cittadina.

Il cocchiere se vede che ad un altro cocchiere, qualunque siasi, è ca- duto un cavallo, si slancia d’un salto per correre in aiuto del collega, quando anche questi fosse il suo più fiero nemico, poiché in quel mo mento l’onore del mestiere compromesso fa lacere qualunque odio par- ticolare: quindi in un momento vedi raccolti intorno al cavallo caduto da otto o dieci cocchieri, ché tutti corrono a dargli aiuto ed a rialzarlo.

Il cocchiere, quantunque per indole sia solito di litigare sul prezzo, pure non di rado vi è spinto da taluni che dopo aver corsa in carrozza per lungo e per largo la città non vogliono dargli neppure ciò che per dritto gli spetta. E su tal proposito non dispiacerà leggere qui appresso un piccolo aneddoto, come tuttodì ne sogliono accadere.

Uno di quei damerini che vivono della speranza d’innamorare le più belle fanciulle, e che fanno consistere tutto il loro merito nell’assettar bene i colli della camicia e ne’ globi dell’immancabile sigarro, si gettò sdraione in una carrozza e, stendendo le gambe sui cuscini d’avanti, disse al cocchiere di andare a Chiaia.

Il cocchiere ubbidì: il damerino, attaccatasi la lente all’occhio, ad ogni momento faceva fermare la carrozza, ora per parlare con un ami- co, ora per farne salire un altro, poi per lasciar questo ed invitarne un secondo, ovvero dando ordine di tener sempre dietro alla carrozza del- la sua bella: infine quando ebbe ridotto quel povero cocchiere da esser- ne pieno fino al gozzo per modo che in cuor suo gli mandava tanti can- cheri per quanti crini contavansi sulle code de’ suoi cavalli, gli coman- da di fermare. Poi d’ un salto scende di carrozza, dà delle monete al guaglione e via canterellando.

Questi allora, con una mano tuttavia allo sportello della carrozza e dando al cocchiere quelle poche monete, gli dice:

Patrò e chiss’è n’auto affare ch’avite fatto!…

A queste parole il cocchiere, guardando il danaro, si slancia dal suo posto, insegue il passaggiero e fermandolo, col viso ove si scorgea un rispetto forzato misto alla repressa rabbia e col cappello in mano, scia- ma:

—Signurì…. Oscellenza…. nun va buono…

—Che vuoi?…. risponde l’altro girando fra le dita il bastoncello.

—Vuie mo lu conoscite I… Site signore che ghiaie sempe e me metti- te mmano chessa moneta?

—Va là, che li ò dato più di quel che ti spetta….

Intanto la gente curiosa, che non è poca in Napoli, si affolla intorno.

Signurì, non va buono… Embè che bette a ddicere, mo facimmo chiacchiere? Se vuoi il danaro prendilo, altrimenti non avrai niente….

No, vuie m’avite da pavà…. interrompe il cocchiere, alzando la voce quando i curiosi più aumentano.

Olà bassa la voce, canaglia, o altrimenti…. e la minaccia venne ac- compagnata da un atto del bastone.

—Signurì…. avasciate li mmano o si no mo ccà faccio fa lu viglietto.

—Io ti ò pagato bene e non ti darò più niente…. e se non stai al tao posto mi farò rispettare io. …

Qui il guaglione, accostando una mano rovescia alla bocca gonfia d’ aria, che poscia espressa rende un suono somigliante a certa cosa non pulita, risponde…..

— Brrrrrrrrrrrr

Questo sonoro vernacchio 1  risolvette la questione in commedia, con

1 Il canonico de Jorio nella sua erudita e celebrata opera. — La inimica degli Antichi investigata nel gestire napolitano — abbastanza si distende su questa voce.

Vemacchio. —Bocca gonfia d aria e forzatamente chiusa, mano aperta e portata rove- scia sul labbro superiore in modo che esso sia compresso dallo spazio che è fra l’indire ed il pollice. Disposte cosi le dita sul labbro superiore e premendolo a replicali colpi, si vie ne a comprimere la bocca già oltremodo gonfia d’aria, la quale, forzata dogli urli interpellali, nell’uscirne a diverse riprese, farà degli scrosci, che sono quelli a cui si dà il nome di ver- nacchio.

Questo gesto è destinato particolarmente a deridere coloro che contano o tengono qual- che discorso con tuono d’interesse o gravità, o fanno i Rodomonti, minacciando or l’uno or l’altro. Siffatto atteggiamento 6 talmente insultante che appena se ne fa uso in Napoli da quelli che appartengono all’infima classe del popolaccio.

L’idea di beffa, di offesa, anzi d’insulto che gli si attacca, nasce dalla somiglianza che hanno gli scrosci procuratisi da questi movimenti con quello che la natura cagiona nell’espellere l’aria chiusa ne’ nostri visceri.

Or se questo rumore ancorché non diretto a taluno è stato sempre un affronto, non è maraviglia che la sua semplice contraffazione espressamente procuratasi non sia benanche un insulto che intende farsi a qualche persona. Che altro era il Curtis sudaeis vppedere di Orazio? Questo villano gesto ha ben anche il suo diminutivo cd è quando si porta sempli- cemente su) labbro superiore l’intervallo fra l’indice cd il pollice nel modo descritto e senza procurarsi alcun rumore con la bocca, ancorché sia gonfia d’aria. Il medesimo intero e per- fetto gesto si esegue nel seguente modo con più fatica ed industria..

Palma della mano messa sotto all’ascella del braccio opposto. Essa mano si concerta io modo che compressa da violenti colpi datile dal braccio, per effetto dell’aria incarceratavi e che si sprigiona dalla violenza de’ colpi, produce lo stesso scroscio ed anche più   stridente

urli e fischi degli astanti; quando il damerino, cogliendo quel momento di baccano se la svignò, fingendo d’inseguire l’insolente guaglione, che sganasciando dalle risa se l’era subito data a gambe. Intanto il cocchie- re restò a rodersi le dita dal dispetto, sciamando:

— Vi che razza de sfelenze!… e tonno i ncarrozza… meglio che se n’accattassero zeppole… Sciù pigliatevenne scuorno!.. . . — non senza che queste parole sieno state accompagnale da altre villanie….

Era assai sconvenevole ciò e vero; ma pure questa volta il carrozziere non avea torto!

FRANCESCO DE BOURCARD

di quello che si ottiene con la bocca. Si dà più enfasi a questo gesto con l’aggiungerci l’alza- re un tantino la gamba corrispondente al braccio che preme la mano.

Questo gesto ancorché inizialo vale Io stesso e si esegue col semplice portare una mano sotto l’ascella opposta ed alzare un poco la gamba corrispondente a quella; più i tratti iro- nici del volto. Riguardo all’antichità del presente gesto (s intende dell’originale) ne abbia- mo una prova in Petr. c. 117. Nec contentus maledictis (Encolpius) tollebat subinde altius pedem, et strepitìi obscoeno simul atque odore viam implebat.

Il vernacchio fu argomento che eccitò graziosamente le muse di valentissimi poeti na- politani. Ed ecco fra gli altri il nostro Capasso in quelle che intitola Alluccate contro Pe- trarchisti.

Venite tutte quante a duie a duie Primm’arruoie de le Mmuse e ste Cornacchie Frustà ncoppa a nu puorco attocca a bbuie: Riditi a buonnecchiù contr’ a sti rocchie, Accompagnate nzemmora co mmico Allucche e fische e smorfie e bernacchie.

LO COCCHIERE D’AFFITTO 1

Mannaggia sto mestiere Chi me l’à fatto fa, Trovanno passaggiere Vaco da ccà e dà llà!

I’ voto, ah!.. ahi… venite, I’ voto, u capriolè…

Signò, signò saglite, Va iammo Sciacquarle.

A nanze a nanze, u ciuccio, Oje Carrettiè… ahi… ah!… Da sotto a sto cappuccio Zi mò te vuò guarda?

Titò, te lieve a nante? Quarti, marà, nennì… Ma vi comme te nchiante Te lieve Don Ciccì?….

Ahi… ahi… li gamme… a nante… Oie guarda, guarda, ahi… ahi… Mannaggia sto mestiere

Chi me l’à fatto fa, Trovanno passaggiere Vaco da ccà e da llà.

A nanze…. e mo se scosta, A nanze Reverè.

Non l’aggio fatto a posta, Scusate Donna Mè.

Compà, ccà non ce passe, Tu non ce può trasì…

Va chià, ca tu me scasse, Vatte a fa benedi.

Ahi… Ahi… li gamme… a nante… ec.

1 Volendo rendere sempre più pregiata quest’opera e affatto nazionale, come altrove è notato, non tralascio mai d’inserirvi delle canzoni in dialetto napolitano quando il soggetto me ne presenta la occasione. E però infine dello articolo sa cocchieri ò credulo far seguire questa concettosa scena popolare del colto giovine signor Domenico Bolognese, a cui è stata scritta la musica dall’altro nostro concittadino signor maestro Luigi Cammarano, uno de’ componenti l’artistica famiglia di tal nome. (L’editore.)

Ah!… Ah!… signò scusate… Questra è sagliuta, alò!

Magnate cheste strale, Cammina Capeprò, Che trotto, che galoppo Che tene chisto ccà;

Fucato viecchio e zuoppo, Comme a lo viento va,

Ah!… ahi… li gamme… a nnante… ec. Isc… simmo arrivate…

I’ traso o aggio accosta? Eccome ccà, calate M’avite a commannà?

Ccellenza, che me date? Lustrissemo gnernò; Signò vaie ch’accocchiate? Tu che mmalora vuò!…

Eh! oh! oh! oh! Mannaggia sto mestiere Chi me l’à fatto fa, Trovanno passaggiere Semp’aggio ad abbuscà. I’ voto u capriolè, Cammina Sciacquariè.

1

CHE cosa sapete voi, belle ed eleganti patrizie, che segui te scrupolo- samente i capricci della «Dea incostante» e talora le imponete i vostri, i vostri capricci che divengo‘ no leggi per le altre, che cosa sapete voi,  che cosa conoscete di quel piccolo popolo d’industriose fanciulle che s’occupa dal mattino alla sera e talora anche, poverine! dalla sera al mattino a lavorare per voi, ad accrescervi grazie, a cooperare ai vostri più splendidi successi?

Che ne sapete! se vi si potesse svolgere sotto lo sguardo tutta la lenta e dolorosa Iliade di quella vita di lavoro e di privazioni, che è la sua condanna su questa terra, la condanna data a quello stuolo innumere- vole che sacrifica i più giovani anni della sua esistenza, chinato sul la- voro, a traforar di mille punti una stoffa, un velo, un nastro: se nel cri- stallo dello specchio nel quale voi v’assicurate dell’effetto che farà tale  o tal altra acconciatura, e le date la vostra sentenza irrevocabile d’un sorriso di compiacenza o d’un movimento di dispetto, potesse rifletter- si un quadretto d’interno, una specie di piccolo fiammingo, rappresen- tante la meschina cameretta della lavoratrice, o anche il suo volto palli- do ed estenuato dalle lente e lunghe veglie, forse, giova dirlo, da un  non troppo lauto sostentamento: certo che sareste più indulgenti per quella piega  che  non così  ben s’accorda  all’armonia  delle belle   linee

1   Veramente   in  ischietto  italiano,  avremmo  dovuto  servirci  delta  voce  men      gallica

«crestaia»; ma oltre che questa parola non è così complessiva perché indica soltanto colei che fa le acconciature toilettes) pel capo, le cuffie un giorno dette creste), bisogna convenire ancora che essa è fuor d’uso. Parlando di una lavoratrice di generi di moda, non ci è permesso di servirci d’una nomenclatura così fuor di moda, e che risale ai tempi in cui si portavano le creste!

della vostra persona, per quel nodo che non ha, nella sua civetteria di nodo, minor grazia di voi, per quel corsaletto che si ostina a non per- mettervi di stringere la cintola nelle vostre mani.

Ma non vogliamo da ora darvi un rimorso che forse non avrete, tanto più che la modista ha una duplice esistenza, della quale l’una compen- sa l’altra, e che se ha le sue lunghe e dolorose ore di stento e di lavoro, ha pure i suoi brevi e gaissimi momenti di feste, di vacanza, di passa- tempo, la sua domenica della quale è rigorosa e scrupolosa osservatri- ce. È vero che la domenica è si breve, e che le settimane sono sì lunghe, anche più breve in quanto che le ore secondo tutti i poeti della Grecia fino all’Arcadia, e secondo tutte le modiste da quelle che trapuntavano le tuniche di Aspasia e di Cleopatra e di Messalina, sino a quelle che la- voravano iersera nei nostri magazzini di mode, le ore, dicevamo, scor- rono lente nel lavoro, brevi nel piacere; ma che possiamo farci! la rosa dura un giorno, il cipresso un secolo.

La modista dunque ha due fasi ben distinte della sua vita, una è quella del lavoro, l’altra è quella della festa. La festa ella spende ciò che ha lavorato in tutto il resto della settimana, e buon per lei che le feste sono in proporzione del quinto coi dì di lavoro! La modista in Napoli ha una vita assai più oscura e privata di quella della griselle di Parigi. Oh non confondete l’una coll’altra! La differenza è ben grande, lo sa il cielo!.. e lo saprete voi (se pur non v’è già noto) sol che vorrete aver la pazienza e la cortesia di continuare a leggere queste poche pagine.

La grisette è un genere estero, un fiore esotico che non alligna nella nostra latitudine calda, ma moderatamente economica, e più modera- tamente ancora, proclive a dissipazioni.

L’una non ba più che fare coll’altra di quel ch’ha che fare il cielo di Parigi con quello di Napoli, il gamin col lazzarone. Noi non faremo giù paragoni, né intendiamo dare il primato all’una od all’altra solo insi- stiamo perché l’un genere non vada confuso con l’altro, essendo essi così distinti fra loro.

Quello è affatto parigino, non crediate che sia francese generalmen- te, oibò! Janin lo ha detto così bene, égli che ha studiato la specie gri- sette, come Linneo ha studiato le piante, e Buffon gli animali; egli defi- nendo, dipingendo per così dire, quest’«animal grazioso e benigno» che chiamasi grisette dice: — Di tutti i prodotti parigini, il prodotto più parigino è senza dubbio la grisette! — Viaggiate quanto vorrete in paesi lontani, incontrerete archi di trionfo e giardini, troverete musei, catte- drali, e chiese più o meno gotiche, come pure, cammin facendo, dap- pertutto ove vi menerà il vostro umor vagabondo, v’ imbatterete in bor-

ghesi ed in principi, in prelati ed in capitani, in facchini ed in patrizi, ma in alcun luogo né a Londra, né a Pietroburgo, né a Napoli, né a Fila- delfia incontrerete quel non so che di così gaio, vispo, fresco, giovine, leggiero, lesto e così contento del poco, che chiamasi la grisette. Ma non pur nel mondo, non pur in Europa, ma percorrete la Francia, inte- ra, non troverete in tutta la sua verità la «grisette de Paris» — (Conti- nuate, di grazia, a sentir ché cosa sia la grisette, per poter meglio veder la differenza tra essa e la modista di Napoli) — I dotti che spiegano tut- to, e trovano necessaria un’etimologia a qualsiasi cosa, si sono lambic- cati il cervello per immaginar l’etimologia di questa parola. E ci hanno detto — povera gente! — che così chiamavasi una leggera e misera stof- fa di lana bigia (grise), di cui servivansi le fanciulle del volgo. Poi ne hanno tirata questa conchiusione: — Dimmi l’abito che indossi, ti dirò chi sei, come se tutta quella galante aristocrazia dei magazzini avesse rinunziato, ai nastri di seta, ai ricami, alla bella calzatura a tutt’in (ine gl’ingegnosi trovati di quella toilette facile a tutte le belle che sono po- vere, ben fatte, e che hanno vent’anni! La modista in Napoli ha di co- mune con la grisette di Parigi una parte dell’esistenza dei giorni di la- voro, ed è tanto vero clic. senz’altro fare che cambiare la voce di griset- te, in quella di modista, e con qualche altra comeché leggerissima va- riante, quel che fu detto della prima può dirsi della seconda — Ed ecco- lo a dimostrarlo col fatto.

La sola maniera di ben conoscere questo mondo a parte nel mondo,  è di vederlo da presso. Uscite il mattino, (parlo agli uomini, non oserei dire alle nostre eleganti leggitrici, di uscire di buon mattino, salvo che  il caso non le menasse a ritirarsi da una veglia al momento che spunta il sole) — uscite dunque per una bella giornata che allora incomincia, guardatevi d’intorno, e vedete qual’è la prima donna desta nell’accidio- sa città che dorme ancora. È la nostra eroina; ella si alza un momento dopo o prima del giorno, ed ecco che subito si fa bella per tutta la gior- nata, pettina i bei capelli, li aggiusta, indossa la veste, ben fatta e netta, e come no, se è essa stessa che l’ha fatta e lavata; dopo di che assetta la sua cameretta, mette in ordine quel povero niente che possiede, e de- cora la sua miseria, come molte dame non saprebbero decorare la loro opulenza; finalmente volge un ultimo sguardo allo specchio e quando  si è ben accertata d’esser bella oggi quanto era bella ieri, se. ne va a la- vorare.

Mentre che ella lavora, vediamo qual è il suo lavoro. Ma non sarebbe più facile e più spedito di dirvi quale non è il suo lavoro; questi esseri sono buoni a tutto, sanno, possono, e debbono far tutto. Una legione di

formiche lavoratrici basta, dice il naturalista, a formar una montagna, cosi del pari, le modiste, come le formiche, delicate, operose, povere fanno prodigi di lavoro e d’attività. Le loro mani industriose danno pe- rennemente ed infaticabilmente ogni forma al velo, alla seta, al musso- lino, al velluto; a tutte queste materie informi, danno, la grazia, e lo sfoggio. Sparpagliate che sono nei magazzini, codeste operaie bionde o brune, cantando e gorgheggiando (quando non s’intima loro il silenzio) vestono la più gran parte del genere umano. Tutto che il capriccio di donna può escogitare nel suo più ingegnoso momento di bizzarria le nostre care artiste lo eseguono. In questa posizione elevata ad un tem- po e subalterna, messe come sono tra il lusso più esagerato delle patri- zie e delle ricche, e la propria miseria, convien dire che le povere modi- ste debbano avere molta forza e molto coraggio morale per resistere in- sieme al lusso ed alla miseria. Perocché non appena discesa dalla ca- meretta in cui abita, la modista è introdotta nei più ricchi magazzini, nelle più splendide case; là essa regna, là detta le sue leggi, sentenzia senz’appello; presiede durante l’intera giornata all’abbellimento delle signore, le veste, le adorna. Circonda talora dei più preziosi tessuti certi scheletri orribili, conosce a fondo tutti i difetti di certe bellezze proble- matiche ed illusorie.

Quante magrezze, quante storpiature, quante gobbe ella fa sparire! E quando l’idolo è ben adorno da quelle povere mani così pazienti, e spesso così belline, quando arriva l’amore, chi si trae seco nelle feste brillanti P non la donna che è brutta, ma l’acconciatura che la fa bella, senza por mente che l’operaia che l’ha fatta, è forse cento volte più bel- la della dama che se ne adorna.

Immaginate per un momento che la povera modista si faccia a segui- re con uno sguardo malinconico la dama ch’ella ha vestita; non la sen- tirete sciamar in un lungo sospiro: «eppure son più bella io!» — Sì cer- to, ed è questa una delle terribili tentazioni cui pochissimi coraggi resi- sterebbero. Ma no, l’umile artigiana sa resistere alla tentazione, la no- bile eroina vede tutte quelle belle aggiustature adornar non colei che le merita più, ma colei che più le paga, ebbene essa se ne consolerà con le sue canzoni, con la sua gaiezza, e coi suoi vent’anni! Ed ora che avete veduto ciò che la griselle e la modista hanno di comune attendete a ve- dere ciò che quest’ultima ha di caratteristico e di particolare.

Tutte le caste hanno una specie di gerarchia, e quella delle modiste ha la sua come le altre. Non si può esser modista di salto. La modista incomincia assai spesso per far da fattorina alle altre di classe più ele- vata; essa per lo più è figlia d’un tappezziere o d’un servo. Quando la

fanciulla comincia ad essere di otto a dieci anni il padre la conduce dal- la proprietaria d’un magazzino di mode, e l’avvia per la sua carriera. La povera fanciulla imprende così il suo tirocinio, porta i cartoni e le sca- tole de’ cappelli e degli abiti, ed affianca colei che va a consegnar il la- voro… cioè, intendiamoci, l’affianca quando quest’ultima non ha le sue piccole pretensioni, le sue convenienze, nel qual caso la ragazzina la se- gue a rispettosa distanza invece d’affiancarla.1

Ma la poverina se ne consola con la speranza di aver fra non molli anni anch’essa una fatlorina che le porterà i cartoni appresso; e chi sa! chi sa che nei suoi sogni rosei non pensi che un giorno avrà anch’essa delle modiste da mandar a consegnare i lavori che usciranno dal suo magazzino, e che non mandi a portar le scatole dopo aver incominciato per portarle.

Dopo la fattorina che porta i cartoni, vien la discepola che va a con- segnar il lavoro, a provar l’abito, a raggiustarne qualche menda nella casa stessa della signora, cui la veste è destinata. Questa è chiamata Mademoiselle, o almeno così intendono chiamarla quelli che la dicono

1   Vedi la figura.

BYRON nel suo Don Juan chiama il sole del mezzo giorno indecent sun (sole indecente), e la. stagione estiva a very dangerous season (stagion pericolosissima): noi perdoniamo alliga l’atrabile del poeta in- glese l’aver così indegnamente calunniato il sole e l’està, queste due grandi provvidenze del basso popolo. Gli è vero che Lord Byron in quel suo poema parlava del sole delle Spagne, ma alla fin fine è un po’ trop- po, mi sembra, il chiamare indecente quella magnifica lumiera sospesa al palco a volta dell’universo crealo, come direbbe un cinquecentista. Che i poeti abbiano dato all’astro del giorno gli epiteli e gli aggiunti più strani e bizzarri, non è a farne maraviglia, perciocché i poeti sono una razza di animali che non parlano siccome parlano tutti gli uomini di questa terra; ma che sia venuto il ticchio ad un nebbioso britannico di porre all’indice delle cose proibite come indecenti nientemeno che il sole, è tal cosa che ne farebbe impazzare, se non sapessimo che uomo scapato era l’autore del D. Giovanni, il quale par che avea dichiarato la guerra agli astri, imperocché in parlando della luna, e pigliandosela  con quelli che la chiamano casta, dice The devil’s in thè moon for mi- schief (il diavolo si è ficcato nella luna per fare il male), e soggiunge che non vi è giorno dell’anno, anche il più lungo, come il 21 giugno, che vegga compiersi tante male opere quante ne vede in tre ore quella bir- cia della luna, facendo la modestina. Ma lasciamo da parte le strambez- ze di Lord Byron, e venghiamo al nostro argomento.

Abbiamo detto più su che il sole e l’està sono le due grandi provvi- denze del basso popolo, e nissuno certamente verrà a darci una menti- ta. L’inverno è aristocratico come un conte; le veglie, le feste, i balli nelle splendide gallerie, le conversazioni accanto a’ fiammeggianti alari del camminetto, i pranzi protratti lino a notte, le seggiole imbottite di caldi crini, le soffici poltrone in cui il corpo si affonda come in un cor- bello, i banchetti ravvivati dal vino di Sillery, le stufe, i caldani, le pel- licce; ecco vasto campo al lusso ed agli splendori della vita. Il ricco dor- me in està e si sveglia l’inverno, il povero pel converso non vive che nella stagione delle frutte.

L’està è dunque il tempo della cuccagna pel nostro popolano: ei ri- trova in questi mesi dell’anno la consueta sua ilarità e spiensieratezza; tutto basta alla sua vita; egli è felice, pienamente felice; la dimani gli dà poco pensiero, però che sa non potergli mancare il suo banchetto da principe, vale a dire, il suo piatto di vermicelli col sugo di pomidoro, la sua caraffa di asprino,1 e le frutte a piene mani; e tutto questo per una meschina moneta, che egli saprà lucrarsi con uno de’ mille mestieri che l’està gli porge l’occasione di esercitare.

Nè crediate che il nostro popolano si dia grandissima pena per isce- gliere quale delle tante industrie gli convenga di preferenza; tutte le  son buone per lui, tutte le abbraccia quando fa d’uopo provvedere alla sussistenza del giorno. Un carlino, ed egli è ricco, ricchissimo; questo danaro gli basta pel pranzo e pe’ divertimenti del giorno; (re grana di maccheroni, un grano di asprino, un grano di pane, un grano di frutte, un grano di sorbetto, e tre grana per un biglietto alla piccionara del teatro Sebeto.

Dimandate a coloro che spendono dieci piastre al giorno, se la sera vanno a letto più conienti e soddisfatti del nostro popolano, il quale, diciamo in parentesi, ha un letto che ha per materassi la (erra, e per co- pertura il cielo co’ suoi arabeschi di stelle.

Credete forse che i gelati, i sorbetti, le limonate, sieno dolcezze igno- te al monello ed al lazzarone?

V’ingannate a partito. Guardate quell’uomo dal volto ridente e gio- viale, rubicondo di salute; una larga paglia covregli il capo, una specie di grembiule alla scozzese, o per meglio dire, all’arlecchino, sorretto  alla serra de’ calzoni da una cintura ordinariamente rossa, indica in

1 Vin bianco, che si fa in diversi luoghi della provincia di Terra di Lavoro e speziai mente nella città di Aversa. Il Redi nel suo ditirambo lo definisce a questo modo:

Quel d’Aversa acido asprino Che non so s’è agresto o vino.

qualche modo il mestiero al quale egli è addetto; perocché que’ tanti colori vivaci sono altrettante immagini de’ suoi sorbetti. Egli ha presso al destro piede un secchione da pozzo pieno d’acqua per isciacquarvi le diverse maniere di bicchieri contenuti in un arnese poggiato sul mede- simo secchione, e diviso in parecchi scompartimenti; al lato manco ri- posa a terra un recipiente di legno, ove conliensi la neve per raffredda- re e congelare la massa de’ sorbetti racchiusi in altro vaso cilindrico di stagno, al quale egli imprime sovente un moto di rotazione per viem- maggiormente compire l’opera della congelazione. Nella destra mano sta baldanzoso un conico picchiere con entro un bianco sorbetto pira- midale alla cui cima vedesi una striscia rossa di altro sorbetto: questo bicchiere di una perfetta immagine del nostro Vesuvio, ricoperto di neve, e solcato in uno de’ fianchi da tiammeggiante lava. L’altra mano del sorbeltiere ambulante stringe uno strumento di stagno, di rame, o di altro metallo, col quale attinge dall’imo del vaso i sorbetti, e con gra- zia particolare gli adagia su i bicchieri porgendoli maestosi e con la punta ritta a qualche tarchiata nutrice o a qualcuno della turba de’ la- ceri monelli che gli fan corona. Nu rana a giarra! ecco la parola magi- ca che attira, che seduce, che inebbria, e rinfresca. 1

Quali sono gl’ingredienti di questi sorbetti? Quale la materia princi- pale?Quale il sapore? Ecco il mistero. Sfido il più esperto chimico a scomporne gli elementi o il ghiottone più raffinato a definirne il gusto. Tutta la scienza di Donzelli 2 è infusa, diffusa, profusa, e confusa in  quel magico cilindro che mai non si esaurisce, avvegnacché grande sia il concorso di quelli che vogliono essere rinfrescati.

Vedi maraviglia! Questi sorbetti sono congelati a tal perfezione, che diventano duri come pietre, eppure nell’assaggiarli non si prova nessu- na sensazione di freddo; ed in questo si ammira la filantropica pruden- za del sorbettiere ambulante che sa risparmiare a’ suoi avventori gl’infreddamenti, le congestioni, i catarri, e sa badare alla conservazio- ne de’ loro denti.

Le ore in cui vedesi per le strade questo rinfrescatorc dell’umanità lazzaresca sono appunto le contrarie de’ rinfrescatori dell’umanità  puro sangue. Egli sceglie però le ore caniculari, la (come diconsi in Na- poli le prime ore pomeridiane) e talvolta il mattino. I suoi campi di

  1. 1  Vedi la figura.
  2. La rinomanza che godono i sorbettieri napolitani si è sparsa per quasi tutta Europa; e molti di essi sono espressamente chiamati nelle altre città d’Italia e d’oltremonti per insegnare a fare i sorbetti alla napolitana. Il caposcuola fu il rinomato Vito Piolo, da cui vennero i migliori nostri sorbettieri e fra costoro il primato ora si spetta a Raffaele Donzelli.

(Nota dell’edit.)

spaccio sono il Largo della Carità, il Largo del Castello, il Largo del Mercatello, ed altri Larghi e Piazze, abbenché non raramente s’incon- tra sopra i così detti quartieri ov’egli gode fama e credito esteso.

Ma volgiamo lo sguardo ad un suo più modesto confratello, pari- menti ambulante, il quale più veridico e sincero, non chiama gelala la sua merce, ma con la più grande ingenuità del mondo, e con voce chioccia esclama: acquaca n’ha vista maie a neve, nè oggidì è tanto fa- cile imbattersi in gente così franca e dabbene!

Tutta quell’agglomerazione di arnesi onde compongonsi le panche di acquaiuoli immobili, 1 è ristretta, quasi in miniatura, sulle spalle, sull’ombelico, e nelle mani de’ mobili acquaiuoli. Vedetene la figura  che offriamo congiunta al presente articolo. Qualche cosa di più sciatto e sciamannato si osserva nel costume di quest’uomo destinato a per- correre meno nobili quartieri.

Soltanto in occasioni di feste popolari vedesi per le strade più nobili della capitale raggirarsi questa specie di panca, che ha due cose di più delle panche di acquaiuoli, vale a dire, i piedi, e un’anima. Una paglia covre del pari la testa africana di quest’uomo, ma la è messa a sghem- bo, e talvolta sospeso al cocuzzolo; una casscltina gli sta dinanzi, a gui- sa di giberna, dove, invece di palle e cartucce, scorgonsi danaro cd armi (specie di confetti omeopatici).

La presenza di quest’uomo si rivela dal perpetuo sbatacchiare del co- perchio della sua cassetta, che si sposa al monotono grido ch’ei va met- tendo per le strade. 2

Andate in quella bolgia di Dante che si chiama Teatro Sebclo; ficca- tevi nell’orrendo speco del teatro di Donna Peppa; e scorgerete l’acquaiuolo ambulante in tutta la maestà della sua carica.

Discreto amico delle belle arti, egli non frastorna, durante la rappre- sentazione, la somma attenzione ed il sempre crescente interesse onde sono animati gli spettatori; ma, circospetto e educato, egli non si caccia nelle file del rispettabile pubblico che negl’intervalli degli atti.

Egli s’insinua allora fra i corridoi, gridando: acqua, ne commanna- te? E vedi gli assetati spiriti di Dante assaltare il tridente dell’acquaiuo- lo, e disputarsene i bicchieri su di esso poggiati; il batter della  cassetta

  1. 1        Vedi la figura. — Questi acquaiuoli sono i più elevali della loro casta; e le bevande che danno agli avventori sogliono essere di acqua semplice; col succo di limone o di a rancio ovvero col senso di anisi che chiamasi volgarmente sambuco; il cosi dello poncio alla calabrese, composto di acqua, sambuco e limone; il misto che si compone di acqua, sambuco, limone e arancio; e gli acquaiuoli più aristocratici io queste bevande mescolano ancora dello sciroppo di capelvenere.

(Nota dell’editore.)

  • 2     Vedi la figura.

diventa allora un frastuono frequente e monotono per la necessità di porvi i torneselli che vi piovono da ogni parte, e di trarne gli, ch’ei dà per soprammercato, quasi per fare ammenda della poca o della nissuna freddezza dell’acqua. 11 fischio che accompagna il levarsi della tela dà il segno dell’allontanamento all’acquaiuolo ambulante. Dove si reca egli in questo frattempo? Mistero! Forse ei si porta in qualche solitario luo- go a meditare sulle vanità della vita umana, e sulla vera sostanza de’ piaceri mondani, i quali han quasi tutti i sapori dell’acqua fresca!

FRANCESCO MASTRIANI.

LA venditrice di nocciuole, che chiamasi in Napoli, è l’animal grazio- so e benigno e poco ragionevole che nelle sue trasformazioni più si ras- somigli al baco da seta. Il l trattar di lei si appartiene perciò più ad un corso di storia naturale che ad un libro di usi e costumi; con tutto ciò non vogliamo tralasciare senza la debita illustrazione un soggetto cosi importante, che forma l’anello intermediario fra l’animale che si chia- ma uomo e gl’insetti.

In estate la Nocellara vende le nocciuole fresche, che tra noi chia- mansi nocelle di S. Giovanni. Avvolte nel suo verde calice, le nocelle hanno un’apparenza seducente; ma delle dieci le sette son prive dell’interna mandorla. Sicché possono paragonarsi a bei corpi senz’ani- ma, o a corpo a cui fu data l’anima solo per non farli pulire. In questo quei fruiti si assomigliano alle loro venditrice, le quali inoltre non han- no nemmeno quell’appariscenza lusinghevole che nei fruiti si scorge: anziché essere sepolcri imbiancati, sono per lo più sepolcri sporchissi- mi. Non ve ne fo la descrizione, perché vi moverei a stomaco. Vero é che a quando a quando ne comparisce alcuna che all’avvenenza del vol- to congiunge la mondizia e la nettezza delle vesti e della persona; ma son come le mosche bianche, come eccezioni rarissime di una regola generale: le giovinette del volgo belle e pulite non vendono nocelle fra noi.

Epperò quando qualcheduna di queste viventi eccezioni trovasi a passare dinanzi a una cantina o ad una taverna, o dinanzi a qualunque crocchio o convegno di oziosi, potete immaginarvi quanti sorrisi, quan- te parolette, quanti zufolìi sottili (sordigli le son diretti e lanciati di punto in bianco: sembran le schioppettate che Ih nel nostro vengono dirette a una povera quaglia sfuggita ai colpi di quei che giuocano, a chi ne ammazza di più. Ma tutta cotesta moschetteria amorosa sen va per- duta, e la bella nocellara, non chiamata da nessuno per ciò che riguar- da lo spaccio della sua mercanzia, dopo aver gittato uno sguardo nell’interno della bettola e aver dato il suo grido annunziatore di ciò  che vende, rivolge un occhio di compassione ai bersaglieri di amore, e non curandosi di loro, guarda e va via.

Ma come passa la stagione estiva, così passando i fruiti suoi, e ad ogni novello passaggio sembrano ricordarle che passa la sua giovinez- za. La Nocellara non perciò si perde d’animo, e passa immediatamente dalle nocelle alle gelse 1 1, Le gelse more son per lei sorbetti, son ciocco- latte. La bella cesta di bianchi vimini è serbata per Tanno venturo, ed un succido paniere è preso in sua vece, destinato ad esser tinto ogni anno da un nuovo strato di succo di more. Le mani, che non eran bian- che, diventano di un colore che non è violaceo, ma mezzo fra il rosso e l’azzurro; le vesti prendon la stessa tinta, specialmente in quei luoghi dove il paniere e la bilancia spenzolanti toccano il gonnellino. Con boc- ca sgangherata va gridando la venditrice: Ceuse annerale, a nu ranìllo o quarto, oh che cioccolatai Vi che ceuze! E donne e ragazzi accorrono volonterosi a quel ghiotto cibo, che depositalo sopra un pampino, vien mangiato con uno spillo o con un ruscelletto, o colla semplicità della bella natura, cioè con le dita.

Ma come passan le gelse, passan pure le avellane. Tutto passa quag- giù! solo non passa la venditrice, che dee pur vivere di qualche mercan- zia. Eccola dunque armata d’un altro paniere, di forma più aperta, bi- slunga ed ovale, dove mercé alcuni fogli di carta sono praticati alquanti scompartimenti. Indovinate mo qual merce venda in esso? Chiamasi passatempo (spassatiempo), ed è formato di nocelle infornale, di ceci e di semi di zucca, ed alle volte di fave parimente cotte al forno. 2

Con questo paniere sotto il braccio, che le serve di scudo e usbergo all’onestà, la Nocellara corre tutte le contrade di Napoli, si ferma in- nanzi a tutte le cantine, bettole e taverne, rumoreggiando coi zoccoli,

  1. 1        Ordinariamente le avellane si vendono prima delle gelse. Questiono è avvenuto il contrario. Io non ci ho colpa.
  2. Vedi la figura.

dando a ogni tanto il grido o cantilena di quel che vende: spassatene o tiempo! nocelle nfomate! cicere e semmente! spassatiempo fave nove a chi roseca! tengh’i nnovelle a chi roseca! ed altre cento variazioni sul medesimo tema, dette con voce più o meno di soprano o contralto, con bocca più o meno sgangherata, ma sempre con viso ridente e con gra- zia allettatrice. Con lei non vi son quistioni di prezzo o di qualità: ven- de a tariffa fissa secondo il prezzo corrente a tutti noto, e la sua merce è sempre della stessa perfezione.

La Nocellara non ha nome: chi la vuole, la chiama colla parola nocel- le, ella risponde col ripetere la stessa voce, e come il caporale di guar- dia e il comandante di una ronda che si avvicinano per iscambiarsi il santo e il contrassegno, così il compratore e la venditrice si appressano l’uno all’altra e conchiudono il loro negozio nel modo più pacifico del mondo. Sicché è cosa rarissima che una Nocellara abbia parte attiva in una rissa per cagione di ciò che vende, ma non è raro che risse nascano per causa sua, e che novella Elena, faccia sorgere una novella guerra per una novella Troja. Può pure entrar la gelosia di mezzo, e allora le Nocellare, posati in terra i panieri, dan di piglio ai zoccoli, e guai a chi n’è collo.

Intanto nel subbuglio il paniere è andato sottosopra con la mercan- zia che contiene: ceci, fave, semi, nocelle, tutto è confuso. E quando la calma è tornata negli animi, quando, tranne qualche sgraffio o qualche ciocca di capelli stracciata, non vi ha più vestigio della zuffa, la povera Nocellara si fa a sceverare ciascuna specie riponendola nel suo scom- partimento. Sembra allora Psiche, a cui Venere presentò un mescuglio di grano, orzo, miglio, semi di papaveri, ceci, lenti, fave, imponendole che scogliesse i semi di quelle biade ponendo ognuno da per sé, e asse- gnandoli in tanti monti quanti semi v’eran differenziali.

EMMANUELE ROCCO.

LA NOVENA

Pochi giorni dopo la festa di S. Martino (11 novembre), e quando le elette brigate de’ villeggianti abbandonano i campi ormai impoveriti di frutti e di fronde, e i colli circostanti ove tuttora si senton le esalazioni di ubertose vendemmie, e quando Portici, regina di ottobre, riceve gli ultimi onori dovuti alla sua bellezza e maestà, tra lo spirar di autunno e l’innoltrarsi del gelido vecchierello, cominciano a farsi udire per le vie di Napoli i zampognari, i quali sogliono trovarsi in questa capitale al- quanti giorni innanzi la novena della Beatissima Vergine Immacolata, che si festeggia il dì 8 dicembre. Dalle più remote province del reame muovou questi rustici, e più specialmente dalla Basilicata, celebre pe’ suonatori Viggianesi. Eglino son provveduti talvolta delle sole preci che per essi rivolgono al cielo le loro povere famiglie: lunghi giorni e lun- ghe notti di pedestre cammino imprendon costoro per monti, macerie, e convalli. Bozza lana e antica covre gli omeri di questi figli della cam- pagna, e li difende dalle intemperie d’una incostante stagione; pellegri- ni e mendici ei si parton dal seno delle loro famiglie, quando terminati sono i lavori de’ campi; deponendo in un angolo delle loro antiche ca- panne i rurali istrumenti che schiusero il seno della terra, e ne raccol- sero i tesori.

Viaggiando con tutt’i disagi della povertà, e sotto il rigore della sta- gione, eglino arrivano in questa Capitale, e dànnosi alacremente a pro-

cacciarsi norme, vale a dire, a cercare divoti che li chiamino a suonare davanti alle Immagini di Maria o del Bambino Gesù. 1 La prima novena è per la festività del dì otto dicembre, giorno in cui dalla Chiesa si cele- bra l’Immacolato Concepimento di Nostra Donna.

Universale è la divozione de’ napolitani per la Immacolata, sotto la cui protezione è posto il Reale esercito: non vi ha ricco abituro, o mise- ra dimora, o romita capanna dove non iscorgi un quadretto, un’effigie qualunque di questa Beatissima Vergine Madre. Laonde per la novena del dì otto dicembre non meno che per quella del Santo Natale i zam- pognari trovan clienti in copia grandissima, sì che in tutt’i dodici quar- tieri di Napoli, e ne’ vicini villaggi e casolari, non senti da mane a sera che il suono della zampogna e della cennamella.

Alle cantonate o sboccature delle strade, su i lastricati di Toledo e di Chiaia, ne’ chiassuoli e ronchi de’ più fangosi quartieri della capitale,  su per le salite di Montecalvario o per l’erta del colle S. Martino, ne’ crocicchi di Porto e del Pendino, per le piazzette del Mercato, su pe’ pa- lagi doviziosi, come nelle botteghe, e financo nelle cànove vedi salire e scendere continuamente l’un dopo l’altro il zampognaro e il ccnnamel- laro. La mercede che lor si dà per una novena varia a seconda della maggiore o minore agiatezza delle persone, appo le quali ei si conduco- no a suonare, per modo che dalla piastra, (12 carlini) scende il prezzo fino ad un carlino.

La novena dell’Immacolata incomincia il dì 29 novembre e cessa il. 7 dicembre, quella di Gesù Bambino ha principio il IO dicembre e termi- na al 24, vigilia del Santo Natale. Gran festa si mena nelle famiglie quando incominciano le dette novene: spesso gli stessi zampognari che han fatto la novena in una famiglia negli anni scorsi si presentano per l’anno che corre, e trovano sempre quell’affettuosa accoglienza che ad antichi amici suol farsi.

Proverbiale è la bontà del cuore de’ napolitani, e gli amorevoli senti- menti che nutrono verso i poveri e la minuta onesta gente. I ragazzi, al vederli comparire, saltan di piacere, che rimembrano le feste, il prese- pe, il regalo, i dolci del Natale, le castella di nocciuole, e tante altre care gioie di quella età così bella, così innocente, così spensierata, e che po- scia diventano, nel corso di tutta la vita, le più soavi ricordanze.

Vedi i più grandetti aggrupparsi intorno a’ due uomini del presepe, chieder loro d’imboccar il becco maggiore della cornamusa per trarne un suono, ovvero divertirsi a batter colle dita l’otre che si va enfiando pel fiato che le caccia dentro il rubicondo suonatore; altri starsene  die-

1   Vedi la figura.

tro alcennamellaro, imitando grottescamente il suonare che quegli fa del rustico istrumento: i bimbi da latte si appaurano al sentir le prime note acutissime del campestre clarino, e si rifugiano nel seno della ma- dre o della balia.

Intanto quegli accordi che risuonarono alle nostre orecchie fin da’ primi anni della nostra vita ne giungon sempre graditi in qualunque età, e sovente spremon sulle nostre ciglia una lagrima, ripensando a’ genitori o a’ parenti co’ quali dividevamo le gioie del Natale, e che tanto ne abbellivano il ritorno con le testimonianze del loro affetto.

All’ultimo giorno della novena, sia dell’Immacolata che del Natale, non sì tosto i zampognari han finito di suonare in una bottega, o al canto d’una strada, senti da’ monelli circostanti gridare a piena gola: pava (paga, paga).

Questa parola è diretta al padrone dell’Immagine, innanzi alla quale  i zampognari han suonato durante la novena, e gli comanda di dare a costoro la dovuta mercede, la quale viene ordinariamente accompa- gnala dal classico mosticciolo, e dal consueto susamiello (specie di dol- ciume natalizio fatto con pasta di miele, e che ordinariamente ha la foggia d’una 5).

I zampognari si accomiatano, augurando buone feste, ed accapar- randosi per l’anno venturo.

IL PRESEPE

Non vi ha famiglia napolitana, patrizia o plebea, che non abbia l’avi- ta consuetudine di fare il presepe, vale a dire con fantocci di stucco o di creta rappresentare la scena del Betlemme, e il Nascimento del Divo Bambino. Il tugurio, in cui nacque il Salvatore del mondo, le montagne adiacenti, le capanne de’ pastori, tutto è rappresentato con pezzi di su- ghero acconciamente disposti e ordinali.

I personaggi, che debbono figurare sul presepe, e che in Napoli ven- gono addimandati pastori, sono talvolta di finissimo lavoro, e di abili artisti. Gli è curioso il vedere le odierne fogge di villeresco vestimento napolitano addossate a’ personaggi di quel tempo tanto da noi remoto; e gli usi e costumi del nostro paese rappresentati sul presepe; sì che vedi poco lungi dal tugurio ove nacque il Bambinello Gesù una taverna, di quelle che si osservano nelle nostre circostanti campagne, ove seduti

a rustica mensa bevono e gavazzano parecchi contadini vestiti alla sor- rentina, o alla procidana.

Sull’erta di un monte vedi un altro che se ne viene a recare in dono al Bambino una cesta ripiena di caciocavalli napolitani. I personaggi che figurano nella grotta del Santo Natale sono la Vergine Madre, il Pa- triarca Giuseppe, sposo di Maria, il Divino Neonato, lo zampognaro ed il ccnnamellaro, il bue e l’asinelio che co’ loro fiali riscaldano le tenere membra del Fanciullo Gesù: al di sopra di questo quadro vedesi il coro degli angioli che cantano osanna al verbo Eterno, gloria a Dio nell’eccelso Cielo, e pace nel mondo agli uomini di buona volontà.

Pochi giorni prima della vigilia di Natale, il Bambino Gesù vien tolto dal presepe, per esservi riposto, con solenne processione di tutta la fa- miglia, alla mezzanotte del 24, ora in cui nacque il Divin Redentore. Commovente spettacolo offre allora la famiglia: uomini, donne, e ra- gazzi provvisti di ceri, fanno in processione il giro della casa, scendon talvolta nel cortile, visitano gli altri quartieri del palazzo, e si riducono al presepe, dove genuflessi e cantando l’inno Ambrogiano, da qualcuno della famiglia (spesso un ragazzo) vien collocato sul fieno e sulla paglia il celeste Pargoletto.

L’usanza del presepe rivela tutta l’indole del buon popolo napolita- no; entusiasta e immaginoso nella sua fede, la sua anima trova tesori di tenerezza e di gioia in quella Religione, che ne’ sublimi suoi misteri parla potentemente al cuore degli uomini onesti e dabbene.

LA VIGILIA DI NATALE

Spunta il giorno che se per tutta l’orbe cristiana è. il più solenne di tutto l’anno per la ricordanza di un avvenimento onde l’Umanità fu ri- scattata dalla macchia originale, per Napoli è tal giorno di allegria, di subuglio, tal giorno di movimento, di vita, di piacere; tal giorno di affa- cendamento, di capogiro, di cuccagna, che mai le parole non potranno presentarne l’immagine a chiunque non sia stato in questa città il dì 24 dicembre di qualunque anno.

Fin da’ primi giorni di questo mese, talvolta anche prima, tutte le faccende si rimettono a dopo Natale; le obbligazioni non si adempiono, il denaro si stagna per qualche tempo per riporsi in questo giorno in un’attivissima circolazione. Tutti sperano qualche cosa a Natale; tutti sono in aspettativa; gl’impiegati e i commessi attendono le gratifica- zioni, i medici e gli avvocati fidano su i capponi e su i caciocavalli de’ loro clienti; i maestri di scuola chiudon le loro porte agli alunni e le aprono agli allievi pennuti; gl’innamorati aspettano i dolci delle loro amanti e viceversa; gli uscieri, i domestici, le fantesche, e tutta l’infinita generazione de’ portinai, ciabattini, artieri, e facchini danno l’assalto de’ cento di questi giorni a dritta e a manca.

Bel giorno è questo pel basso ceto!

I carlinelli piovon loro da tutte le parli, sì che francamente li vedi ab- bandonarsi a quella gioia che è tutta naturale in essi, e li vedi correr le vie e le piazze, e salire e scendere le scalinate delle case, recando in sul capo grossi panieri carichi di regali, ovvero vassoi coverti da fazzoletti di seta, e contenenti dolci o torte.

Spettacolo indescrivibile offrono le piazze ed i mercati di comestibili fin da due o tre giorni innanzi la vigilia. I due regni animale e vegetale sono interamente rappresentati a Napoli in questa solenne festività. Tutto ciò che la terra produce; tutto ciò che si muove nel cielo, nel mare, ne’ fiumi, è schierato nella via Toledo, a S. Brigida, a Porta S. Gennaro, al Mercato, al Pendino, e nelle principali piazze della capita- le. È tanta in questo giorno l’abbondanza de’ viveri a Napoli, che tutti i milioni di abitanti Europei vi si potrebbero sfamare, tutte le nazioni del mondo vi troverebbero il loro cibo prediletto e indigeno.

È costume di farsi dalla bassa gente privati contratti co’ pizzicagnoli, da’ quali, pagando un cinque o sei grani per ogni settimana, ottengono a Natale una cesta ripiena di cibi che soglionsi mangiare in questi gior- ni. Questa cesta si suole addimandare sfrattatavola.

Fin da’ principi della novena di Natale i venditori di frutte fanno la così detta parata, vale a dire che davanti alle loro botteghe innalzano un edificio di seccumi e di frutte fresche; le colonne di questo tempio sono circondate di frondi, e spesso alberi giganteschi ne sostengono la mole; nell’interno di questo recinto tu scorgi trofei di uve e di mele, ar- chi di uve passe, stelle di fichi secchi, piramidi di agrumi, baldacchini  di noci e di vecchioni, ed una formidabile artiglieria di pine —

Accanto a questi magnifici parati si spiegano le ceste de’ pescivendo- li, nelle quali vedi guizzare il sire de’ pesci del Natale, il capitone con sua moglie l’anguilla, e poi cernie, calamaretti, cefali, lagoste, merluzzi, e tutta quanta la generazione degli abitami del mare 1 — Più lungi i vo- latili di ogni specie vengono a pagare con la loro vita il tributo alla più grande e solenne delle feste napolitane: migliaia e migliaia di capponi, ligati pe’ piedi a gruppi, ingombrano quasi tutte le vie della Capitale, desti—, nati a funzionare sulle mense la mattina del Santo Natale. Queste povere bestie, condannate all’estremo supplizio, o a scambi di regali, vanno per parecchi giorni in giro per la capitale, e nissuno in questo frattempo si cura di dar loro da mangiare, per modo che un di- giuno di vari giorni precede per essi la pena capitale.

Non vi ha strada per la quale si possa agevolmente camminare, tanta è l’affluenza degli uomini e delle bestie, tra le quali primeggiano gli asi- ni. Per Toledo non vedi che enormi muraglie di canestri e piatti; le cose più fragili ti capitano ad ogni momento sotto a’ piedi, come bicchieri, cristalli, pignatte, e tutta la batteria di cucina. La mattina della vigilia  di Natale Napoli non è che una immensa cucina, siccome la sera non è che un immenso banchetto. Quasi ad ogni canton di strada vedesi un arsenale di tronaro 2 vale a dire, un venditore di fuochi di artificio. Tutt’i trovati de’ moderni artiglieri non reggono al paragone delle bolle inventate per festeggiare il Natale: ce n’è di ogni dimensione, di ogni nome, di ogni forza, di ogni rumore e di ogni colore. Fulmini innocenti, nunzi di pace e non di guerra, il folgore e il tuono primeggiano tra i colpi.

Tutto questo spettacolo di vita vien peraltro ecclissato da quello che presentano i confettieri, i quali ritraggono in lavori di zucchero tutto  ciò che è esposto in vendila nelle piazze. Per due o tre giorni le botte- ghe de’ confettieri sono talmente ingombre da’ compratori, che spesso non è possibile farsi udire per comprar qualche cosa. E qui è da notar- si, a gloria del nostro popolo, che rimanendo esposti quasi sulla pubbli- ca via e senza custodi i cestoni ripieni di dolci e mostaccioli, non vi ha chi si attenti pur uno derubarne, la religiosa solennità del giorno ispira a tutti sentimenti di onestà, di amore.

1   Vedi la figura.

2      Vedi la figura.

Barbati, e Lambisse sono gli eroi della giornata in fatto di dolci, sic- come il Si Francisco a S. Brigida è il Nestore de’ venditori di salami. Castella di zucchero e fortezze di cioccolatte sorgono alle porte di que’ due Michelangeli della ghiottoneria napolitana, i bastioni di questi ca- stelli sono tenerissimi e i denti vi si affondano con faciltà e piacere, fontane, obelischi, mausolei, ponti levatoi, torri del medio évo, tutto è rappresentato a maraviglia da que’ due abilissimi artisti zuccherieri.

Accresce la giocondità e la maraviglia di questa giornata il donativo Natalizio che la Città di Napoli riverente invia, per antica consuetudine e quale attestato di omaggio e di affetto, all’Augusto Monarca, nostro Signore. Questo donativo racchiude in sé tutta la parte più eletta e squisita de’ cibi di ogni stagione e di ogni contrada.

Tutta la popolazione di Napoli e contorni, e tutti i cinquanta o ses- santamila forestieri che trovansi in questa città, si mettono in mezzo alla strada dallo spuntar del giorno, e vanno, e vengono, e si urtano, e s’incrociano, e chi compra, chi vende, chi corre pel regalo, chi per la mancia, chi per la visita, chi per curiosità; e tutti pel capitone. Il tram- busto, le grida, il pigiarsi, (‘infangarsi, il baccano, la confusione cresco- no col crescer del giorno, e non cessano che al domani. Il dì del Natale tutto sparisce, quasi per incanto; tutte le botteghe son chiuse; tutto è nettezza e quiete.

Intanto, non sì tosto le tenebre cadono su i capitoni e sulle anguille, incomincia un fuoco vivissimo da tutte le parti. Ben diceva un bello spirito napolitano che non si consumò tanta polvere a Waterloo, quan- ta se ne consuma in Napoli per questa occasione. Le barracche de’ nari sono affollale di compratori, ansiosi di cominciar la bolla e la risposta.

Allo scoccar delle 24 ore, e quando Napoli si siede alle centomila sue mense, incomincia lo sparo degli artifizi. I tuoni, le fiaschette, le folgo- ri, le folgori pazze, i tric trac, i fit fit accompagnano i brindisi e le alle- grie della tavola, gli amori galoppano, le dichiarazioni sono coverte da- gli spari, le strette di mano son nascoste dallo stomatico; tutte le fiso- nomie sono gioconde e vermiglie; tutt’i cuori si espandono tutti ciarla- no, ridono; ogni sofferenza sparisce, ogni malanno è posto in obblio; tutti sono ricchi, tutti contenti; i vecchi tornan fanciulli e si mischiano all’ilarità de’ giovani.

Bell’ora della vita è questa! Be’ momenti!

La religione, la famiglia, la carità, l’amore si abbracciano in stretti amplessi. L’uomo malvagio si asside allato all’uomo giusto; poiché que- sta è l’ora in cui tutte le umane colpe son riscattate.

I cibi di rito della cena della vigilia sono i vermicelli, il cavolfiore, i pesci di ogni specie, e massime il capitone e l’anguilla, gli struffoli (pa- sta dolce con miele e tagliuzzata) i mostaccioli, ogni sorta di seccumi, le ostriche, ed altri camangiari di magro, che s’imbandiscono a seconda del gusto e dell’agiatezza delle famiglie.

In un momento cessa per poco tutta l’allegria; e la prece corre spon- tanea alle labbra, come un ringraziamento. È mezzanotte! Compita la processione, di cui abbiamo parlato, il zampognaro s’inginocchia e fa l’ultima novena al Nato Bambino.

L’offerta de’ cuori vola al ciclo pura ed accetta: gli occhi di tutti si riempion di lagrime; il silenzio del raccoglimento succede agli slanci della gioia; le campane suonano a festa.

La pace si spande sulla terra. Gli Angioli ripeton nel ciclo le preci che da tutt’i tempii s’innalzano da’ fedeli ivi raccolti.

FRANCESCO MASTRIANI.

GLI SPETTACOLI POPOLARI LE BAGATTELLE

IL nome collettivo di popolo un’idea inchiude vasta, grandiosa, este- sissima. Un popolo si compone di riefellissimi, di agiati, di, ossia gente di i buoni natali che vive delle proprie fatiche, di poveri di poverissimi; e tutti han bisogno, preciso bisogno di spettacoli, perché il Napolitano non può far senza degli spettacoli: è natura, non diletto: passione, non costume.

Tra gli spettacoli principalmente vanno i teatri. Godono di questi  fino le classi povere; le poverissime non già, perché hanno appena, e non sempre, il quattrino per cavarsi la fame. Fa mestieri adunque che costoro si abbiano altri spettacoli gratuiti, spettacoli popolari. Segui- tando una tal divisione, moviamo da qualche notizia su i teatri napoli- tani.

Come i Napolitani abbiano sempre amalo gli spettacoli scenici, oltre quel che ci dimostrano i fatti, testimonia la storia degli antichi teatri. Ginnasi e Palestre.

Da un frammento in marmo, mezzo greco e mezzo 1. 32 latino, che è nella chiesa dell’Annunziata, —scrive il nostro dottissimo Signorelli 1 — appare esservi stato in Napoli un Ginnasio in fabbrica, costruito nella Regione Termense, la quale si distendeva tra le porte Capuana e Nola- na lino alla contrada di Forcella, caduto pel tremuoto, che abbatté an- cora Pompei ed Ercolano, fu poi ristaurato da Tito Vespasiano come dal marmo stesso si ritrae; anzi, secondo il citato scrittore, fin dal tem- po in cui si mostrava nella nostra città il sepolcro di Partcnopc, vi si coltivarono gli esercizi ginnici e musici, che avean luogo ne’ giuochi Quinquennali, e tra le contese musiche entrava principalmente l’elo- quenza e la poesia.

Secondo il Galanti, nella sua Guida di Napoli e Contorni, l’antico Ginnasio era propriamente dietro il Monte dei poveri, dove oggi è la chiesa di S. Niccola ai Caserti, ed in tal sentenza si accorda benanche il Romanelli, il quale argomenta che questo Ginnasio avesse dovuto ve- dersi nel sito oggi appellato Supporlico de’ Caserti, nel vico del medesi- mo nome presso la Vicaria, dalle antiche costruzioni circostanti a quei luoghi ove tuttora si veggono frammenti di colonne, reliquie di archi- travi, capitelli, di basi e cornicioni 2.

Leggcsi ancora nella indicata opera del Signorelli: «In Seneca abbiati mo un altro testimonio della passione de’ Napolitani per le rappresenti tazioni teatrali e della celebrità che loro ne ridondava. Egli nella cpisto- la 76 si querela della desolazione che regnava nella scuola di Metronat- te il filosofo, mentre il teatro napolitano, pel quale doveasi passati re nell’andare alla di lui casa, si frequentava con indicibile concorso, e con somma cura (ingenti studio) vi si giudicava dell’eccellenza dei Pitauli ed altri personaggi scenici. Continuò a’ tempi di Domiziano ad esser celebre il nostro teatro. Stazio ne fa splendida ricordanza, invitando in Napoli la consorte, che dimorava in Roma, e allettandola con la magni- ficenza degli spettacoli e degli edifici ec.»

Fu in un teatro costruito in Napoli che Claudio recitò una greca com- media, da lui composta ad onorare la memoria del fratello, sottopo- nendola al giudizio de’ Napolitani.

1 Vicende della Coltura delle Due Sicilie.

2    Ved. Romanelli. Napoli Antica e Moderna.

Si ha parimenti dalla storia come Nerone si trovasse nel ginnasio na- politano il giorno anniversario della morte di sua madre da lui ordinata

1 Quest’Imperatore avido innanzi di segnalarsi fra gl’istrioni che fra i grandi Capitani (al dire del Signorelli più volte citato) sul teatro napoli- tano volle far pompa della sua voce ed abilità comica 2 e raccolti gli elo- gi de’ Napolitani Greci, volle poscia esporsi al giudizio de’ Greci Orien- tali, e per ultimo, memore de’ primi applausi, rientrò in Napoli trion- fante alla maniera dei vincitori.

Veniamo ora a ragguagli più speciali.

Il primo teatro stabile edificato in Napoli nel XVI secolo era nel silo dove oggi è la chiesa di S. Giorgio de’ Genovesi, la quale perciò fu detta

S. Giorgio alla Commedia vecchia e fu comprato da questa nazione per dilatare la chiesa e per fondare un Ospedale.

Sotto il viceré Ognatie fu eretto un teatro grandioso nel vico S. Bar- tolomeo, ond’ebbe il nome. «Quivi furono rappresentati i drammi di Metastasio e di altri, messi in musica da Scarlatti, da Porpora, da Vinci, da Leo, quivi si videro le macchie e le decorazioni del Bibbieni e di Gia- como del Po; e quivi furono ascoltate le voci incantatrici della Romani- na e della Tosi. 3 Venne poi abbattuto sotto re Carlo Borbone, che acco- sto alla reggia l’altro magnifico e grandioso eresse di S. Carlo, il quale, nell’ordine cronologico, tiene il secondo luogo, essendo preceduto dal teatro de’ Fiorentini.

FIORENTINI. —(Vico teatro de’ Fiorentini). Questo teatro che ha pre- so il nome della vicina chiesa, delta di S. Giovanni de’ Fiorentini, è il più antico di tutti i nostri teatri perché eretto contemporaneamente al nominato di S. Bartolomeo. Fu istituito ad oggetto di rappresentarvisi commedie spagnuole, e, secondo il Celano, venivano dalle Spagne ra- mose compagnie a rappresentarvi eruditissime commedie nel loro idioma, e fu rifallo nel secolo passato con disegno di Francesco Scarola.

  1. 1        Neapoli molo Galliarum cognovit die ipso quo matrem occiderat, statimque in gymnasi uni progressus, certantes Alletas effusissimo studio spectavit. Svet.
  2. Questa sua smania fece dire al nostro Salvator Rosa:

A poco a poco e’ cominciò a suonare, E potè tanto in lui questo diletto, Che si diede alla fin tulio a cantare.

Quindi per farsi un musico perfetto E cercando dì far voce argentina

La notte il piombo si tenea sul petto»

Sat.  1

  • 3   Galanti — Guida di Napoli e Contorni.

Per certo tempo vi si recitò in musica, ma poi, come tuttora, vi si dà la prosa, sempre con iscelte compagnie, ed è il primo in tali specie di rap- presentazioni. L’archivio di questo teatro è spesso arricchito da eccel- lenti lavori di patrii autori, tra i quali assai grato ci riesce ricordare il Barone Gio: Carlo Cosenza, il decano tra essi, e che per tanti e tanti anni ha scritto per le scene, Michele Cuciniello, Federico Riccio ed al- tri, avvegnaché niun pensiero al mondo si dieno gl’impresari né d’inco- raggiarli né di compensarli.

S. CARLO — (Strada S. Carlo). Questo teatro, il quale non v’ha chi  non conosca, almeno per nome, e che a buon dritto può dirsi il primo del mondo per la sua ampiezza e magnificenza, fu edificato dall’archi- tetto Angelo Carasale, con disegno dell’Ametrano. 1 Cominciò l’opera nel marzo, e terminò nell’ottobre del 1737, e la prima rappresentazione vi si diede il quattro di quel novembre, giorno del nome di Carlo, e quella sera, scrive un nostro storico «l’interno del teatro era coperto di cristalli a specchio, e gl’infiniti lumi ripercossi rendevano tanta luce quanta la favola ne finge dell’Olimpo.»

Nel 1816 incendiossi mentre facevasi un concerto, ma poi con mi- glior gusto e maggior comodo fu rifatto in sei mesi. Nel 1843 e 1844 vi sono state aperte altre scale ed uscite, ed è stato messo nel lustro attua- le. È il teatro massimo per la musica eroica e pel ballo. È uno de’ due teatri reali, ed allorquando, nelle sere di gala, il Re o la reale famiglia vi si trasferisce, offre imponente spettacolo di splendore e di lusso.

S. CARLINO. — (Largo del Castello). Quantunque non si conosca pre- cisamente l’epoca della fondazione di questo teatrino, è pur certo che ad origine monti antichissima 2 sicché, volendo seguire l’ordine crono- logico, crediamo far succederlo immediatamente a S. Carlo.

  1. 1            Nel frontespizio fu posta la seguente Iscrizione composta dal marchese Tanucci, e che oggi non più si vede:

CAROLUS. UTRIUSQUE. 8ICILIAE. REX PUL8IS. HOSTIBUS. CONSTITUTIS. LEGIBUS

MAGISTRATIBUS. ORNATIS. LITTERIS. ARTIBUS. EXCITATIS. ORBE PACATO THEATRUM. QUO. SE. POPULUS. OBLECTARET

EDBNDUH. CENSUIT AERO R. IV. CH A. MDCCXXVII.

  • 2       Ciò confermano anche le notizie che seguono intorno agli artisti comici più antichi di questo teatro.

Né si stimi per avventura che ravvicinare di questi due teatri sia come l’avvicinare un colosso ad un fantoccino, ovvero un gigante ad un pigmeo, che se il teatro S. Carlo per ampiezza e magnificenza incede  sul S. Carlino come gli alti cipressi del cantore di Enea sugli umili vir- gulti, son pure entrambi celebrità, né avvi straniero visitante Napoli, cui dopo S. Carlo, non volga il desio di vedere il nostro picciolo teatro popolare.

Niente infatti è desso gradevole né merita, per la meschinissima co- struzione, ma si per essere l’unico nel suo genere. Vi si rappresenta la commedia popolare, o nazionale che vogliasi dire, cioè le scene ed i fat- ti del basso popolo, con tutta verità, per lo più nel dialetto, e con attori eccellenti nelle rispettive parti.

Facciam seguitare alcune notizie speciali di attori e commediografi  di questo teatro, le quali avremmo volentieri sacrificato a quella parsi- monia che tanto ne piace; ma perché trattasi appunto del nostro teatro popolare le inserimmo.

Vincenzo Cammarano, conosciuto col nome di Giancola, principiò a rappresentare il Pulcinella in S. Carlino nell’anno 1770, ed il suo nome è tuttora ripetuto, siccome inarrivabile nell’espressione di questa ma- schera napolitani Gli successe Luigi Figarra, poscia Gaspare de Cenzo, infine Salvatore Petito che è il Pulcinella presente.

Aldegonda Colli principiò a rappresentare da nell’anno 1801: si di- stinse in questo personaggio d’una vecchia rimbambita che ostenta la giovanetta, e come eccellente artista, ritratti si ebbe e biografie, né altra l’ha mai più convenientemente sostituita finora.

Giuseppe Tavassi principiò a rappresentare il buffo biteegliese nel 1801 al teatro S. Carlino e per lunghissimi anni vi continuò.

Michele Manzi incominciò a rappresentare il buffo tartaglia nel 1820 evi continuò molti anni.

La parte del carattere sciocco fu sostenuta lungo tempo da Eustachio Tremori: Pasquale Altavilla l’ha sostituito, ma rappresenta benanche in altre parti, specialmente nelle caricature e nelle parodie de’ bellimbusti o vagheggiai, o col nome oggi così in voga a Napoli del D. Ciccillo.

Ad Apollo Talia con volto lieto Le maschere presenta del Sebeto.

Così era scritto sopra un antico e bellissimo sipario del teatro, dipin- to da Giovanni Catamarano 1, anche della distinta famiglia artistica onde ci accadde far menzione in queste pagine, ed io nel modo stesso le presento al rispettabile pubblico, tralasciando gli altri graziosi caratteri della compagnia, tra i quali pertanto merita esser nominato il guappo che è la parodia del simile personaggio napolitano di cui facemmo ap- posita descrizione. 2

Fra i commediografi rammentiamo principalmente Filippo Camma- rano, morto nel decorso anno 1850, che ha dato molte opere al nostro teatro popolare, le più capolavori come la Mmalora de Chiaia, la Cuc- cuvaia de Puorto, Annella tavernara de Porta, l’appassiva te de Mon- zù le Roa ed altre. Gli successero come scrittori dello stesso genere Orazio Schiano e Pasquale Altavilla, sebbene non paragonabili al pri- mo.

Nuovo — (Vico lungo Teatro Nuovo). Questo teatro che a dispetto del tempo, non invecchia mai, costruito con disegno di Domenico An- tonio Vaccaro, è il quarto per antichità. Fu istituito a rappresentarvisi melodrammi ed opere buffe in musica; se ne son dati a quando a quan- do, e se ne danno tuttavia, con buone musiche e di valenti maestri. Questo è propriamente il suo istituto: nacque al socco, non al coturno, ond’è che quando da cotesta natural destinazione divia per lo più non raggiungne lo scopo.

È a notare benanche eleggersi per lo più questo teatro dai giovani maestri esordienti come agone a misurarvi il loro valore, e giù parec- chi, in età verde ancora, bella ed onorevole fama accompagna.

FONDO — (Strada Molo). Questo teatro cui venne il nome dal danaro regio alla costruzione di esso allogato, detto cassa dei fondi de’ beni di separazione 3 è il secondo in Napoli per grandezza. Fu edificato nel 1778 da Francesco Seguro, ed è destinato a rappresentarvisi melo- drammi, azioni eroiche o anche buffe, e balletti, proporzionati all’ampiezza del proscenio. È teatro regio al pari di S. Carlo, e le stesse compagnie di canto e di ballo sogliono servire all’uno ed all’altro. Da non molti anni a questa parte di compagnie francesi vengono a darvi rappresentazioni nel loro idioma.

1 Il turpe vandalismo d’una trista compagnia di musica, la quale per buona fortuna non istette in questo teatro che dalla Pasqua del 1849 al settembre, distrusse questo bel lavoro.

2     V. l’Art, Il maestro di bottega ed il guappo.

3 Anche sul frontespizio leggesi — Fondo della separazione de’ lucri dell’anno 1778.

Nel 1847, si diè principio a rinnovarlo ed abbellirlo, e pertanto stette chiuso fino al 1849, in cui riapparve al pubblico elegantissimo e magni- fico come ora si vede. Ha la platea di ferro: è illuminato tutto a gas, laddove lo stesso S. Carlo lo è nel solo vestibolo e fra l’altro una specie di portico costruito per l’uscita delle carrozze che traggono al teatro, af- finché non ne ingombrino l’ingresso, meritevole è d’encomio e d’imita- zione.

S. FERDINANDO. — (Strada Pontenuovo). Questo teatro di bella for- ma, che per ampiezza va collocato immediatamente dopo il Fondo, fu disegnato da Camillo Liondi e costruito nel 1791. Oltre di non esser sempre in azione, ha soggiaciuto e soggiace a continue mutazioni di compagnie; talora vi si dà musica, talora prosa: talora sono artisti che vi rappresentano, talora (ma più spesso) dilettanti, e sovente ottime compagnie tanto de’ primi quanto dei secondi. Se vi si facessero conve- nevoli riatti ed abbellimenti, e maggiore studio in conservarlo si ripo- nesse, certo sarebbe teatro anche più bello.

PARTENOPE — (Largo delle Pigne). Questo piccolo ma grazioso teatro fu costruito nel 1828 dall’Architetto Giovanni Mezzanotte, e presenta precisamente la forma di un ferro di cavallo. Anch’esso ha avuto un av- vicendamento di rappresentazioni, ora in prosa ora in musica, ora di dilettanti, ora di artisti, ma quelli per lo più vi hanno ottenuto qualche successo, e non di rado ottimo successo — imperciocché abbiamo in Napoli sceltissime compagnie di dilettanti — laddove gli artisti, o per dir meglio i guastamestieri, onde questo povero teatro sembra il ricet- tacolo, lo bau di continuo vituperato. Anch’esso avrebbe bisogno di ri- fazioni ed abbellimenti e di esser mantenuto con miglior cura perché i suoi pregi apparissero.

FENICE — (Largo del Castello). Questo teatro, ricavalo da una stalla, lunga pezza alternò i suoi destini tra la musica e la prosa. Ne’ primi  suoi tempi servi alle rappresentazioni in musica, e fu allora che ottime compagnie vi recitarono ed eccellenti artisti. Si vuole che v’abbia canta- lo Lablache; e che il Barbiere di Rossini abbia cominciato quivi le sue barbe, per istender poscia la saponata fino al magnifico S. Carlo.

L’anno 1846 ne tolse l’impresa Tommaso Zampa, il quale con amore paterno, anzi che da impresario, lo fece riattare nel 1848, riducendolo alla decenza ed eleganza in che oggi si vede, né più riconoscibile da quello di un tempo, e fino con la sua platea di ferro, al pari del Fondo e di S. Carlo. La sua compagnia è più che buona per questo teatro, ed egli non risparmia attività e zelo a ben servire il pubblico napolitano che giusto ed imparziale, con la sua frequenza e numero, e piè con la eletta delle persone che vi convengono, gli testimonia il suo compiacimento. Il vestiario e lo scenario è sempre conveniente, in talune opere anzi su| era le aspettative per la proprietà e per l’eleganza: spesso anche pel lus- so.

Aggiugniamo con vera soddisfazione che questo teatro, oltre il mutar continuo di lavori drammatici, viene spesso arricchito da quelli di patri autori, tra i quali primeggia il sig. Luigi de Lise, appositamente. stipen- dialo dall’Impresario, ed i lavori di questo giovane di pronto e ferace ingegno ottimamente ordinati e condotti, come che tratti per lo più da accreditati romanzi francesi, chiamano sempre numerosissimo concor- so.

TEATRO ALLE FOSSE DEL GRANO. Nell’edilìzio detto Fosse del Grano fuori porta Alba, 1 — fondato dal viceré conte di Benevento nel 1608, e così detto perché quivi precisamente le carceri s’istituirono pei tra- sgressori de’ regolamenti annonari—evvi una specie di anfiteatro con ampio terrapieno, ove per lo più manovrano compagnie equestri e gin- nastiche, che è però chiamato anche Circo Olimpico ed ha un prosce- nio abbastanza grande per rappresentazioni drammatiche o mimiche. Vi han rappresentato compagnie comiche in musica ed in prosa. Nè al- tro compongonsi d’un suonatore di puti-puti specie di strumento di latta a forma di pentola, di un suonatore di fischietto (siscariello)di un altro con certo strumento di canne detto scetavaiasse, di un quarto che suona uno strumento di acciaio detto tromba ovvero scacciapensieri, e finalmente di un suonatore di nacchere (castagnette) o di uno o più guagliune che accompagnano la musica battendo le pietre l’una contro l’altra.

1 Questo era l’antico suo nome che le venne dal Viceré D. Antonio Alvarez di Toledo, Duca d’Alha, che la fece costruire nel 1622. Lunghissimo tempo è stata conosciuta col nome di Porta Sciuscella, ma nella innovazione non ha guari fatta dal Corpo di Città ai nomi di molte strade napolitane, ha ripreso l’antico nome.

In altra parte di quest’opera avremo occasione più acconcia a parlare più minutamente di codesti strumenti, e pertanto ci limitiamo qui a farne cenno.

La scimìa ed i cani intelligenti. — Una scimia sovra un organetto, vestila da soldato, fa gli esercizi di schioppo, salta il cerchio, spazza, sfodera e brandisce la spada. Così pure con altro organetto vanno per  la città due cani ammaestrati a saltare i cerchi, a camminar ritti su due piedi per alquanto tempo con una mazzetta tra le zampe.

Il ballo de’ turchi. — Tanto questo spettacolo quanto i tre che seguo- no sono propri del Carnevale.

Lo spettacolo de; turchi consiste in una riunione di cinque o sei laz- zaroni scalzi e in abito alquanto sudicio da turchi che vanno intorno, seguili da una turba immensa di popolo, recando con esso loro una se- dia cd. un tamburo, e rappresentando per le strade una specie di atella- na ovvero di azione grottesca. È questo un ballo che fanno a suon di tamburo attorno alla sultana (un lazzarone vestito da donna) la quale è uccisa a tradimento, poi risorge ec.

Il cacciamole (cavadenti). —Quest’uomo, che rappresenta un dottore spropositato ovvero la parodia della professione, ha una giamberga di color verde carico lunga insino ai piedi, larga smisuratamente e piena di ritagli d’argento appiccati alle falde, alle maniche ed al bavero, con calzoni corti; con parrucca di carta bianca e rossa, ovvero di stoppia onde partono due codini che vengon giù sino ai piedi; ed un occhiale grossissimo. Egli porta sèco una tavola, due sedie ed una cassa che vuole indicare la cassetta per gli strumenti di professione. Salito sopra la tavola egli comincia a cavar fuori dalla sua cassa una tenaglia, un martello, un succhio o somigliante argomento.

Ed ecco dalla immensa corona di popolo che guarda con ciglia inar- cate le mirabilia del dottor fisico, il quale veramente è un mostro di scienza, traendo guai e sospiri comparisce innanzi a lui un maialo che finge soffrire al fegato, e il dottore, esaminatolo dapprima con un eter- no cannocchiale di cartone, e scoperto incontanente ove il male anni- dasse, senza né più né manco, fra gli atroci spasimi del sofferente gli cava fuori un fegato smisurato netto netto con la curatela e tutte le al- tre circostanze.

Poi una donna (anche un lazzarone vestito da donna) spasimante  per dolori di parto è liberata dal sapiente dottore, che per mezzo di due enormi e lunghissime coltella gli apre il ventre posticcio e ne trae un cagnolino o un gatto; e così ad un altro che duolsi di mal di denti strap-

pa un enorme mascellare, e tutte queste scene con gran tripudio e sol- lazzo della festevole brigata che lo circonda, e di cui egli, terminate le sue operazioni chirurgiche, si sbriga da vero sapiente, mainandola con una grossissima canna da lavativo. Anche dei signori, quali si fermano in istrada, quali si fanno ai balconi, per godere di questa buffoneria che è veramente carnevalesca, e d’altra parte appalesa sempre più lo spirito e la vivacità del napolitano, imperocché il cacciamole accompagna cia- scuna sua operazione con mollissime ciarle, nelle quali non manca ar- gutezza unita alla facezia. 1

Zeza. — Ci piace riportar qui appresso questa antichissima e famosa cantata popolare modellata sul gusto delle antiche stellane, e che già tempo, nel carnevale, soleva rappresentarsi da’ nostri lazzaroni per le pubbliche strade con gran sollazzo e risa delle allegre brigate. Ne for- mano l’argomento gli amori di un D. Nicola, studente calabrese, con Tolta figliuola di Zeza e di Pulcinella e le discordie e le risse che avven- gono per tale cagione.

Noi assicuriamo i lettori che quando nulla trovassero di pregevole nella poesia di questo canto carnevalesco dovrebbero sì conservarne memoria per la sua monumentale antichità e popolarità; che nulla è così conosciuto presso il nostro popolo quanto il canto di Zeza.

Ora non si ode più nelle pubbliche strade e solo talvolta il teatro Se- beto lo aggiugne, nel carnevale, a’ suoi sanguinosi cartelloni per molce- re probabilmente e medicare le ferite ancor fumanti di sangue di Buo- vo d’Antona e Bruno da Forlì i quali si addormentano al dolce canto di Zeza come un antico cavaliere al canto d’un bardo o d’un giullare.

1  Vedi la figura.

DE MATREMMONIO MPERSONA

DI D. Nicola Pacchesecche, e Tolla Cetrulo, figlia de Zeza, e Polecenella.

Poi. Zeza vi ca mo esco, Stalle attienta a sta figliola,

Tu che si mamma dàlle bona scola Tienetella nzerrata

Nu la fa prattecare

Ca chello che non sà se pò mparare. Zez. Non nce pensare a chesto Marito bello mio,

Ca sta figlia me l’aggio mparat’io, Io sempe le sto a dire

Na femmena nnorata

Vene chiù de tesoro assai stimata. Poi. A me m’è stato ditto,

Ca sempe da ccà ntuorno

Stace n Abbate 1i de notte e de juorno: Si nce lo ncatacoglio

Na bona mazziata

Da no piezzo le tengo preparata. Zez. St’Abate, che tu dice,

Io mai nun aggio visto,

Ogge simm’a no munno troppo tristo: Le gente de sta Chiazza

Te vonno arroinare.

Perzò ste cose te stanno a portare. Poi. Sarrà comme tu dice,

Io mo mme n’aggio ajire, Tolla sta alla fenesta, Mogliera stance attiento, Pensa ca so nnorato

No fa che torno ncasa mmalorato.

Zez. Si pazzo si lu ccride, Ch’aggi’a tenì nzerrata

Chella povera figlia sfortunata, La voglio fa scialare

Cu ciento nnammurate ,

Co Milorde, Signure, e co l’Abate. Toll. Nè Mà che fai cca fora?

Sol’ aggio da lavare?

A lo manco va frase a cocenare, Si Tata quanno vene,

Non trova cocenato;

Te face revotà sto vecenato. Zez. Sì figlia, dice buono, Trasetenne tu pure,

Se Tata vene te rompe li ture, Non te fa ascia cca fora,

Ca chillo te carosa,

O allo manco te fa bona ntosa. Toll. Zitto mamma che beco, N’è chillo D. Nicola?

Mo proprio sarà asciuto da la scola. Si chisso me volesse,

lo me lo sposarria,

E chiù nnante de Tata no starria.

D. Nicol. Mannaje tutto lu Munno, Stu spanto di biddizza,

Comm’ a Sumarro mi tira a capizza, E bedda, e graziosa,

Pi chidda facci bedda

Mi sentu veni già la cacaredda.

1 E da notare che sino al declinar del secolo passalo la più parte degli studenti, specialmente calabresi vestivano, forse per economia, l’abito clericale.

Toll. Viale chi ve vede Si D. Nicò eh’ è stato,

De mine veni a trova non ve degnate? Fuorse quarch’ auta bella

Im core v’ ha feruta

E a me a lo pizzo m’avite mettuto.

D. Nic. A mia dice sta cuosa Pi tti lu curazzali

A lu pettu mi sentu stritulari, Eu sugno intr’ a lu focu, Curuzzo ; cajaredda,

Mi spiticchiu pi cchista faccia bedda. Zez. Crediteme si Abbate,

Sta povera figliola

Sbarea sempe quanno stace sola, Pensanno all’ussuria

No ppo trova arricietto :

E sempe a na vrejala int’a lo pietto.

D. Nic. E eu pe sta quadrana Mi vio nzallanuto,

Pe issa lo ciriviello aju perduto. Non penso a studiare,

No vaco Mmecaria,

Curuzzo meu, sempe pensanno a ttia. Toll. Pe ite aggio lassato

Sì abbate no Marchese,

Che me volea sposa int’a sto mese, Non penso cchiù a nisciuno,

Tu m’aje da nguadiare

Se no io stessa me vaco a scannare. Poi. Senza che tu te scanne

Te faccio io sto servizio.

Zez. Mari ferma c/te vaje mprecipizio Toll. Via Tata mio perdoname,

Chiù non lo boglio fare.

Poi. A tutte duje voglio addecreare Ma a chesso tu nce curpe

Vicaria scassata,

Pe mo tienete chessa mazziata, Si tuorne nauta vota,

A bbenì a sto contuorno

Non te faccio campare n’autu juorno.

D. Nic. Mannaja li vischi tuoi,

mia sta vastonata

Ti vogghiu minori na cacafocata, Mo vajo a lo Catojo

Pigghiu lu cacafoco ,

E mi ti vogghio accidere a chistu loco . Poi. Tu te ne si fùjuto

Pacchesicche frustato

Meglio pe te si non fusse nato : Si nauta vota tuorne,

Te voglio addecreare

Manco treghiuorne te faccio campare. Zez. Aje fatto na gran cosa

Tiratele lo vraccio.

Poi. Zezavattenne, ca sa che te faccio. Zez. Che m’hai da fa vavuso?

Lo pietto che t’afferra!

Poi. Proprio cca mmiezo volimmo fa Toll. Tu proprio si ncocciato. (guerra. De non mme mmaretare,

Te voglio fa vede che saccio fare. Poi. Che aje da fa muccosa,

Tu me faie esse mpiso.

T.(2 Tu che cancaro ncapo t’aie z.(        (miso

I). Nic. Arretu vastasuni, Eu t’ajo a la tagliola;

Ti vogghiu fa vidi chi è D. Nicola, Ti vogghiu fa passa tanti virrizzi Di tia ne vogghio fa tanta sauzizzi. Poi. Pietà, misericordia;

Io aggio paz siato.

Zez.Vi comme tremma mo lo sciaurato,

. D. Nic. Bennaju li vischi tuoi, Cu tanti vastunati,

Li carni tutti m’hai tritulati. Toll. Si tu me vuoie bene Non m’accidere a Tata,

Non me fa lenì a mente stajornata. Nennillo de stu core,

Fattillo bello mio,

Fattillo mo passare sto golia.

D. Nic. Lo perdono pi ttia, Pi ttia lu lascia stare,

Mo iddu a mia t’au da danari, La vogghiu pi mogghieri.

Che dici sei cuntenti ?

Truculuni nu parli, nu mmi senti? Pol. Gnorsì songo contento,

Maje chiù na parola

Non diciarraggio a lo si D. Nicola Non parlo pe ccient’anne

Songo cecato, e muto,

Starraggio a casa comma no paputo. Zez. Via dateve la mano

Puzzate godè ncocchia,

Pol. Una ne cade, en auto ne sconocchia Toll. Marito bello mio

D. Nic. Mugghiera de stu core. Tutte faccia godè Copint’amore. Poi. Nzomma dint’a li guaje

Mo songo li contiente,

Zeza jammo a mmitare li Pariente E tutti sti signuri,

Che so state a sentire

A lu banchetto facimmo venire.

Formano altro spettacolo carnevalesco le cosi dette cantate che fan- no i lazzaroni, in un certo numero, coprendosi d’un berretto onde pen- dono lunghissimi nastri, e con altrettanti appiccati alle maniche della giubba, d’una veste bianca, ovvero a quelle d’un’elegante e ben pieghet- tata camicia; e di questi tale rappresenta il fruttaiuolo, tale il giardinie- ra, tal altro il pescivendolo, e così van per le strade cantando strambot- ti o alternando cantilene. Per lo più queste riunioni formano le serena- te che gl’innamorati del nostro popolo fanno alle loro belle. Anche di queste si veggono ora rarissime e non più come quelle d’un tempo face- te e spiritose.

Le bagattelle—Fra tutti gli spettacoli popolari primeggiano le bagat- telle (i burattini) le quali per tal preferenza meritano un trattatello al- quanto più esteso.

Il secolo che ovunque passa lascia l’impronta di sè, il progresso, que- sto mago, che in modo prodigioso trasforma e strade e città e tutto, ha tramutato sì il molo de’ nostri padri, il molo storico, il molo delle tradi- zioni in una bella, pulita ed ampia strada, in una amena passeggiata, ma che monta ciò? Il più elegante bulino odierno varrà egli a ritoccare degnamente un’onice di veneranda antichità: la mano del più egregio artista del secolo che corre sarà tanta da aggiugner pregio ad una tela del Buonarroti o dell’Urbinate avvegnaché oscurissima, e quasi da non più ravvisarsi? Io piango sulle illustri e monumentali celebrità del molo, come Mario sulle rovine di Cartagine, io piango sulle illustri esu- li del molo— sulle raminghe bagattelle.

http://www.eleaml.org – Febbraio 2016

Eppure chi sa? Il secolo che comincia a render giustizia al franfellic- co, che va tornando in onore, vorrà renderla del pari alle bagattelle— Speriamo!

Respondei factis nomina saepe suis diceva il poeta, ma questa sen- tenza, così vera in mille casi, è affatto falsa a proposito delle bagattelle che volgono sempre sovra argomenti importanti siccome or ora vedre- mo. Consistono le bagattelle, ovvero teatrino ambulante di burattini in una torricciuola quadrilatera ed alla, di legno, vestita all’intorno di tela, e che alla parte superiore, dall’un de’ lati, ha una buca, con fondo di scena, o senza (secondo le condizioni e dignità del bagattelliere) la qua- le forma il proscenio nelle rappresentazioni. In questa torricciuola en- tra un uomo, che vi si tien nascosto, e per la buca fa agire de’ burattini, che porta seco in un sacchetto, rappresentanti commediole che egli im- provvisa al momento, ma per lo più azioni tragiche nelle quali non manca mai Pulcinella, personaggio principale, anzi protagonista delle bagattelle. 1

L’impresario, artista drammatico ed autore trasporta egli stesso sulle spalle il suo teatrino ambulante, la cui comica compagnia si compone costantemente di Pulcinella, di Colombina, di e di Capotai Fasulo im- mancabili come Pantalone de’ Bisognosi, Lelio e Brighella nelle com- medie di Goldoni.

Sia eroica, sia tragica, sia ridicola, sia favolosa la rappresentazione che dà il nostro autore, egli è ad ammirar veramente, non meno l’abil modo onde fa muovere ed agire i suoi fantocci, che la prontezza dell’ingegno nel piantare è condurre un argomento. Ecco per esempio: Pulcinella è innamorato cotto di Colombina sorella di Coviello; il quale si è già accorto degli amori clandestini, ma niente ama chi si effettuisca un tal matrimonio — Pulcinella coglie il destro dell’assenza di Coviello e va ad un segreto abboccamento con la sua innamorata, quando ecco l’implacabil nemico, che il tien d’occhio continuamente, io colpisce mentre esce dalla sua casa (di Coviello). Qui aspre parole si avvicenda- no tra loro, le quali pertanto son tutt’altro che tragiche — Si viene ad un duello — Le armi sono ordinariamente due bastoncelli, onde i due avversari si pestano così bene e si dàn sì bei colpi da far tremar l’Asia  e l’Epiro. Un solo basterebbe ad atterrare, imperciocché si colpiscono sempre in testa e sull’osso del collo, ma le sono una eccezione alle mi- serie umane, giacché non pure niuno de’ duc soccombe nel terribile conflitto, ma spesso lasciano i bastoncelli ed afferrano due spadoni,

1  Vedi la figura.

più terribili di quello di D. Diego Garcia quando ammazzò quel formi- dabile loro che sapete: e tic tac—botte dritte, finte cavate e cartocci, Pulcinella ti spaccia magnificamente il signor Coviello, piantandogli una spada nel petto fino all’elsa, non altrimenti de’ nostri cuochi quan- do infilzano i fegatini — Vedete un po’ se queste cose meritano il nome di bagattelle! Intanto il pubblico ride e non vuole spasimare come i let- tori della Margherita Pusterla.

Lo sventurato Coviello rovescia bocconi sulla scena, ossia sull’orlo della sua buca teatrale. Corre allora la povera Colombina e ti schicche- ra una lamentazione sul cadavere fraterno che farebbe scorno al di- scorso di Achille sull’estinto amico, ma l’ira di lei non è simile a quella del grande eroe contro di Ettore. Ella va dolorando sì il perduto fratello ma quell’etcrnissimo amore che non lascia neanche le bagattelle la fan- no compassionevole verso il suo Pulcinella — Invano — Fatto palese l’omicidio Caporal Fasulo, personaggio tragico più del Filippo d’Alfi- cri, viene con modi imperiosi a chieder conto dell’accaduto al reo. Cre- dete voi che questi si avvilisca o discenda alla bassezza d’una  discolpa?

  • Oibò: questo cose accadono nella società umana, non sulle bagattel- le. In quella vece Pulcinella risponde all’aspro soldato impugnando di bel uuovo la spada ed invitandolo a misurarsi seco. Ed ecco un secondo duello nel quale Pulcinella manda all’altro mondo questo secondo av- versario nello stesso modo del primo. Quest’altro omicidio’ rende im- placabile la giustizia contro Pulcinella. Vengono i birri, te lo acchiappa- no, lo gittano in una prigione; di lì è menato alla forca—con grande soddisfazione degli uditori, ciascun de’ quali vorrebbe appiccarvi ben altri rei che Pulcinella. E statevi bene.

Gli argomenti variano poi sempre secondo l’estro e la volontà del commediografo, e questa è una delle centomila catastrofi.

Tante volte l’infelice vittima del duello è Pulcinella, che risorge spes- so dopo morto—Tante volle, quando l’opera è mitologica, Pulcinella è trascinato all’averno: ivi stringe amicizia con Berlich e Berloc, satelliti di Plutone, per la cui opera è salvato e ridonato al mondo.

Numeroso cerchio di persone, napolitani e forestieri, signori e ple- bei, assiste a queste rappresentazioni che pe’ lazzi e facezie onde ab- bondano muovono le più alle risa.

Così l’originalità di Shakespear, le stragi di Hugo, il terrore di Alfieri, sono bizzarramente innestate sulle bagattelle col comico di de Petris e di Cerlone e con le buffonerie di Pulcinella, e di qui anche di leggieri può argomentarsi che uomo sapiente e che specie di autore drammati- co sia il bagattelliere.

A tale proposito non taceremo il nome di Michele Barone ora, per di- sgrazia dell’arte, defunto, celebre bagattelliere del molo il quale— e bene il ricordo—illuminava il suo castello, vi appiccava un annunzio di quello che voleva rappresentarvi; avea numerosissima udienza, e no bili signori traevano in copia ed in magnifici cocchi ad udirlo.

I bagattellieri guadagnano lino ad otto, e dieci carlini in un giorno di loro rappresentazioni, segnatamente quando si avvengono in generosi forestieri, come suole accadere al largo della Villa Reale ovvero alla bella riviera di Chiaia, Ih dove per esservi grandiose locande, forestieri di alto conto facendosi ai balconi soccorrono questi poveri commedio- grafi ambulanti. I quali oltre delle rappresentazioni che dònno per le pubbliche strade, vanno anche nelle case private a divertire le famiglie che li vogliano. Si trasferiscono ai paesi circonvicini e specialmente a Castellammare, allorché la bella stagione invita quivi napolitani e stra- nieri alle aure vivificanti degli ameni colli, alle feste ed al sollazzo; e così pure nei giorni in cui le sante istituzioni della nostra Chiesa vieta- no gli spettacoli. pubblici in Napoli. Allorquando le fiere chiamano il concorso nelle altre città del regno traggono quivi col loro teatrino por- tatile. Taluni sono a stipendio de’ proprietari deìeatri d’infimo ordine,  o pure di cantambanchi o giocolieri, e servono ad intrattenere il pub- blico negli intervalli tra uno spettacolo ed un altro.

Questi e simigliami sono gli onesti divertimenti che l’invidiosa po- tenza dell’oro non può vietare all’indigente ed al mendico; ché ciascuno su questa terra, grandissimo o piccolissimo che sia, aver debbe i suoi conforti ed i suoi dolori, il suo bene ed il suo male, le sue pene ed i suoi divertimenti; in una parola, il suo piccolo mondo.

ENRICO COSSOVICH.

LA storia di un popolo come il napolitano è la storia dei suoi piaceri, delle sue feste, de’ suoi rumori, non vi ha giorno dell’anno, in cui esso non abbia occasione di abbandonarsi a quella naturale gaiezza, a quella spensierata giovialità, che forma il fondo del suo carattere; egli riveste co’ colori della sua vivace immaginazione i suoi passatempi più consue- ti, e tanto li abbellisce, li anima, che que’ sti divengono straordinari e sempre nuovi.

Vi sono giorni di feste, pe’ quali il Napolitano dura con piacere un anno intero di fatiche, l’immagine dei sollazzi, a’ quali si abbandonerà in que’ giorni gli fa spesso dimenticare le asprezze di una vita povera e stentata. Che diremo, quando alla tendenza pel divertimento innata nel cuor de’ Napolitani si aggiunge l’occasione di esternare a’ loro Principi quell’affetto di cui questo popolo ha dato sì luminose prove, e che è tanta parte della sua vita?

Che diremo di quelle feste in cui questo popolo rivede in mezzo ad esso la Real Famiglia, che gli si congiunge negli atti di pietà e nell’espressione del sentimento religioso?

La festività del dì otto settembre, sacro ad onorare la ricorrenza del Nascimento di Nostra Donna, è per noi una delle più liete e delle più solenni giornate. La divozione per la Beatissima Vergine è così univer- sale, così sentita in tutte le classi del nostro popolo, che tutti non han- no che un sol pensiero, un sol accento nella manifestazione esterna di questo culto che trabocca e si spande e veste le sembianze del diletto.

Giace a piè del lungo scavo del monte, che da Pozzuoli prende il nome, un modesto santuario, consacrato a raccogliere i fedeli a solita- rie preci rivolte alla Madre di Dio. Questo tempio, così semplice e nelle cui mura non vedi ordinariamente che pescatori, marinari ed altra gen- te di questa povertà, addiviene nel giorno solenne di settembre ricchis- simo di pompa, di onori, di gente infinita che tragge a visitarlo. Il Mo- narca delle Due Sicilie e la Regal sua famiglia si prostrano anch’cssi ri- verenti ed umili a’ piè di quella Donna che con occhio sì benigno guar- da a questa bella parte d’Italia e vi spande le grazie della sua efficace protezione.

Da tutt’i più remoti quartieri della Capitale e da tutti i punti del Re- gno si conducono i fedeli a visitare il santuario di Piedigrotta, non vi ha provincia remota che sia che non mandi il suo contingente, sicché, molti giorni innanzi della festività, vedi arrivare in questa Capitale im- menso stuolo di ospiti novelli di ogni celo, e massime degli uomini di campagna, i quali abbandonano per poco i loro campestri lavori e con le loro famigliuole si recano in Napoli a godere di quella festa civile, militare e religiosa unica al mondo. E diciamo unica al mondo, peroc- ché in verità non sappiamo di altra che riunisca tutti gli elementi socia- li in una sì bella manifestazione di ossequio alla Religione.

Lunghesso la strada di Toledo, S. Lucia, il Chiatamone, la Riviera di Chiaia, è uno spettacolo imponente fin dalla vigilia della solenne festi- vità. Gruppi innumerevoli di contadini dalle fogge più curiose e svaria- le si veggono trarre a piedi verso il Santuario di Piedigrotta.

Questa generazione che si reca a compiere l’omaggio di una visita  alla Vergine compendia una storia secolare di rimembranze affettuose, di care gioie derivanti dal cielo. I padri han narrato a’ loro pargoletti fi- gliuoli la bellezza, lo splendore, la solennità del dì otto settembre, e i fi- gliuoli sospiravano il momento di trovarsi spettatori della più memora- bile delle feste Napolitane. Per tal guisa nelle famiglie è caro il ricordo, son vive le immagini che per tradizioni si tramandano di questa gior- nata.

Già le fresche aure di autunno incominciano a dissipare gli ardenti calori della stagione estiva, sì che bello è vedere quelle moltitudini di visitatori del Santuario, dopo aver adempito al divoto ufficio, sperpe- rarsi nelle adiacenti campagne e ivi trattenersi in onesti svagamenti, in merende di fichi e d’altre frutte, in passeggiate sollazzevoli.

Altro non men grato spettacolo offrono le principali strade per le quali il Real corteggio e l’Esercito debbon passare; presso che tutt’i bal- coni, terrazzini e terrazzi son coverti da ampie tende destinate a scher- mir da’ raggi del sole le più gentili damine, che han tanto sospiralo il ri- torno del dì otto settembre, per vedersi fatte segno agli sguardi di una sempre crescente calca di giovani. Sulle terrazze e su i balconi de’ primi piani vedi sorgere quasi per incanto, padiglioni, chioschi con file di se- die, di cui ciascuna acquista un prezzo elevato a seconda d’una maggio- re o minore prossimità del luogo. Anche il mare fa di sé bella vista; dappoiché nel nostro golfo, fin dallo spuntar del mattino, vedi ornarsi di graziose bandiere, quali abiti di gala, gran numero di legni nostri e stranieri, i quali con bello avvicendarsi di salve dovranno nelle ore po- meridiane allietare la festa.

Al veder quella folla così compatta nelle strade, in su i balconi e da per lutto, non potrebbesi creder giammai che tutte quelle centinaia di migliaia di spettatori potessero trovar posti per godersi della vista del Real corteggio, tanto più che gran parte delle pubbliche vie è occupata dalle milizie schierate in doppia fila. Le sommità de’ palagi, i balconi, le finestre e dovunque apresi un varco tra le mura apresi un varco ad un folto gruppo di teste umane: eppure nessun disordine, nessuna rissa, nessuna baruffa succede tra tanto movimento, tra tanto affollarsi, tra tanto desiderio di veder l’amato Sovrano e i Regali Principi.

Non parliamo della bella mostra che fanno di sé le Regali nostre sol- datesche nelle loro svariate e brillanti divise di gran tenuta; non dire- mo dell’irreprensibile aggiustatezza delle loro marci e fermate, del bel con! legno marziale congiunto in esse ad un aspetto di compunzione e di umiltà religiosa. E siffatto aspetto, e siffatto contegno attirano le simpatie, il rispetto e l’ammirazione non pure de’ concittadini, ma de- gli stranieri tutti che in gran copia vengono a godere della festa dei dì otto settembre. Questo sentimento di ammirazione che sentiamo per le nostre milizie non si scompagna in noi da viva riconoscenza pel nostro Augusto Sovrano che tanti pensieri e tante cure e tanto affetto prodiga- lizzava per render sempre più bello ed onorando il nome di soldato na- politano.

Istituita dall’immortal Carlo III pel ricupero del Regno, volge ormai più di un secolo che questa festa di Piedigrotta rallegra lo spirar dell’estiva stagione ed il cominciamento dell’autunno. Essa può con ra- gione addi mandarsi la più grande delle feste napolitano, e per la parte che vi prendono tutte le classi della popolazione e per la solennità reli- giosa, che, in vero, il ricorrimento del nascimento della Madre di Dio è tale che infonde in tutt’i cuori sensi di entusiasmo, di amore, di giocon- dità.

Per toccar qualche cosa della cerimonia militare, diremo che  all’una

p. m. suol cominciare il difìlarsi’ delle milizie, passando dinanzi alla Reggia sotto gli sguardi di S. M. il Re, che con S. M. la Regina e con tut- ta la Famiglia Reale intralliensi ad osservarle dalle ringhiere. Le Reali milizie si dispongono quindi in ala lungo la strada che dovrà percorrer- si dal Real corteggio. Una salva di tutte le fortezze della capitale e di tutt’i legni nazionali ed esteri schierati nel golfo dà il segno dell’uscire del Re e della Real famiglia dalla Reggia. È questo il momento più bello e più solenne; un rispettoso entusiasmo muove da ogni petto alla vista dell’amato Sovrano che adempie in tutta la pompa delle umane gran- dezze al volo solenne de’ suoi Augusti Genitori.

É noto che in Napoli è tale il desiderio di vedere questa festa, che appo il minuto popolo le mogli fanno porre nelle scritte nuziali la con- dizione di dover il marito portarle almeno una volta alla festa di Piedi- grotta. Il marito mio portamence è proverbiale nella nostra plebe; sic- ché può dirsi che se i forestieri dicono veder Napoli e poi, i Napolitani dal canto loro dicono veder la festa di Piedigrotta e poi morire.

Ma più che il giorno otto settembre, la vigilia è notevole per gli appa- recchi, per lo affaccendarsi delle famiglie, pel trambusto delle case, per le notturne spedizioni, pe’ canti, suoni e balli che rallegrano le vie nel cuor della notte precedente al dì della festa. Stuoli di popolani, sciami di contadini, carrozze di gentiluomini e di dame, compagnie di fore- stieri, veggonsi ingombrare la Riviera di Ghiaia, la Villa Reale,, aperta in questa occasione ad ogni maniera di persona, e pigiarsi appo i din- torni del Santuario di Piedigrotta. Le circostanti campagne, le bettole, le botteghe da caffè sono assediate da’ visitatori; liete danze di foroselle s’intrecciano al suono delle nacchere e de’ tamburelli, la tarantella classica e tradizionale spiega in questa congiuntura la grazia de’ suoi passi, che sono tutta una storia di amori.

Tra i venditori che in questa festività spiegano nelle vie le loro tende, a mo’ degli arabi, primeggia il to, vale a dire il venditore di giocherelli  di pasta di miele. Tutto quello che può sedurre i fanciulli è spiegalo sul banco di questo venditore che si stabilisce sempre dappresso alle chie- se, dove i fedeli sono chiamati in gran numero per qualche solennità o qualche festa. Noto è il proverbio napolitano: Vai currenno comme la banca de lu torronaro. I giocherelli di pasta di miele o di mandorlati che questo ambulante industrioso mette in mostra ed in vendita rap- presentano per lo più mazzuole, cerchi, cavalli, castelletti, figurine di uomini e di donne ed altro. Per darne un’idea più compiuta cd esatta preghiamo i nostri lettori di gettare uno sguardo sulla figura che il ri- trae fedelmente.

FRANCESCO MASTRIANI.

QUANTE volte accolgonsi in crocchio donne maritate, poste di ban- da le vanità e le ciance femminili, niun altro peni.) siero par che le oc- cupi se non del proprio stato, e ’l narrarsi a vicenda le dolci cure e le amare di quel giogo che, al dir del poeta, piace tanto a chi non l’ha

«quanto dispiace a chi se l’addossò» e noi, se non ne avesse scapitato la brevità, ci saremmo un pò divertiti, presentando ai lettori per modo di scena, uno di quei dialoghi animatissimi che a proposito d’una gravi- danza, d’un fanciullo infermo, d’un matrimonio o simili han luogo tra le signore mogli, cominciando dalle ventiquattr’ore e terminando a ma- lincuore verso la mezzanotte.

In tutti questi discorsi può osservarsi quel che generalmente nella umana famiglia si osserva, come cioè diversifichino i giudizi a seconda delle speciali condizioni, sensazioni o capricci, ed in conseguenza l’una cosa piacere ad una che all’altra dispiace, l’una donna desiderar figliuo- li che l’altra disvorrebbe; all’una piacere vispi e monelli che l’altra desi- dererebbe docili e pacifici; e via dicendo chi la pensa ad un modo e chi ad un altro. In un sol punto le donne si accordano |perfettamente ed è quando il discorso cade sulle nutrici o a dir meglio su molte di questa classe; escludendo certamente le buone ed anche ottime che vi sono.

Che anzi protestiamo come laddove la verità e fedeltà di narratori dall’ima parte ci obblighi a nulla tacere di ciò che presenta i difetti di una gran parte di esse, dall’altra non sapremmo abbastanza ammirare quelle che per lunghi e fedeli servigi, per una costarne e verace affezio- ne di sé bella fama lasciarono ed onorata; di qualità che le famiglie non pure ne fan lodi ampissime, ma più ancora in pregio le tengono ed in amore.

Epperò, della più parte sempre intendendo allorquando le madri odono a parlare di nutrici si segnano tutte insieme come i bambini al nome della befana; allora un brivido corre ad un tempo per le vene di ciascuna; ed è un sol dolorare di tutte quelle cui toccò la bella ventura di avvicinare questa specie di donne, ed un narrare di tutte, quale l’una quale l’altra avventura occorsale a cagione di costoro. Credo infatti che le buone madri implorino ginocchioni da Dio non faccia incorrerle in simigliante disgrazia: le liberi dalle nutrici come dal folgore e dalla tempesta, non essendovi mica a dubitare tra i mille e svariati tormenti i quali pur troppo il cuor materno di continuo travagliano un de’ più grandi esser certo quello di vedersi una madre astretta per qualsiasi ra- gione, di scarso latte, di malore, di subita novella gravidanza o altro a comprare a prezzo di sangue la vita de’ propri figliuoli da una di coleste prezzolate.

Vengono le nutrici ordinariamente dall’isola di Procida, da Fratta- maggiore e da Frattapiccola (distretto di Casoria) da Marano (di Poz- zuoli) dar Miano (distretto di Napoli) da Sorrento (di Castellammare) tutti contorni di Napoli; come pure da Arienzo, Piedimonte d’Alife, Formicola in Terra di Lavoro, e da qualche altro luogo. Laonde non di rado la gita per cercare una nutrice diviene una gita campestre, ma te- sté vedremo quanto spesso un breve sollazzo si converta in lungo pian- to.

Il lettore clic. da ciò che lesse in queste pagine, e forse più da quanto avrà avuto la disgrazia di sperimentare, avrà concepito troppo giusto orrore per le serve, dovrà inorridire anche più all’udire delle nutrici (in generale) le quali alla malvagità delle prime uniscono la baldanza e l’indipendenza, perché la nutrice, come vedremo, è servita non serva.

La nutrice, dunque, è una specie di serpe, ma che dovete custodire gelosamente nel vostro tetto; nutrire abbondantemente del vostro pane; colmare di benefìzi onde verrete con usura rimunerato a via d’ingratitudini e di disprezzi, che dovete impinguare del vostro danaro; riscaldare, dirò così, del vostro fiato; e più che altro, cui dovete sogget- tarvi come a vostra assoluta padrona, e di tutto ciò la ragione è chiaris- sima. Ella è l’arbitra della vita del vostro figliuolo, che dalla salute e dal ben essere di lei la salute e la prosperità del vostro figliuolo dipende; ella, nemica giurata della vostra pace, vi pone quotidianamente nel ter- ribile bivio o di perdere la libertà o di danneggiare il vostro figliuolo; ella, implacabile ed irremovibile come il destino, nulla di ciò che altrui non piace le cale, ma quella via imperturbabilmente prosegue che si è tracciata e vagheggia. Su tali princìpi è inutile venir ragguagliando che cosa importi e che cosa esiga una nutrice.

Primamente non è a dire quanta diligenza ed avvedutezza ponga una disgraziata famiglia affin di trovare ciò che v’ha di meglio in questa classe. Un poveruomo percorre tutti i villaggi, tutti i paeselli, e se fa d’uopo le provincie; sollecita gli amici, supplica, scongiura, promette, profonde danaro a diluvio; alla fin fine trova una nutrice. Il medico, dal quale la fa osservare, esamina la conformazione delle mammelle, lo stato della salute, la vigoria, il colorito; fa pruova del latte; prende con- to della età; e dopo tutti questi esami e saggi, conchiude che la donna. essendo bruna ha buon latte; che è questo leggiero, in conseguenza  non può nuocere al poppante: e, lode al Cielo, entra finalmente in casa questa gioia! La nutrice non viene in vostra casa per prezzo minore di otto in nove ducati. Ne riscuotono poi dicci ed anche quindici al mese e dalle famiglie magnatizie ricevono finanche mesate a vita.

La nutrice ba bisogno assoluto di fare buon latte, e come esprimere quante cure soavi ed indefesse, quanti sacrifizi non debbono farsi affin- ché questo latte non acidisca, non si agiti, non si commova?—Però i bocconcini più delicati, i più squisiti manicaretti e leccornie sono per la nutrice, ed il Ciel vi guardi darle mangiare o ber cosa che non le aggra- disca. Sia il caro de’ ’viveri pur quanto si voglia, le carni più elette, il miglior pesce debbono comprarsi assolutamente per la nutrice.

Così nna signora mal consigliandosi una sera di dar delle uova per cena alla nutrice, costei le rimproverava dover per le nutrici serbarsi il migliore tra il miglior che v’abbia; assai maravigliare come le presen- tassero uova, ma attendersi in cambio alla più squisita maniera di pe- sci! Le famose cene Sibaritiche sarebbero poca cosa a contentare una nutrice.

Nè basta che sieno i cibi migliori, ma bisogna anche sieno i più sani e delicati, affinché un’igiene regolare e convenevole produca alla nutrice con una perfetta digestione sano e buon latte.

La nutrice entra in vostra casa col fermo proponimento di mettere  ad usura il proprio capitale; di far poco e guadagnar molto; di far male e guadagnar bene, infine di provvedere in modo alle sue cose che anche voi la congediate cada, come suol dirsi, sul morbido. Procedendo in conseguenza su tali princìpi filantropici non solo trova sempre scarsis- simo quello che le date, ma vi domanda di continuo roba nuova, che  voi siete obbligato a farle per non disgustarla, e questa roba non ado- pera ma conserva pe’ futuri eventi. v Se la nutrice vi serve male, o per meglio dire se vi favorisce male, perché le nutrici, come dicemmo, non servono; se, non ostante ponghiate ogni studio in ben nutrirla, in com- pensarla largamente, in donarla di continuo, in soddisfare perfino il menomo de’ suoi capricci, senza misura, ad occhi chiusi, e direi anche balordamente, ove una tanta liberalità non fosse abbastanza giustifica- ta dall’amor di genitori; se, non ostante tutto ciò, duolsi di voi e bor- botta e maledice alla sua condizione, a voi tocca zittire, e non solo zitti- re ma per sopravvanzo chiederle scusa, carezzarla, lodarla, raddoppia- re di cure, procacciar se vi fosse possibile, alcun poco di nettare da pre- sentarne la vostra Ninfa; perché se non fate così, se vi adirate, se fate valere le vostre ragioni, se per un mal consigliato orgoglio pretendete far rispettarvi dalla nutrice, buona notte: si acidisce il latte, non fa più buon sangue, e il vostro figliuoletto pagherà la pena della vostra im- prudenza: ovvero la nutrice grida il triplo di voi, minaccia di piantarvi, o vi pianta in effetti nel momento in cui, più che mai, avete bisogno di lei; nel momento più urgente e pericoloso, alloraquando il vostro bam- bino non può assolutamente spopparsi, sia per età assai tenera, sia pel caldo della stagione, sia perché comincia a mettere i denti.

Che fare in tal caso; quale risorsa?—Mandar via la nutrice?—Oibò: sareste un cattivo, un disumano, un empio, un padre, una madre disaf- fezionati, parricidi! Oibò: tenete con voi la nutrice, chiedetele perdono, e ponete mente a non ricader più nella scapataggine di risentirvi.

‘Quando la nutrice per poco si avvede che il fanciulletto le si è affe- zionato, come a quella tenera età assai facilmente sogliamo con le per- sone che veggiamo spesso, che ci ninnano, ci trastullano, ci recan fra le braccia, vi prende per gola, e chi sa dirvi quali e quante sieno le sue pretensioni! E poi che so io — Come entra in casa la nutrice si pattuisce il compenso a darle allo spoppamento, il quale compenso vien regolato a seconda delle condizioni delle famiglie cd in proporzione della mesa- ta. Quando il fanciulletto ha messo i denti, la nutrice ha dritto ad altro competente compenso in danaro ed in gioie, e così pure quando il fan- ciulletto comincia a camminare; ne’ quali compensi, come ognuno di leggieri può argomentare, ciascuna famiglia si studia esser larga.

In carrozza il posto di distinzione è della nutrice, imperocché custo- disce il bambino; in casa diviene per forza l’intima confidente, perché deve assisterlo: occupa infine la migliore stanza ed il miglior letto per- ché deve mantenere florida e buona la sua salute.

E che dirò se la nutrice allatti un primogenito o un unico figliuolo, unico erede, che dovrò eternare il suo nome ed il suo stemma; che do- vrà riempire il mondo delle sue geste? Oh! allora la nutrice, non solo padrona ma despota, esige, domina, minaccia e al bisogno picchia an- che la gente di casa; spende come la signora madre, mangia ad una ta- vola medesima co’ padroni, il padrone la serve in tavola non solo, ma sorveglia eziandio quotidianamente alla colezione ed alla cena che si prepara alla nutrice, perché i cibi siano i più eletti ed acconci allo sto- maco.

Se la nutrice poco poco è ammalata, o finge di esserlo, tutta la fami- glia la circonda, la padrona stessa siede al capezzale di lei, le prodiga ogni cura, le porge i medicinali ed i brodicini falli, come suol dirsi, con la mano del cuore; ed ella superba in tanta gloria guarda con occhio compassionevole tante cure ed omaggi che stima troppo dovuti al suo merito!

Nè solamente di voi ella è l’arbitra assoluta, ma dispone benanche a suo talento delle vostre persone di servizio; ché però se per caso raris- simo avete una buona serva, la nutrice ve la svia, le caccia in testa l’amoretto, e voi ad evitare disturbi è giocoforza congediate la serva. E quando pure la buona serva, per un caso anche più raro, salda ne’ suoi princìpi non lasciasse avvolgersi dalla nutrice, basta che non vada a sangue di costei; basta che costei si abbia fitto in mente di espellerla, la serva buona va via e rimane la nutrice cattiva perché ha buon latte!! E Dio volesse che dopo tante cure e sacrifizi e tormenti vi fosse dato di ottener lo scopo almeno del ben essere e della prosperità del vostro fi- gliuolo, ma non è sempre così.

Quella nutrice che appariva così vigorosa e florida e di un sangue pu- rissimo in poco tempo scuopresi malsana e guasta.

Avete preso una nutrice col patto di serbarsi continente pel tempo che dà latte al vostro figliuolo, affin di evitare ogni danno a quella salu- te che tanto vi cale, ma che? — Non passa giorno ch’ella non vi chiegga voler vedere suo marito, che dice di amare teneramente, ovvero perché n’è gelosa e teme che lontano da lei non lasciasse andarsi a qualche ghiribizzo; ed eccovi già nella violenta condizione o di accordar ciò che chiede ed allora vi esponete a quei danni che volete evitare, o di negar- glielo, ed allora o vi pianta nel più bello e nel modo che di sopra accen- nammo, ovvero tace ma internamente freme e si gita, ed allora il latte acidisce, lo dà così guasto al vostro figliuolo, e non di rado l’uccide, come è avvenuto in diverse famiglie.

Un’altra per non incomodarsi la notte a poppare dà qualche sonnife- ro al bambino e così, voglia o non voglia, l’obbliga ad addormentarsi. Per tutte le quali cose semplicissimo è l’intendere come si mutino e tre e ‘quattro e sei nutrici taluna volta, per trovarne alcuna plausibile. Tra tanti demeriti una. sola qualità potrebbe esser degna di lode nella nu- trice, ed è la grande affezione che costoro per tutta la vita conservano o almeno mostrano di conservare verso coloro che del proprio latte nu- trirono, ma neanche in questo mi par di vederci chiaro, ed ecco come. La nutrice napolitana o d’altronde, non dimentica mai la casa ove ha esercitato il suo dominio.

Ella va a quando a quando a far visita alla famiglia, piange di com- mozione in vedere il fanciulletto da lei nutrito oramai uomo, gli manda mille benedizioni, prega (se è di fuori) la famiglia di voler accettare un canestro d’uova o di fruita, due piccioni, alquante ricotte, degli aspara- gi del paese: tutto questo è verissimo, ma vero è altresì che la famiglia debba in ricambio rimandarla col doppio almeno di quel che ella porla; di tal che questa affezione par da comprendersi tra le tante altre a tito- lo oneroso che sono nel mondo. E quando anche poi, facendola da gen- te dabbene, volessimo passarvi di sopra e lasciar correre questa affezio- ne come affatto disinteressata, sarà ella diversa da quella del coccodril- lo, affettuosissimo verso l’uomo poi che lo ha mangiato vivo?

E dopo tutto ciò non è egli a maravigliare altamente come v’abbiano madri, e non poche, le quali per solo timore di non guastarsi o alterare poco poco le forme del corpo, o parere alquanto men giovani e fresche o per altre simigliami scioccherie han per sistema di dare i propri fi- gliuoli lattare a nutrici; anzi è stile di presso che tutte le nobili e dovi- ziose madri. Deplorabile costume — mi si perdoni se l’impulso del cuo- re fa che io mi dilunghi alquanto in una digressione per altro non affat- to estranea all’argomento — nel quale non saprei qual più condannare, se l’oltraggio all’Onnipotenza nel rifiutare e disprezzare un beneficio che tante sventurate madri comprerebbero a prezzo del loro sangue al- fin di ‘non vedere il frullo delle proprie viscere fatto servo e zimbello di donna prezzolata, o il niuno amore pe’ figliuoli medesimi, o la malvagi- tà di sacrificare il più santo ed il più soave dei doveri ad un vil pensie – ruccio. E questo pensieruccio non trova neanche scusa in una tal quale ragione certa e costante; imperciocché noi veggiamo le mille madri tut- tavia belle tuttavia floride tuttavia fresche che han nutrito unicamente del proprio latte tutta intera una lunga prole, essendo bastato a conser- varle tali non altro che un buon reggimento igienico cd una regolare e giusta cura e conservazione del proprio corpo, che non disdicendo a donna veruna è lodevole anziché turpe in una madre, quando dall’altra parte il far retrocedere a forza il latte non ad una ma alle mille madri è cagione di gravi e seri malori. Miserevoli madri!

Il sorriso del pargoletto che sugge col vostro latte l’amore, quel pri- mo ineffabile sorriso di un innocente che comincia a salutare gli autori de’ suoi giorni non versò mai nel vostro cuore quella piena di conten- tezza che pur non è ignota alla derelitta mendicante, povera sì ma che sente ed ama come voi non sentite né amate.

La nutrice, ligia alle patrie costumanze, non lascia mai il suo vestire paesano; se non che entrando a servizio depone l’abito vecchio e la fa- miglia in cui entra é in obbligo di fartene uno nuovo e più ricco. E que- sta regola é generale: le famiglie tutte vi consentono, anzi per le più no- bili e distinte é una specie di fanatismo il tener le nutrici vestile a co- stume, e la figura che qui offeriamo, tolta dal vero, rappresenta un! co- stume di Fratta maggiore 1 ove vedete la nutrice nel suo ricco abito a galloni d’oro con le sue rosette (specie d’orecchini) orologio con cate- nella d’oro ed altri gioielli onde la provvide la ricca casa alla quale ap- partiene 2.

In questo loro abito di costume le nutrici seguono le padrone nelle strade e nelle pubbliche passeggiate, e la Villa Reale ne abbonda, in ispecie quando l’ora e la stagione opportuna traggon colà in numero fo- restieri e napolitani. Ed è la Villa stessa benanche il lor convegno pres- soché quotidiano o Senato che vogliate dirlo: ivi elleno accolgonsi in crocchi, e sedute sotto gli alberi che fiancheggiano l’un de’ lati del ripe- tuto pubblico passeggio, chiacchierano per cento e tengon congresso, e predicano, non potrebbe dirsi con precisione su quali argomenti, ina logicamente può indursi che quel concistoro di nutrici sia un facsimile di quello delle serve e dei servitori che riducesi in compendio a trinciar senza misericordia il saio ai padroni.

A maggiore utile dell’opera vogliamo aggiugnere poche parole sulle nutrici della Casa dell’Annunziata, ma parendoci forse non ingrato agli stranieri, in tal rincontro, toccare leggermente di questo stabilimento, senza danno della chiarezza, né disturbo dell’ordine che ci siam propo- sti, il lettore troverà in nota, alla fine del nostro scritto, quel che riguar- da un tal proposito.

Dopo questa storia fedelissima dell’indole e qualità delle nutrici in generale non possiam chiudere questo articolo senza ricordare, e fra le più rare eccezioni, quella Gaeta nutrice di Enea, lauto famosa che diede il nome al porto perciò detto di Gaeta; onde cantò il Mantovano:

  1. 1 Frattamaggiore appartiene al distretto di Casoria, come già a tibia m detto e va con la diocesi di Aversa. È situata in una perfetta pianura: d’aria salubre; e nella distanza di quattro miglia da Aversa e cinque da Napoli, e perciò ne’ contorni. Ha una parrocchia e circa dodici tra chiese e congregazioni, un moute di maritaggi per zitelle povere, e la popolazione è di circa 8877 anime sotto la cura spirituale d’un parrroco. Questo come anche l’altro casale di Frattapiccola si credono dagli scrittori nati dalla rovine dell’antica Atella.
  2. Vedi la figura.

Tu quoque littoribus nostris, Aeneia nutrix Aeternam moriens famam, Cajeta, dedisti

Et nunc servat honos sedem tuus, ossaque nomen Hesperia in magna (si qua est ea gloria) signant.

E dobbiam crederlo, altrimenti quel piissimo eroe non ne avrebbe fatta sì onorata menzione, né il famoso cantore di lui le avrebbe serbalo un posto distinto nella Eneida. 1

ENRICO COSSOVICH.

1 La santa Casa dell’Annunziata fa parte oggi del quartiere Mercato. Questo pio luogo, dapprincipio fondato dai fratelli Scondito, nobili della piazza di Capuana, per voto fatto alla Santa Vergine, nel sito detto il mal passo (Celano. — Gior. III.) fu trasferito in quello ove attualmente vedesi dalla regina Sancia moglie di re Roberto: rialzato poscia dalle fondamenta dalla regina Giovanna II ed arricchito per diversi modi dalla medesima regina nonché da Leone X e da molli privali. Due distici che si leggono sulla porta indicano lo scopo onde fu istituito:

Lac pueris, dotem innuptis, velumque pudicis Datque medelam aegris haec opulenta domus Etne merito sacra est illi, quae nupta, pudica Et lactans, orbis vera medela fuit.

«Questa ricca casa ebbe un banco per mezzo del quale contrasse l’enorme debito di quattro milioni e mezzo ond’è che mancò nel 1701. Nel 1717 furono ceduti ai creditori an- nui ducati 40,000 alla ragione dell’uno per cento e restò alla casa una simile annua som- ma che poi venne aumentata.

» Mantiene 72 monache oblate, divise in tre ordini, che hanno sotto la loro direzione 246 ragazze. Queste ultime ricevono dalla casa il pane e cinque grani il giorno e lavorano per conto proprio. Un altro centinaio di figliuole ha alimento e vestire dal luogo, per conto del quale cuciono, filano, tessono, fanno» calzette, guanti ed altri lavori: e queste si chia – mano le alunne dell’opera. Finalmente vi ha un numero di pericolate cioè che appartene – vano alla casa, e» passate fuori di essa ha dato in qualche scoglio» (Galanti. —Guida di Napoli e contorni.) La principale opera pia che vi si esercita è quella pertanto di raccoglie- re i proietti ossia trovatelli. L’Indigenza o la colpa, ma disgraziatamente più la colpa, quasi quotidianamente gittano di questi infelici senza nome e senza titolo nel caritatevole asilo. Desso nel 1829 secondo il Galanti (Op. citata) ricoverava 251 bambino da latte e 43 slattali con quasi dugento nutrici.

Fino a sette anni or sono generalmente si noveravano nell’Annunciata circa 600 bambi- ni lattanti ed il numero delle nutrici ordinariamente ascendeva a circa dugento trenta.

Sullo stato attuale dello Stabilimento poi facciam tesoro delle più esatte e fedeli notizie favoriteci dalla gentilezza di Autorità locali.

Annualmente può contarsi che si accolgano nell’Annunciata circa 2200 bambini. Ne’ decorsi tempi i) numero di questi superava d’ordinario quello delle nutrici, non ostante la munificenza del governo in procurar sempre abbondanza di costoro; sicché ciascuna es- sendo obbligata in allora a popparne non men di tre non poche di tale sventurate creaturi – ne per iscarso alimento miseramente periva. Unico mezzo affin di campare la vita a questa infelice classe di espositi è stata la lattazione esterna; le cui norme, come pure i documenti che da ciascuna nutrice debbono esibirsi; le cure, i doveri cui son elleno tenute inverso i loro allievi, e tutt’altro ciò concernente vengono specificati in apposito regolamento ema- nato con decreto del 21 giugno 1851. Infatti molti di questi bambini sono lattati in campa – gna a spese dello Stabilimento, ed il Governo per tale obbietto spende circa ducati quaran- tamila annui.

Mercé questa lattazione esterna può calcolarsi rimanere nell’Annunciata intorno ad un 460 bambini e 90 nutrici. In conseguenza di che, in generale, ogni nutrice latta due bam- bini, e poche uno; e solo per caso straordinario che arrivasse gran numero di trovatelli al- cuna delle nutrici é costretta a lattarne per qualche giorno tre; tutte le altre sempre due.

Questi calcoli pertanto sono meramente approssimativi dipendendo da mille e svariale eventualità.

Il mensile delle nutrici è fissato a ducato uno e grana ottanta. Ricevono inoltre grana trenta per collezione, ventotto once di pane al giorno, una caraffa di vino, due vivande la mattina ed una la sera.

Tema di simil natura darebbe, come ha dato, luogo ad assai importanti e serie conside- razioni ed osservazioni e sarebbe di assai lungo sviluppo; ma per avventura sconvenevoli  in una nota.

Nè qui, giacché ne cade il destro, dobbiamo tacere come, fin dal decennio trovasi aboli- to il troppo generalizzalo cognome Esposito che un tempo esprimeva assai chiaro lo staio di questi miserelli, e già di tutto destituiti li obbligava ad arrossire anche innanzi alle ine- sorabili leggi sociali per colpa non propria, ed in cambio vien questo cognome fissato dal soprantendente dello Stabilimento: e ciò si fa a questo modo. Ha egli un libro di cognomi ideali per lettere alfabetiche, a cominciare da A fino a Z ed in ogni anno l’iniziale si cam – bia; sicché quanti giungono allo stabilimento han diversi cognomi, ma sempre con la ini- ziale dell’anno che corre. In quest’anno, a cagion di esempio, i cognomi cominciano tutti  da P nel venturo cominceranno da Q e così via via.

Resta ad aggiugnere che molli di questi trovatelli sono adottati da particolari, ed in Na- poli è frequente, in ispecie nelle persone del basso ceto, sia per voto fatto, sia in difetto di figliuoli propri, sia per altra simile cagione; e non pochi, la mercé di queste adozioni, dalla più profonda miseria alle più invidiabili condizioni pervengono.

SE queste parole non avessero un’intitolazione e non fossero accom- pagnate da una figura, io le avrei cominciato a guisa di enimma o di sciarada nel seguente modo.

Vedete colà quell’uomo diesi mena innanzi un grosso animale dalle lunghe corna a cui è legata la fune che tiene in mano! Vedete quell’altro animaletto, grazioso e benigno, snello e lascivetto, che saltella e sgam- betta preso per un’altra fune, accanto al più grosso procedendo di con- serva, come un’agile corvetta accanto ad un grave vascello a tre ponti! Vedete che quell’uomo si ferma coi suoi animali dinanzi ad un portone, agita a distesa il campanaccio che pende dal calloso collo del più gran- de animale, 1 indi a poco scende una fantesca con un bicchiere nelle mani, e l’uomo presolo colla manca, e coll’altra, messosi coccoloni a se- der sulle calcagna, premendo i lunghi capezzoli delle mamme turgide, ne munge il latte a lunghi o sottilissimi zampilli!

Eccolo che presenta il vaso alla sozza e scapigliala fante, la quale in quel frattempo è stata a fregarsi e stropicciarsi gli occhi col dosso delle mani, a sbadigliare, e poi rassettarsi gli abiti cascanti e male affibbiati, e poi a ravviarsi i capelli rabbuffali col pettine delle dita. Ma per alzare il bicchiere l’uomo non però abbandona la sua incomoda posizione, perché già sa che la fantesca senza pure guardare il latte dirà ch’è poco, ed egli sarà costretto per ben due volte a versare in esso altri tre o quat- tro esilissimi fili del suo liquor preziosissimo.

1   Vedi la figura.

Da ultimo levatosi ritto in piedi, incomincia la vera ispezione della serva, che levando in alto il bicchiere e guardando a traverso il vetro, vedrà fin dove giunge il latte e dove ha principio la spuma, e qui una guerra di sdegnose parole, che ogni dì ricomincia da capo, e ogni dì fi- nisce con una capitolazione che non dura se non che fino al giorno ap- presso. Se si paga a contanti, l’uomo cede e ritorna a spremere il bianco nettare in quantità imponderabile; se si paga di parole e si fa credenza, bisogna che la serva batta la ritirata e abbandoni la piazza con tutti gli onori militari, suon di campana e grembiale spiegato.

Quell’uomo è un vaccaro; il grosso animale è una vacca; il piccolo è il suo vitello.

Grazie della notizia.

Adesso che sapete la parola della sciarada, soffrite che ve ne faccia un poco la spiegazione.

Il vaccaro è in Napoli il provveditore di latte per tutti coloro che ne comprano, o che lo bevano per ordine del medico, o che lo mescolino col caffè, o che ne facciano uso al modo patriarcale, come faccio io, che l’antepongo a tutte le bevande esotiche. Alle sette del mattino il vaccaro si trova alle porte di tutti i suoi consumatori, e li fornisce nella maniera che vi ho raccontalo. Alle otto rientra nelle sue stalle, con una precisio- ne degna di un orologio, sicché dopo quell’ora chi non ha bevuto il latte può farsene passare la voglia. I cuochi e i caffettieri e i grandi stabili- menti se ne provvedono a caraffe, ma di quel latte non consiglierei di bere neanche ad un mio nemico.

La sera ritorna il vaccaro a fare il suo giro per coloro che bevono il latte anche di sera, e con la stessa esattezza si ritira alla stalla prima delle ventiquattro ore.

I nostri vaccari, che abitano in città, non conoscono per nulla i segni scoperti da Guénon per discernere le vacche lattifere; non le mandano mai ai pascoli in campagna, né le nutriscono con tutte le raffinatezze che sanno suggerire i dotti; tutte le frondi che si buttano, le bucce di popone e di cocomero, le zucche e la crusca, servono di cibo ai loro ani- mali. E pure le vacche dànno così un’abbondante quantità di latte ai particolari, e ne rimane ancora per farne ricotte e cavarne siero e burro e manteca per gli usi di cucina e medicinali.

Diversa d’assai è la vita del capraio. Egli abita fuor di Napoli, o tutto al più nei luoghi dell’abitato che confinano colla campagna, per poter portare le sue capre al pascolo, armato di un lungo bastone nocchieru- to alla cui estremità sta una grossa capocchia. Queste    mazze chiaman

peroccole, e sono i caprai formidabili nel maneggiarle e nel lanciarle. Vero è che a questa arme non ricorrono che nelle campagne, dove guai a chi li molesta; ma dentro la città, dove vengono pure sul principio  del, mattino e a sera, li vedi umili e dimessi al modo stesso dei vaccari, servirsi del bastone a raggruppare le caprette che si sbandano, ferman- dole col grido chià chiù, e salvandole dalle ruote dei cocchi.

Del resto il capraio ha buone viscere per i suoi animali, a cui fa da padre. Non è raro che rinnovandosi la scena descritta da Virgilio nella prima egloga, (andatela a vedere), egli faccia l’ufficio di raccoglitore del parto, e recatosi in braccio il capretto che non ancor ben si regge sulle gambe, con un fascio d’erbe alletti la puerpera a seguitare il cammino 1. Cosi come il vaccaro, il capraio è una delle ore antimeridiane e po- meridiane dell’orologio napolitano. Il suono del campanaccio della vacca o della squilla delle capre si fa sentire con un’esattezza cronome- trica da disgradarne un oriuolo a cilindro e a scappamento con quanti buchi vogliate in rubino o in pietra dura, lo mi divertii una volta a for- mare un orologio di questa fatta, un abbozzo, sperando che altri l’aves- se perfezionalo. In mancanza di questo perfezionatore, ve lo do qui

qual esso è: fatene quel conto che vi aggrada.

UN NUOVO OROLOGIO

Come orologio che ne chiami. — DANTE.

Mirabili progressi del secolo! Appena l’antichità conobbe gli orinoli a sole e ad acqua (solarii, scioterii, clessidre), e poi quelli a polvere (cles- samidii), che a mano amano i moderni vennero inventando di simili. istrumenti a luna, a ruote, a campana. a ripetizione, a suono e a mo- stra, con isveglia, portatili, da tasca, e finanche di tale piccolezza da po- tersi chiudere nel castone di un anello.

E poi gli abbiamo veduto a’ dì nostri, dismessi di orologi e castagna 1

del Soret, cangiar di Torma, e divenir sempre più pialli e schiacciali, e nuove maniere con paracadute e compensatori; a cilindro, a scappa- mento, con buchi in pietre dure, in rubino, con musiche deliziose, e tant’altre diavolerie che gli artefici sanno inventare per trar danaro dal- le tasche più ritrose.

Intanto, malgrado tante scoperte, per lo più quelli che hanno un. orologio son quelli che san meno l’ora, che è e son quelli che più degli altri mancano agli appuntamenti. Perciò si è sempre costretti a ricorre-

1  Vedi la figura.

re agli oriuolai, ai quali, appunto come de’ medici accade, una volta che capili loro in mano, sei soggetto per tutta la vita. Laonde di necessitò coll’oriuolo in tasca devi andar consultando le meridiane e i gnomoni, e voltar la saetta colle dita, e menare il registro innanzi e indietro, e che so io.

Però l’orologio di Flora che mostra le ore coll’aprir de’ fiori, recente scoperta dei progressi botanici, ha in me destato il pensiero di formar- ne un altro colle grida de’ venditori, che chiamerò orologio a cantilene. Se l’orologio di Flora è buono soltanto per chi sta nella campagna, il mio (sì signore, il mio) sarò ottimo per chi vuol sapere che ora è nella nostra città. E son certo che di questo vorranno servirsi tutte le belle donne, che restale in casa senza quello del marito, debbono ad ogni istante importunare i vicini per sapere che ora è, e stanno colle orec- chie tese ad ascoltare i tocchi delle vicine campane.

Frattanto debbo confessare che la mia invenzione ha mestieri ancora di molti miglioramenti. Ma che? Dovrò aspettare che altri men rubi il primo onore? Coraggio! Affrontiamo la critica, e ai posteri l’arduo pen- siero di compir l’opera.

All’alba la cantilena del venditore di acquavite vi mostrerò il crepu- scolo mattutino.

Le caldallesse e le succiuole, e il venditore dei pani di granone coll’uva passa, vi faranno certi che son le 6, e dall’esclamazione di quest’ultimo sentirete ricordarvi quella gran verità, che tutto passa.

Il latte quaglialo, le piccole ricottine, le vacche, le capre, vi faranno accorti che le 7 son sonate.

La carne, gli erbaggi da minestra, le ricolme ceste di frulla, vi accer- teranno delle 8.

Le belle venditrici di uova non girano prima delle 9.

Alle 10 sentirete la rauca voce del marinaio che da Ponici vi porta il borro di Sorrento.

Alle 11 quella del venditore delle ricotte di Castellammare fabbricate nella stessa nostra città.

Alle 12 come nell’orologio botanico tutti i Dori si aprono cosi del pari nel nostro tutti i venditori gridano a piena gola e a tutta possa per ven- dere i rimasugli delle loro mercanzie. Da quest’ora in poi i veri padri di famiglia e le donne buone massaie fanno le loro spese, e i rivenduglioli aggiungono la voce scampolo alla cantilena con cui bandiscono i come- stibili.

All’una potete comprare i ravanelli e le radici.

Alle 2 le castagne cotte al forno e le caldarroste o bruciate.

Alle 3 di state comincia a girar l’acqua sulfurea, ed alcuni frutti di mare che pel loro vii prezzo debbono farsi vedere per esser venduti, o per esser cari compariscono solo alle mense di coloro che mangiano in quest’ora.

Ti accorgerete che sono le 4, le 5 o le 6, dall’uscir di bel nuovo delle vacche, dal rientrar che fanno nelle stalle, dall’apparire improvviso de’ vispi ragazzetti che vendono dalla voce monotona del venditore di zep- poie che vuol vender le fredde per friggere le altre, dalla femminina in- tonazione delle venditrici di nocciuole, ceci e semi di zucca infornati. Questa parte dell’orologio, cangiabile a seconda della stagione, merita maggiore studio e ponderazione.

Nelle ore della sera sentirete dapprima i pescivendoli ambulanti, e dopo i venditori di olive, di lupini, e di uova cotte, e più tardi il casta- gnaio di bel nuovo, e quando è mal tempo i gamberelli. Infino a che al tocco della mezzanotte, come in quell’ora nell’orologio botanico tutti i fiori si chiudono e sembra che la natura intera si riposi, così nell’orolo- gio delle cantilene udirete, cioè non udirete nulla, perché, tutti i vendi- tori tacciono e vanno a dormire, e solo in lontananza sulle ali del vento udirete giungervi alle orecchie il suono eguale e prolungalo delle cam- pane per un buon quarto d’ora, perocché tutte suonano la mezzanotte in un tempo diverso, specialmente San Martino ed il Carmine. Felice notte.

EMMANUELE ROCCO

PRELIMINARI — IDEE GENERALI — INDOLE — ARTI CAVALLE- RESCHE — GIUOCHI — CACCIATORI O SACCUI.ARI — BELLE ARTI

— VESTIRE — GUARDIE DEL CORPO — PICCOLI ME8TIERI — CONCHIUSIONE.

GUAGLIONE (che suona il gamin de’ francesi, sebbene quest’ultimo paia il guaglione alquanto più incivilito) è una di quelle voci tecniche del nostro dialetto, espressive e rotonde, le quali non trovando equiva- lente nel sermone toscano rimaner debbono nella nativa sonorità. — In fatti un fanciullo, un ragazzo, un garzoncello o quale altra si voglia so- migliante voce varrà per avventura il ‘ nostro guaglione? Parleremo dunque proprio del guaglione com’è conosciuto tra noi, in tutta la pie- nezza ed energia dell’espressione.

Preliminari. La storia del guaglione è assai importante, non men che curiosa e minuta nei suoi particolari, sicché, noi, comunque a pri- ma giunta possa sembrar lungo il nostro lavoro, non altro reputiamo aver fatto se non abbozzar la materia; perocché le mille forme di que- sto Proteo, le svariale condizioni e situazioni, i lati diversi onde può ri- guardarsi darebbero esca a sempre novelle considerazioni.

Eppure il guaglione nella mente de’ più non è che una puerilità, un’idea da nulla, una quisquilia;un guaglione non è che un ragazzac- cio, cui si pub impunemente tirare un calcio o una guanciata, al quale, contro ogni dritto, grida il gentiluomo—Togliti di là, sgombrami la strada, che io debbo passare. — Se altri commetta azione che abbia del

1 Si osservi l’anomalia inevitabile di questa voce che al singolare fa il guaglione ed al plurale i guaglione a cagione della pronunzia.

puerile, tosto gli si grida « E che stammo mmiezo a li guagliune? 1

Povero guaglione! Ma diciamo piuttosto: poveri sciocchi i quali non sanno che sia un guaglione!

Idee generali. Del guaglione può dirsi veramente che  ogni  luogo è patria. Trovate il guaglione ad ogni strada, ad ogni vicolo, ad ogni chiasso, ad ogni angolo; sdraiato sulle spiagge, su pe’ gradini delle chiese; per le bettole, per le canove; all’ingresso delle botteghe da caffè, degli spacci di tabacchi ec. cc. Ad ogni piè sospinto, infine, ad ogni mo- mento v’imbatterete nel guaglione.

Se avete alcuna cosa a trasportare troverete pronto il guaglione in vostro servigio; se discendete di vettura all’ingresso d’una locanda, udrete subito la voce—Signò u guaglione — e se non l’ascoltate, il gua- glione vi corre appresso tanto che o dobbiate dell’opera di lui avvalervi o bastonarlo. Se dopo il cammino etereo d’un vagone vi trovale ad una stazione, imbrogliatissimi fra un’incredibile tempesta di gridi e di pe- state e la vostra sacca da viaggio, non manca d’accompagnarvi una  voce stridula e perseculrice — Signò Signò, Si gnò— finché non abbia l’ofiìcioso Mentore caccialo voi e la sacca in una di quelle bolge ambu- lanti da nolo che qui chiamano cittadine.

Se v’incontra d’andare a zonzo per rintracciare una casa, una botte- ga, un magazzino, un sito qualunque, eccovi nel guaglione duce e sen- sale. Per qualunque servigio momentaneo, in qualunque tempo o sta- gione, iu qualunque ora del giorno, quando tutto manchi, egli è impos- sibile che manchi il guaglione.

Ne vedrete in crocchi o alla spicciolata, in mare e in terra; ne’ campi ed in città — una voce stridula inevitabile di guaglione vi griderà dal— l’alto della predella d’una cittadina; altre sorgeranno fra una numerosa coorte di asini che vi barrano il passo, invitandovi a forza a montare quelle nobili bestie; una terza fa un baccano per cento proclamando a tutta gola dal fondo di una bottega da lotto tre numeri che dovranno venir estratti indubitatamente il sabato prossimo.

Ogni professione, ogni arte, ogni mestiere, ha bisogno del guaglio- ne: in somma se è vero che l’attività sia parte fondamentale del com- mercio, il guaglione merita certo una gloria principale in ciò.

1 E che siamo in metto ai guagliune?—e qui vale fanciullo.

Che cosa varrebbe avere un fondaco, un magazzino, un negozio, una farmacia, una industria qualunque senza guaglione? Sarebbe come vo- lontà senza mezzi, corpo senza sangue, danaro senza circolazione.

E così pure ha bisogno del guaglione ogni età, ogni sesso, ogni con- dizione. Avvalgonsene il farmacista, l’avvocato, il notaio, l’architetto, il tipografo, l’aromatario. Chiedono i suoi offici il musicante, il colono, il negoziante, il rigattiere, la crestaia, l’avo, il padre, il figliuolo di fami- glia, la giovane, la vecchia, la nubile, la maritata.

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano, e questo Figaro, svelto e leggiero come uno scoiattolo va su e giù, sempre nello stesso abito uniforme, impassibile a’ nembi ed alle procelle. Non fa verun mestiere e li fa tutti, e qui ricava un grano, altrove tre, altrove cinque, in una parte un pezzo di pane, altrove di frutta, quinci un bicchier di vino, quindi una colle- zione, quando il negozio è a suo prò, ed in cambio, quando non fa suo conto, qui una guanciata, lì quattro picchiate, in un luogo è salutato  con un calcio, in altro con una stiratina di orecchie, ma il guaglione non è però scoraggialo; e’ sa bene che le son fasi inevitabili del com- mercio, e d’altra parte non ignora

Che fortuna quaggiù varia a vicenda Mandandoci venture or triste, or buone.

In questi sensi generali suona il guaglione, come dicemmo, il Figaro del popolo, il Mercurio (perdonate la voce) degli affari. In questi sensi generali suona lo scalino che immediatamente precede il lazzaroni- smo, e qual posto tenga il lazzaronismo nelle nostre cose e ve ’l narra- no le storie e da ben miglior penna vi sarà in queste medesime pagine esposto.

Indole. Il guaglione è vivace, spensierato, allegro, com’è proprio l’uomo del popolo napolitano; vispo, risoluto e mordace, sì che non è prudente l’offendere o pungere il guaglione, ch’e’sa ben render pan per focaccia, non mai difettando di tali motti pronti, ed argute risposte da disgradarne un Giovenale.

Tuttavia in far ciò è assai cauto

Saggio guerriero antico Hai non ferisce in fretta, Esamina il nemico,

Il suo vantaggio aspetta.

e come il saggio guerriero antico egli esamina prima il sito avversa- rio. Laddove gli paia che costui possa picchiarlo, talvolta porta in pace l’ingiuria

E gl’impeti dell’ira Cauto frettando va

tal altra condensi momentaneamente innanzi a lui, ma se giugne a discostarsi per modo da non aver più a temerne, prorompe in invettive e sarcasmi. Laddove poi gli paia di poter sostenere l’agone a piè fermo, l’assalisce risolutamente con l’arme della più ridicola ironia da cui tra- luce benanche il più profondo disprezzo. Ed eccone qualche esempio.

Mentre uno straniero, ben formato ed aitante della persona dalla lunga barba e folti mustacchi, passeggia, un gruppo di due o tre monel- li che si trastullano, avviticchiandosi tra loro, gli vico tra i piedi e gli barra il cammino. L’uomo dalla lunga barba, con un leggiero colpo del- la sua canna disperde e mette in fuga la sollazzevole società, ma i gua- gliune non così a tutte gambe han fatto una diecina di passi, e vedonsi allo schermo della canna fatale, volgendosi all’uomo gridano — Vi quant’è brutto! Me pare nu zimmaro 1.

E se l’altro, udendo ciò, volesse loro correr dietro, sarebbe inutile, ché l’inseguire un guaglione fuggente è il medesimo che voler correr dietro ad una lepre.

Una donnicciuola vestita a festa è urlata nel passare da un guaglio- ne. Ella si volta e lo minaccia, sia con parole, sia con atti. Il si discosta immediatamente, descrivendo quasi una parabola, e d’un salto poi fa- cendole di berretto, con una serietà affatto caratteristica e nel tuono della più curiosa ironia le dice:—Scusate, v’avessemo spurcata a pisci- grazia 2.

  1. 1  Vedi quanto è brutto. Mi sembra un caprone.
  2. Scusate eccellenza, vi avessimo bruttato il guardinfante.

E guai poi se uno pseudo bellimbusto, una gretta parodia di parigi- no, spingendo lungi il guaglione volesse imporgli di scostarsi; ché co- stui subitamente gli risponde con un grosso vernacchio 1, arme difensi- va ed offensiva del nostro popolo.

E questo che dicemmo del guaglione va detto in generale dell’uomo del popolo e più propriamente del lazzarone; sicché oggimai è prover- biale l’argutezza e prontezza delle costui risposte e forma uno decitoli principali alla celebrità del lazzarone napolitano.

E chi potrebbe noverare tutte le diavolerie e monellerie del guaglio- ne? Vi sono le quarantore od altra solennità che si festeggi in qualche chiesa; ecco il guaglione a fare schiamazzo é baldoria, a sparare i ma- schi (mortaletti) 2, ad accompagnare con urli fischi e schiamazzi lo stre- pito solito a farsi de’ fuochi artifiziati, le bande musicali, le luminarie e tutt altro che ha luogo in somiglianti ricorrenze. A goder di pubblico spettacolo, di splendide esequie o cortèo o processioni o altro che passi per le piazze, vedrete i guagliune come destri marini, a cento, a mille, pestandosi, pigiandosi, gridando e facendo uno schiamazzo d’inferno rampicarsi su pe’ cornicioni, su pe’ tetti con una rapidità ed agilità da stupire, e quivi collocarsi, ovvero a cavalcioni su travi, o su ponti; e fino sulle barre di ferro che reggono i fanali. Vedrete il guaglione montare rapidamente addietro alle carrozze e rimanervi finché avvedutosene l’austero cocchiere di quivi non lo discacci con lo scudiscio, del quale per altro sa così bene schernirsi che assai di rado ne vien colto.

  1. V. l’Art. i Cocchieri.
  2. A questo proposito il Canonico Jorio, dottissimo scrittore ed accuratissimo delle cose nostre, fa ricordare come la nostra Napoli abbia con fedeltà conservato molti usi,  memorie, costumi e finanche errori dell’antichità ond’è figliuola, ed al proposito trascriviamo le sue parole: «Si grida tanto da alcuni contro il frequentissimo uso degli spari che i Napolitani fanno nelle divote funzioni, e vi è chi si arrabbia al vederli cosi trasportati pel chiasso de’ colpi da fuoco; ma costoro dovrebbero ricordarsi quale religiosa idea si attaccava al fuoco, ai fiori ed all’acqua dall’antichità eia più remota. Queste ed altre idee archeologiche già accennate da qualche autore, non che quelle riguardanti gli usi politici e morali di un popolo ne’ suoi esterni atti religiosi potrebbero essere un ricco argomento di profonde ricerche». Noi per altro, ammirando le sagge considerate zioni dello scrittore desidereremmo che la veneranda antichità fosse seguila nelle buone usanze soltanto e non in questa così Insulsa e dannosa. Ed io fatto apposite ordinanze di Polizia proibiscono colai fatta di fuochi, visti I disastri replicatamente per essi avvenuti.

Passa in carrozza una sposa (intendiamo quelle del volgo) per le amene strade del Mercato, del Pendino o della Vicaria, chi l’accompa- gna col solito fragoroso epitalamio

D’allucche de vernacchie e de sescate

se non il guaglione?

E chi saprà esprimere fin dove giunga quest’inno se p. c. gli sposi sie- no un vecchio cadente ed una fanciulla, o viceversa? 1

Nel carnevale i guagliune si pestano, si pingono, si picchiano, si ar- ruffano, si dan pugna e sergozzoni sonori ad. oggetto di raccogliere i confetti che in quell’epoca soglionsi (o solevansi) lanciare dalle finestre o da qualche cocchio di maschere (non di rado di farina o di gesso) tal- fiata fino a restar vittime della loro ingordigia, schiacciati miseramente sotto qualche ruota; e ciò mostra di quanta piccola esca abbisogni la cupidigia del popolaccio!

Il giorno di Pasqua vanno attorno per procacciarsi il, specie di torta con uova, immancabile al rito della solennità.

Nel dì d’Ognissanti con la più assidua e fitta insistenza vanno attor- no per le strade, ed anche vengon su picchiando alle case, con una cas- setta 2 raccogliendo, come dicono i muorte (i morti) cioè qualche mo- netuccia che suol darsi qui come regalia in commemorazione del gior- no dei morti, che segue immediatamente Ognissanti; e van correndo dietro le persone nelle quali si avvengono— Signurì i muorte —I muor- te, signò…

È il guaglione il martirio più accanito di tutte le belle, e più delle brutte avventuriere o fasservizi, de’ pacchiani (villici) degli stranieri che metton piede nella capitale, egli è che,

  1. V. l’art. della Lavandaia.
  2. Di carta pesta, dipinta gialla, rossa, verde o d’altro colore, e sopra impiastricciativi a guazzo ed alla peggio fiori, rabeschi, ossa di scheletri in croce; teschietti. Essa è bucata al di sopra, e rende somiglianza di ceppo. Ve n’ha poi a forma di borsetta di color nero, pintevi a’ due lati immaginette.

contraffacendosi in mille guise, imita il bellimbusto, il leguleio, il professore, ad oggetto di destar le risa 1; che all’occorrenza sa figurarti lo storpio, il cieco, lo sciatico per destramente cavarti il quattrino; che compie col consueto accompagnamento di vernacchi tutte le più gran- diose scene che si rappresentano sulle bagattelle 2.

E per terminarla, ovunque sia schiamazzo e allegria confasse nel centro della sua ruota vedrete il guaglione; in tutti i fescennini napoli- tani, in tutte le allegre brigate popolari fa il baccano principale, ed è il tenitore del campo.

L’espressione del guaglione è sempre aggiustata e pronunziata, non men che enfatica. La tavola XIII della Mimica del canonico de Jorio — I Forestieri in Baia — ci dà un esempio di ciò. Egli parla de’ forestieri trasferitisi a vedere quelle antichità.

«La donna col libro alla mano cavalca un ciuco; forse perché il solo che vi si è potuto avere. Un ragazzo le si avvicina e le domanda qualche cosa (come fanno tutti in quei contorni) ed ella generosamente gli dà una moneta d’argento. Il poveretto vedendosi arricchito in un istante, tripudia per la gioia, ritorna sovente a guardare la bianca moneta; cosa un poco rara per lui; si abbandona all’allegria, e saltando alza la destra verso le tempie, oscillandola con gran vivacità, né cessa di gridare nell’alto che va via tutto contento. — Uh! bene mio! — (Oh me felice!!) La generosa estera lo guarda, e non senza qualche sorpresa ne gode. » Curioso è il vedere il guaglione sdegnato: la sua ira gli sovverte talvolta per siffatto modo la ragione ch’e’ profferisce le strambezze più ridicole del mondo. Io mi trovai spettatore d’un oltraggio fatto da un guaglione ad un altro, cui questi rispose, facendo un orribile miscuglio di sesso e di generazioni — Pe ll’anca de mammata. Mo te chiavo nu punio nfac- cia a ssoreta! 3. — Vi cerchi la logica chi può..

  1. 1        In tempo di carnevale, vestiti a modo di professori di legge o notai, e riuniti in sollazzevoli brigate, i cosi detti D. seppero desiare le più alle risa, e mantenere il baccano l’allegria e il tripudio generale, facendosi di sfide l’uno contro l’altro, nelle quali sfoggiavano di acume e di motti arguti e graziosi o mediante una serie di filastrocche che infilzavano fingendo di leggere p. e. certi capitoli matrimoniali spropositati, o il  testamento di carnevale o simili. Ora possiam dire che non se ne vedono quasi più, o taluno proprio sfiatato!»
  2. 2        V. l’art.
  3. Per l’anca di tua madre. Ora ti do un pugno in faccia a tua sorella.

E per avere una idea anche più chiara della vivacità e gaiezza del guaglione che è in altro nome il piccolo uomo del popolo fa d’uopo ve- derli nelle belle giornate, allorché fa caldo, e così pure nelle belle sere della state, a guisa di pesci che guizzino, lanciarsi a tre e a cinque, a sei, a capo in giù nelle onde, tenendosi l’un sull’altro come nelle midi di cui or ora diremo, e poi tornare al lido, e poi rituffarsi facendo schiamazzo e baccano. Sul lido han lasciato sparpagliati quinci e quindi in tanti piccoli mucchi i loro cenci, a ragione del valore della proprietà abba- stanza guarentiti da furtivi attentati, e se volete conoscere quali sie— no le lenzuola onde si astergono, sono il caldo della stagione, e l’arena del lido per la quale si voltolano fintanto che non sieno ben bene asciu- gati.

Ancor più graziosa scena è quella che succede alla banchina della no- stra villa reale, bella romantica e pittoresca in qualsivoglia stagione.  Dal lido si tuffano in mare i guagliune, e di là ai passeggiaci in molto numero accolli a godere del sito e dello spettacolo delizioso dell’ameno e vasto orizzonte, la sera allegrato vieppiù da mille fiaccole di barche pescherecce, che brillano quinci e quindi disperse su per la placida e cerulea superficie del golfo, come stelle pel firmamento, lieta brigata di garzoncelli richiedono che sia loro gittata nelle onde una moneta per raccoglierla con la bocca e ricondurla sopra, — e gridano Signò menate u rà… Signò, menate u piezzo ca lo pigliammo cu la vocca — E questa scena che ognora si rinnovella è sempre sorgente di nuova allegria, i Napolitani stessi ne godono, e mollo più gli stranieri, onde quei monel- li giungono spesso a carpire anche monete d’argento.

E quantunque, sieno più volte scacciali dalla sentinella colà destinala (non essendo lecito presso un real sito cotal fatta di sollazzo, anche perché offende il pubblico costume) i guagliune colgono il momento in cui non veggonsi osservati e ritornano, e ricacciati ritornano ancora, ma con tal piglio d’innocente furberia da far dire, ove mi si volesse per- donare l’espressione, che la grazia e la festività del napolitano fa spun- tare il sorriso fin sulle labbra venerande ed austere della legge.

Arti cavalleresche. Gli esercizi ginnici onde son celebri i popoli dell’antichità meritano benanche un posto nella storia de’ guagliune non men che in quella de’ lazzaroni napolitani e ne fa testimonio una specie di arti cavalleresche (sui generis) in cui molto sono versati.

Infatti tanto quelli quanto questi conoscono l’arte di trar pietre con una destrezza si ammirabile da far che anche noi vantar possiamo i no- stri petrazzianti come altra volta i Romani i loro frombolieri e narrasi alcuno di loro esser giunto talfiata (ino a conficcare i chiodi nel muro mercé una pietra scagliata a certa distanza.

Le sfide o petriate che anni indietro vedevansi in molte piazze della capitale formano anche un argomento di tale celebrità, che noi per al- tro non ci sentiam nulla disposti a commendare; imperocché non sia difficile ad intendere quanto beneficio umanitario arrecar potesse cotal razza di esercizi; ed in ispecie queste petriate che non di rado furono produttrici di funestissime conseguenze.

Le petriate pertanto venivano esercitate propriamente da’ lazzaroni: alquanti piccoli guagliune vi avean parte bensì, ma nella qualità di semplici araldi; laonde non essendo questo il luogo di tenerne più oltre proposito basti il cenno fattone.

Giuochi. Agli esercizi del corpo debbo tener dietro la relazione dei giuochi de’ guagliune, imperciocché come in quelli ammirammo la vi- goria e la destrezza del corpo, in questi (almeno ne’ più) ammireremo la perspicacia e la intelligenza. Ma come essi son mille, oltre all’essere impossibile che alcun non ne sfugga, annoieremmo invano il lettore  con un elenco interminabile; che però ne citeremo alquanti con quella chiarezza che potremo maggiore; tali esscndovene che vano sarebbe voler descrivere e solo possono comprendersi vedendosi.

Capo o croce — Questo giuoco è lo stesso di quello che i Romani dicevano caput aut navis e che giuocavano quei fanciulli buttando in aria ima moneta improntata da una parte con la testa di Giano e dall’altra con una nave 1. Prima di gettare la moneta, l’un dei giuocatori diceva o pur nave? Era vincitore quando usciva quel che avea detto.

«In uno de’ romanzi di Gualtiero Scott 2 trovasi fatta menzione di questo giuoco col nome di King or crowne (re o corona).

  1. 1     Es ita fuisse signatum hodieque intelligitur in aleae lusu, cum pueri denarios io sublime jactantes CAPITA aut NAVIM lusu teste vetustatis exclamant. AULA.
  2. Le peregrine notizie che qui appresso veniamo contrassegnando con virgole traggiamo da un articolo già pubblicalo del ch. signor Emmanuele Rocco.

I Fiorentini il chiamano palle e santi, nome derivato dalle cinque palle, impresa della casa Medici, che veggonsi nel rovescio de’ quattri- ni, mentre nel ritto sta l’effigie del Santo protettore, S. Giovanni Batti- sta. Così in Roma chiamasi Santi e Cappelletto perché nel rovescio dei baiocchi vedonsi le sacre chiavi sormontate da un cappello, e a Venezia dicesi testa o madona dalla effigie della Vergine che vedesi in talune monete.

» Ma generalmente è prevalsa la denominazione della croce data al rovescio delle monete, sia che realmente vi fosse la croce (come nei no- stri trecalli, onde il modo di dire non aver manco la croce del tre calli sia che per croce s’intendesse le armi del sovrano). Quindi gli Spagnuo- li dissero questo giuoco a crux o cara ed i Francesi à croix:» ou pile.

» Dopo Walter Scott fece menzione di giuoco sì fallo Victor Hugo nella Lucrezia Borgia — Voi fi un ducas. Jouons à croix ou pile à qui de nous deux aura l’homme — E poi mentre l’uno de’ due personaggi che sono in iscena grida pile l’altro esclama c’est face il che pare lo stesso.

» Anche in Ispagna il giuoco è di antica data, imperciocché oltre al nome sopra indicato avea l’altro a Castilla o Leon che dee aver avuto origine quando riunitisi i regni di Leone e di Castiglia i castelli ed i leo- ni furono posti per sostegni alle armi de’ re di Spagna».

Luparo—(Giuoco del pari). Si giuoca da due, ed in questo modo. Fanno una grande fossa a terra. Stabiliscono poi un punto dal quale si deve giocare ed il danaro che si vuol giocare. Poscia l’un de’ due, chiuse nella destra otto palline di legno, che ordina in senso orizzontale, do- manda all’altro se vuole pare o spare (pari o dispari) il quale risponde secondo gli piaccia. P. e. risponde: voglio, e l’altro: ed io dispari. Allora colui che ha le palline le gitta dal luogo designato verso la fossa. Se nel- la fossa va a cadere un numero pari di palline vince colui che ha dello pari, se dispari colui che ha detto dispari.

Pare o spare — (Pari o caffo). La differenza tra questo giuoco e il precedente, cui del resto è affatto consimile, consiste in ciò: che invece di gittare le palline, i giuocatori distendono uno o più diti della destra, poi numerando, precisamente come nel fare al tocco. Sommano poi il numero di tutte le dita distese: se ne risulta un numero vince colui che à detto pari, e viceversa.

Questo giuoco era conosciuto anche da’ Greci e da’ Romani, che di- cevano Ludere par impar.

La ripa(quasi riva o solco). Questo giuoco si fa da molte persone, ciascuna contribuendo un dato numero di noci, le quali vengono con- ficcate ritte nel suolo, l’una dopo l’altra, circondate e quasi murate di terreno, che però viene a formare una specie di letto o strato. Poi cia- scun de’ giuocatori, per ordine, dal luogo gih dapprincipio designato tira contro esse una noce, e quella o quelle guadagna che colpisce e fa cadere al di Ih della ripa o solco di terreno sul quale erano disposte.

La noce e lu rano — (La noce e il grano). L’un de’ giuocatori mette una noce a terra, con sopravi un grano, e ciascun degli altri, per ordine, gitta la sua noce contro quella: colui che colpisce guadagna la noce col grano, ed ha il dritto di mettere egli alla sua volta la noce a terra col grano, e farvi tirar contro dagli altri. Ed il primato di questo dritto è ambito specialmente, perché fino a quando non si colpisca, tutte le  noci gittate (che debbono rimanere a terra) vanno a beneficio di colui che pose la noce col grano; sicché il paladino che primo piantò la sua bandiera, col rischio d’un grano, avventura di guadagnar moltissime noci.

Le ccastella (Le castella). Si giuoca da più ed è simile al prece- dente, se non che, invece delle noci, contribuisce ciascun giuocatore quattro nocciuole, le quali si dispongono, tre a terra ed una sopra que- ste tre, di guisa che formano tanti gruppetti, che nel tecnicismo dell’arte chiamatisi castella, e che dispongonsi in linea orizzontale, l’uno accosto all’altro. Ciascuno de’ giuocatori poscia, per ordine, tira contro queste castella una nocciuola, scelta sempre tra le più grosse e detta pallone. Quante castella colpisce e disfa tante ne guadagna. Molti altri giuochi si fanno con le nocciuole, come a senghetiello che si fa git- tandone una manata sopra una tavola, od altro, che dicesi il campo, e poi cercando con un buffetto di avvicinare l’una nocciuola all’altra: alla fossa, gittando in una fossetta una manata di nocciuole, nel qual giuo- co vince quegli che tutte le fa entrare nella fossetta ec. ec. ma questo delle castella è il più usuale. Alle nocciuole sogliono i guagliune gioca- re più spesso ne’ mesi d’inverno, in ispecie ne’ giorni natalizi. Il giuoco dell’oca è poi affatto proprio di questi giorni.

L’ocaEcco la definizione del giuoco dell’oca tal quale è registrata nel gran vocabolario italiano —«Sorta di giuoco che si fa con due dadi! sopra una tavola dipinta in 63 case in giro a spirale; in alcuna delle quali vi sono dipinte alcune figure come Ponte, Oca, Osteria, Pozzo, Laberinto, Prigione, Morte. Fassi con diverse leggi e pagamenti, come essendo trucciato di andar nel luogo di chi truccia; andando al 58 dov’è la Morte pagare e ricominciar da capo, e simili».

Pare che questo giuoco abbia qualche similitudine con quello che i Romani chiamavano de’ tali e tessere.

Riò—Giuocasi in questo modo. Pongonsi due noci disposte l’una orizzontalmente a terra, e l’altra si tien ritta su questa. Poscia il giuoca- tore percuote con una pietra sulla noce collocata verticalmente, gridan- do ri ò. Se rompe la noce superiore che è la sua, allora è perditore, e guadagna se rompe la inferiore che è dell’avversario. Però colui che a preferenza fa il giuoco, sia a ragion di sorte o di vincita, procaccia di por sempre sotto la noce dell’altro giuocatore, perché questa più facil- mente può rompersi.

Giuoco della palla — Il giuoco della palla in generale o delle pal- lottole che voglia dirsi, è conosciutissimo, sicché ne verrem citando  solo taluno speciale nell’arte guaglionesca.

Lu cavo — (Il cavo). Si giuoca da due. La partila ordinariamente va 6, o ad 8 punti. Vien conficcato a terra, mercé una punta di ferro, un cerchietto anche di ferro, munito di vari piccoli raggi detto cavo ed an- che arraie perché raie nel dialetto equivale a raggio. Ciascuno de’ giuo- catori è provveduto d’una strisciuola di legno piatto, che chiamasi pa- letta, e di una pallottola di legno. Dal punto stabilito il primo de’ giuo- catori spinge la sua pallottola verso il cavo, e se ve la fa passare per en- tro guadagna un punto. L’altro allora, ponendo la sua palla sulla palet- ta, la spinge, cercando o di avvicinarsi al cavo più del compagno, ovve- ro urtare con la sua la costui palla e far uscirla di sesto: nel primo caso quegli che resta più vicino al cavo guadagna un punto sull’altro; nel se- condo caso, cioè se l’un giuocatore arriva a spigner via la palla  dell’altro fa due punti, il che dicesi cavorì, se poi non fa il canori che si è proposto, perde egli un punto. Il vincitore ricomincia il giuoco, e cosi procedendo, colui che il primo raggiugne i punti stabiliti guadagna la partita ed il danaro messo al giuoco.

La fossa—Giuocasi da più. Si formano a terra due fossette, l’una  più grande, l’altra più piccola. Convenutosi poi del danaro da giuocarsi si dà in deposito all’un de’ giuocatori, persona proba e che go de la pie- na fiducia di tutti i compagni; spezie di giudice conciliatore, imparziale ed incorruttibile! Quello de’ giuocatori poscia che dal luogo stabilito ti- rando una palla di legno la fa fermare dentro la fossa più grande gua- dagna la sua rata, e dice lu minio (il mio). Facendo poi fermarla nella fossa piccola guadagna tutto il danaro messo al giuoco, eccetto la rata del giuocatore che ha fatto andare la sua palla nella fossa grande, e dice mmieze (mezzo).

Lu nove — (Il nove). Giuocasi da più. Si formano a terra nove fos- sette, disposte in ordine, cioè a tre a tre. Il giuoco è simile al preceden- te, differisce solo in ciò; che qui se l’un de’ giuocatori giugne a far cade- re la sua palla nella fossetta che è nel mezzo, guadagna a lutti, anche a coloro la cui palla fosse caduta in una delle altre otto fossette.

Le ppastore—(piastrelle). Le ppastore non sono altro che pezzi di mattone 0 ciottoli onde i guagliune fan diversi giuochi, e sovente gli adoprano in cambio della palla. E si avvalgono anche di quelle pietruz- ze marine che sono sulle spiagge, che chiamano vreccelle.

Maste, catenella e ppastore(mattone, o forse maestro signifi- cando lu maste in dialetto il maestro, quasi per dire mattone maestro, cioè principale nel giuoco

E se le fantasie nostre son basse A tanta altezza non è maraviglia.

catenella e piastrella). Si giuoca da più. Ciascuno de’ giuocatori con- tribuisce una data moneta. Ponsi un mattone ritto a terra, e questo è il maste, e dietro ad esso tutte le monete messe dai giuocatori, i quali da un punto stabilito tirano, l’un dopo l’altro, contro il  maste una Colui che colpisce il maste e lo manda lontano dalle monete guadagna quelle che sono più vicine alla piastrella che ha gittata, qualora avvenga che tali monete restino più da vicino alla piastrella che al maste; ché se in quella vece rimangono più vicine al maste il giuocatore nulla guada- gna. Ed il giuoco segue finché non siasi guadagnato tutto il danaro che è dietro al maste.

Mazza e pivuzo (Mazza e piuolo). Si giuoca da più ed a compa- gni. Ci adopreremo a descriverlo alla meglio con un esempio — Sieno quattro giuocatori. I due primi, cui vien la sorte, prendono il piuolo (pivuzo) che! ha sempre il vantaggio.

Gli altri due hanno in mano le mazze. L’un dei giuocatori che ha il pivuzo cerca di piantarlo in una delle due fosse che si formano a terra: allora l’altro che ha la mazza percuote rapidamente il pivuzo e lo sbalza quanto più lontano gli è possibile.

Quello che ha perduto il pivuzo deve andare a raccoglierlo. In questa i due giuocatori che han le mazze corrono con immensa rapidità dall’uno all’altro fosso, numerando le volte che vanno e ritornano, fino a 10 ordinariamente (e ciò s’intende complessivamente fra l’uno che va e l’altro che viene.)

Deve allora riuscire al giuocatore che è andato a raccogliere il pivuzo di colpire un attimo tra l’andare e venire degli avversari e piantare di nuovo nella fossa il raccolto pivuzo. In questo caso rimangono vincitori i due che avevano il pivuzo; nel caso poi lor non riesca, gli altri due vincono e prendono il pivuzo, rimanendo le mazze ai perditori.

Azzecca muro— (Avvicinare al muro). Giuocasi da due o più — Ciascuno de’ giuocatori dal luogo stabilito gitta verso il muro una mo- neta da tre o da cinque grana: quegli che più fa avvicinarla al muro guadagna.

Le piramidi Togliamo alla Passeggiata per Napoli del signor Bidera la definizione di questo giuoco che anche verso i tempi estivi so- glion fare i guagliune — «Otto de’ più robusti cenciosi pongono un gi- nocchio a terra, e otto altri ascesi ad un’abbandonata baracca d’acqua- iuolo, vi si adattano di sopra, tenendosi mano a mano.

Ecco si alza la vacillante piramide: giù si rassoda: giù si mette in mo- vimento regolare con grande applauso e con invidia di altri spettatori ragazzi.

Il giulivo gruppo degli otto prodi garzoncelli di sotto cantano, ad ani mare i pericolanti compagni di sopra, e viceversa.

CORO DI SOTTO

» O guagliune che state da coppa

» Stateve attiente a nun cadè.

CORO DI SOPRA

» O guagliune che state da sotto,

» Stateve forte a mantenè.

TUTTI

» Pizzica ccà pizzica là

» Pe ttutta Caserta avimm’a passò

» Le donne escono dai loro vasti (cioè stanze terrene) i ragazzi dai balconi gettano fiori, i passeggiatisi fermano ad ammirare: ma la can- zone cessa ad un tratto, una voce grida invano: ferma ferma! la mac- china tutta vacilla: si esquilibra, già precipita, già cade, ed ecco» la vo- lante famiglia tutta in un fascio a terra. I canti si volgono in lamenti, ed uno dà la colpa all’altro come alla perdita d’una battaglia».

Lo strummolo I Guagliune distinguono lo strummolo assoluta- mente detto dallo strummolo che chiamano a la romana nel modo stesso che il toscano idioma distingue il palèo dalla trottola. Il palèo, come ognun sa, è un giocolino di forma conica che si fa girare sulla punta mediante una sferza e corrisponde al (urèo dei latini: questo i guagliune chiamano strummolo a la romana. La trottola è anche di forma conica, ma con un ferruzzo piramidale in cima, e si fa girare av- volgendolo prima intorno con una cordicella e poscia gittandolo. Que- sto i guagliune chiamano strummolo.

Vari giuochi fanno con lo strummolo (trottola) ne’ quali tutti è am- mirevole l’agilità e destrezza onde lo gittano e raccolgono poscia senza turbare il suo moto di rotazione, tra l’anulare ed il medio, passandolo così nella palma della mano 1. Questo giuoco è comunissimo e quasi  per tutte le strade e spianate della capitale troverete guagliune che lo giuocano.

1   Vedi la figura.

A scarreca varrile(A scarica barili) il che fanno  ponendosi l’uno a schiena curvala, ed un altro saltandogli addosso, dicendo que- sta cantilena —pitipiri botta e scarreca pallotta piri piri piri e scar- reca varrile — e passando con rapidità immensa all’altro lato; e poi un altro sopra un altro, e così via via. Onde il volgare adagio Fare a scar- reca varrile che vuol dire addossare ad un altro un negozio per disbri- garne sé stesso.

Vanno anche tra i giuochetti guaglioneschi quelli che fanno gittando in aria uno dopo l’altro i fichi, e poi raccogliendoli in bocca, e giungono a mangiarne molti e molti senza far cadente pur uno, e così degli acini d’uva, ovvero gittando all’aria a due a tre, a quattro e financo a sei arance Tutta dopo l’altra, raccogliendole in mano, senza far cadérne al- cuna, e simili.

Cacciatori sacculari. L’ordine de’ guagliune, come ogni altro, ha la sua parte buona, e la cattiva; desso, come ogni altro, rende somiglianza di pianta che molli rami produca, de’ quali l’uno verde e rigoglioso ri- vela le magnificenze della natura, l’altro secco, stecchito, ed infecondo sulla pianta medesima intristisce. Per simil modo una delle triste rami- ficazioni del guaglione è quella de’ cacciatori o sacculari e se facciam qui ragione di cosiffatta specialità, gli è principalmente affinché, per quanto è in noi, la nostra narrazione non presenti lacune o il meno che si può, e più di tutto affinché lo straniero che fu già tra noi, ed oggi vi ritorna, possa osservar di leggieri quanto e come questa specie di gua- gliune sia scemata, la mercé della indefessa vigilanza e delle solerti e provvide cure delle autorità del Governo.

La caccia adunque è il costoro esercizio prediletto, onde li addiman- diamo cacciatori. Vanno pertanto a tale esercizio senza veruno appara- to da cacciatori ma in abito proprio consueto, ed a mani libere e gli uc- celli cui tirano maestrevolmente sono i fazzoletti nelle saccocce dei passeggieri, onde il nome di sacculari. Ritrovo de’ sacculari sono tutti i luoghi o moltissimo affollali, o moltissimo solitari, laonde in tutte le fe- stività, in tutte le popolari adunanze o popolari spettacoli ove la gente affluisce; dovunque insomma possa avere il destro di manovrare ivi troverete il sacculano.

E la lor manovra è così spedita e con destrezza tale che meglio che altro potreste addimandarla un giuoco di bossoletti o di magia egizia- na. In effetti verun abilissimo prestigiatore sa farvi sì ben disparire la palla che testé avevate sottocchio, come il  guaglione  il fazzoletto    che

avevate in saccoccia. Mentre, quasi senza avvedetene, siete trascinati  da uria specie di fascino irresistibile a contemplare estatici e trasecolali il fragoroso cartellone del teatro Sebeto pieno zeppo di assassini, di pu- gnali, di fiamme e camice inzuppate di sangue, il cacciatore vi ha già alleggerito del vostro fazzoletto, e mi servo della voce alleggerito che nasce dalla frase napolitana arte leggio (arte leggiera) con la quale so- gliono denominare il furto, ad indicare che quello illecito guadagno  non è mica frutto di propri stenti e sudori. Ché anzi alle vostre spalle è forse il guaglione che vi ha rubato, voi lo guardate, né di nulla vi accor- gete, ché il suo volto è impassibile ed indifferente; ciò che smentisce la sentenza

Io gran parte dal volto il cor si scopre

ed il vostro fazzoletto con la rapidità del fulmine è già passato nella quindicesima o sedicesima mano.

A simili furti tiene mano o piuttosto teneva (ché in oggi è ciò termi- nato, ) una specie di società filantropico umanitaria composta di be- nemeriti e decani professori dell’arte, detti perciò agguantatovi, con lo scopo di riunire in una sola mano tanto i fazzoletti quanto qualsivoglia altro obbietto rubato 1 e narrasi che, già tempo, vi sieno stati in Napoli anche scuole di siffatte utilissime dottrine!! I fazzoletti rubati, ordina- riameule si vendevano sul molo o al largo del Castello a negozianti che non han miglior bottega di quella a ciel sereno, né magazzino migliore di quello della nuda terra, sulla quale pongono in mostra, distesa o di- visa in tanti piccoli mucchi roba adoperata, camice, calze, fazzoletti, flanelle, calzoni, camiciuole, berretti, grembiali, cenci d’ogni specie di nota o ignota, lecita o lecita provvenienza.

Le autorità pertanto — giova il ripeterlo — non lasciarono, come non lascian mai d’invigilare su ciò ed ultimamente l’isola di Tremiti diven- ne la colonia di questi ladroncelli, come anche di ladri e vagabondi del- la capitale onde il nostro gentame, per quel sistema di travolgere sem- pre il vocabolario quando vedeva un di costoro, diceva lo a   Tremmola

1 Invitiamo lo straniero, anche per acquistare maggiori idee sull’indole usi e credenze  del nostro popolo, ad ascoltare al teatro di S. Carlino e con verità rappresentate da quella compagnia abilissima nella sua specialità, come altrove dicemmo, le due commedie: la Mmalora de Chiaia eia Cuccuvaia de puorto del valente commediografo Filippo Cammarano, che per tanti anni ha arricchito il nostro teatro popolare di opere che  possono ben dirsi tipo nel loro genere.

In esse presenta due donnacce popolane, tenute dal volgo come una specie di predestinate, che sapevano restituire la pace alle famiglie, la sanità agli infermi, ricondurre al retto cammino i traviali ed altrettali cose; e che alla catastrofe si scoprono usuraie, ipocrite, perturbatrici dell’altrui tranquillità ed incettatrici di roba pessimamente acquistata, conte quella di che parliamo.

a mmare (mandiamolo a Tremiti) e si pubblicarono anche di strofacce su Tremmola a ornare.

Bene arti. E chi saprà dire quanto le belle arti sieno in onore presso il guaglione? Ognuno conosce la melodia nascer, direm quasi, col na- politano. Educato a questo clima voluttuoso, alla soavità di questa con- tinua primavera, egli Ita un gusto squisito delle cose musicali, si che raro falla il suo giudizio sovr’essc, come pure è felicissimo, sia nel rite- nere, sia nel foggiare anche di belli motivi. Questa cuna della musica, ove vagirono a dovizia illustri e sublimi maestri, non ha mai smentito  la sua fama, ed il guaglione fa testimonio incontrastabile di ciò. Sol che abbia inteso suonar poche volte un pezzo su qualche organetto de’ tanti che vanno intorno per la città; suonarlo o cantarlo su per qualche casa, o in teatro o in chiesa, o per qualunque altro modo, gli basta a ricordar- lo perfettamente, e ripeterlo sino all’ultima solfa,  accompagnato  da uno strumento naturalissimo — il fischio. Ed ecco come il fischio non essendo altro che un istrumento di accompagnamento non han poi il gran torlo tanti artisti, i quali non ne fan quel grande spauracchio che si vorrebbe: anzi, per una curiosa contraddizione, una musica general- mente fischiata nel volgo significa una musica applaudita.

L’orecchio di questo basso pubblico, che è pure il pubblico più pub- blico ed imparziale, è un giudice infallibile, e noi vediamo come i più celebri maestri sieno allora pienamente soddisfatti quando sentono i loro pezzi musicali ripetersi per le pubbliche vie; ché questo diffondersi per siffatta guisa prova loro come sia la musica veramente e general- mente piaciuta.

Narrasi (ed è verosimile, se non vero) del celebre Rossini, che po- nendo una volta a crogiuolo inutilmente il cervello per trovare certo motivo per una sua musica, sì gliene desse il tema una cantilena im- provvisata ed accompagnata col fischio da un guaglione. Imperciocché il guaglione non solo, come dicemmo, gusta ed intende perfettamente la melodia, ma alla sua volta la fa da maestro e da poeta, come possia- mo osservare nelle ariette e canzoni napolitane che cantano, le cui pa- role son da costoro spesso alterate in modo da non ravvisarne più con- fronto con l’originale; talvolta interamente mutale e contraffatte, e spesso con certe aggiunte poco decenti, parlo d’una vena troppo facile e melliflua.

Siamo in una limpida notte di state, in una di quelle notti con la luna

e la laguna di cui abbondano i versi di tanti poetastri che non sanno

cantar nulla di meglio. Le aperte finestre d’un ricco appartamento, onde vanno e vengono eleganti giovanette e garzoni e nobili signore, lasciano vedere una ben addobbata e luminosa sala, dal cui fondo si le- vano soavi o dolorosi concenti; ed ecco il guaglione a cavalcioni d’un pi- lastro, ovvero col dosso appoggiato al muro e come il grand’uomo, con le braccia al sen conserte, solo o in compagnia di altri suoi confratelli, udire attentamente quelle arie, quelle cabalette e quei cori, spesso me- glio fischiati da lui che urlali da dilettanti idrofobi! La musica in som- ma, più che un diletto, è una potentissima passione, un bisogno pel no- stro popolo, al panche gli spettacoli, come a suo luogo accennammo, epperò quasiché ogni sera il guaglione una qualche monetuccia da’ suoi tenui guadagni diffalcando e non di rado dal proprio sostentamen- to, trae ancor egli con un affetto cd avidità grandissimi ai piccioli tea- tri; in ispecie a quelli del Sebeto, di D. Peppa o de’ burattini, de’ quali anche facemmo parola 1.

Le orchestre poi meritano particolare considerazione. È curioso ve- dere un’orchestra di guagliune.

L’uno suona uno strumento a forma di grossa pentola, di stagno, co- verto e chiuso perfettamente da una pelle, per la quale passa una can- na, che mossa in senso verticale, per la pressione dell’aria racchiusavi, trae dallo strumento un suono aspramente cupo e profondo. Chiamasi pignolo (pentola) ma con voce più propria, bel termine figura ad espri- mere per l’appunto il suono che rende.

Ha un altro una specie di flauto semplicissimo, formato da una can- na bucata che chiamano con voce poco propria siscariello (fischietto).

È questi che può dirsi il direttore dell’orchestra; imperocché da lui principalmente emanano i concerti: egli fa sempre sentire il motivo principale e gli altri strumenti sono di accompagnamento.

La fabbrica di questi siscarielli è precisamente presso l’ingresso del teatro del Fondo. Il Dio Pane avrebbe dato volentieri la sua siringa per uno di questi flauti magici. In fatti il guaglione non si limita già solo a trarre da quella cannuccia le popolari melodie della, del D. Ciccillo, della Marinarella, del Te voglio bene assaie, del Guarracino 2 ma vi fa anche sentire bravamente

  1. 1    V. l’art. teatri, gli spettacoli popolari ec.
  2. Canzonette popolari napolitane.

Ah! perché non posso odiarti—della Sonnambula — Dunque an- diam — del Bellisario, — e poi — Qui ribelle ognun ti chiama.

ascoltare si fanno alle finestre, e sovvengono per lo più questi poveri filarmonici ambulanti. I quali se accade che travaglino talvolta le orec- chie o sconcertino le parole ed il senso della poesia, egli è privilegio co- mune con gli artisti.

Scimus, et hanc veniam petimusque, damusque vicissim.

E quantunque queste orchestre minorum gentium riscuotano, non ostante i disaccordi, il plauso universale, e formino l’ammirazione degli stranieri, l’elemento comico non può mancare a compir l’opera. Il co- mico è troppo ingenito al popolo napolitano per poter affatto spogliar- sene. Anche ne’ momenti più tristi, anche nelle più difficili e dure con- dizioni e’ sa onde trarre da ridere; immaginate poi quando l’argomento non sia di per sé stesso grave? L’orchestra finisce ordinariamente con un ballo del suonatore di puti puti, una specie di danza equestre che esegue questo musico cencioso e sbalzo, accompagnandosi col suo strumento 1.

L’intero trattenimento, e tanto più se vi si unisca un cantante che ar- monizzi col resto, finisce col solito rumoroso coro di vernacchi che sappiamo.

Sarebbe un torto, or che ci troviamo su tal proposito, non far men- zione di Pascariello, quel nostro gobbetto, che va ben distinto da Pa- squalotto, celebrità lazzaronesca nella ginnica, che formò tanto tempo l’ammirazione de’ napolitani e degli stranieri per la rara agilità e de- strezza con cui lanciava il suo lungo bastone dal pomo di cenci fino al 5.° ed al 6.° piano, raccogliendolo poscia con la mano dietro le reni, e che attualmente si è fatto seguace di compagnie equestri.

Pascariello fu il primo che animosamente trasportò il canto eroico all’aria aperta ed il coturno in istrada: ba avuto molti seguaci, ma nes- suno aggiunse alla celebrità di lui.

Degli accordi di questo tenore, vero tenore, perché non possedeva assolutamente altro che la voce, ancor risuonano le nostre strade, le nostre piazze. A pochissimi fra i leggitori sarà ignota questa celebrità

1  Vedi la figura.

che fu riputata non immeritevole di biografie e di ritratti a bulino e li- tografati. Egli che a’ difetti naturali suppliva potentemente col valor dell’arte, ha lasciato memoria gradita e in un dolorosa di sè, e quantun- que neanche i suoi accordi andassero immuni dalla terribile persecu- zione di qualche vernacchio, egli ha fatto gustare i pezzi migliori del Pirata, del Roberto, del Bellisario ed altri molti e dico gustare, perché se strillava qualche volta era bene a por mente come e’ dovesse richia- mare a suo prò l’attenzione non pure de’ circostanti, ma benanche de- gli abitatori degli ultimi piani. Difatti i suoi canti erano coronali per lo più da buon successo, e dalle finestre delle locande in ispecie, che schiudevansi alla sua voce, gli stranieri, spesso con isplendidezza, gli eran larghi di soccorso.

Ma di Pascariello essendo abbastanza chiara la fama ci basti il cenno dato, e qui chiudiamo aggiungendo sol due parole per due altri stru- menti: la tofa ed il siscariéllo di primavera.

Chiamasi siscariéllo di primavera un fragile strumentuccio formato da un ramoscello di sambuco, onde all’avvicinarsi di questa stagione sogliono i nostri guagliune musicisti trarre una specie di melodia ultra monotona. Ciò nullameno perché annunzia la dolce stagion de’ fiori, e perché si ode per lo più nelle ore d’un delizioso tramonto quel suono riesce gratissimo.

La tofa (nicchio) poi è quella conca marina con cui dipingevansi i Tritoni attorno al carro di Nettuno. Novelli Tritoni i nostri guagliune la fan risuonare ad onore d’un Nume più possente, di Carnevale, ed an- che questo strumento pochissimo piacevole e variato rallegra come nunzio e proclamatore di baccano e di baldoria, e di quella specie di fe- scennini che presso tutte le nazioni furono e sono sempre solennizzali; ma dei quali, a confronto di quelli di un tempo, possiam dire non esse- re rimasta presso di noi che una meschinissima larva, perché oggi Car- nevale par che abbia sposato Quaresima.

Vestire. L’abito del guaglione è compiutamente alla leggiera. I suoi calzoni sono naturalmente corti, o artificialmente accorciati sul malleo- lo, e talvolta oltrepassano di poco l’inforcata; costume imitato ai pesca- tori, atteso il bisogno che han questi di scender sovente co’ piedi nell’acqua. Indossano, secondo stagione, sia una giacca mezzo lacera, sia una flanella a righe turchine, sia la semplice camicia a maniche rim- boccate, che per lo più interamente aperta sul petto lascia vedere    uno

scapolare: su questa pende talvolta un cencio di camiciuola. Talvolta sì, talvolta no i calzoni sono sostenuti da straccali, talvolta non ve ne resta sospeso che uno, il quale anzi spesso vien rappresentato da una cordel- la o spago. Hanno qualche volta in lesta una coppola (specie di berret- to) od un cappelluccio di cattiva paglia, ma più sovente un berretto co- lor cannella. La mercé del moderno incivilimento, onde benanche al popolo non piccioli benefizi ridondarono, è oramai difficile rinvenire il guaglione, il lazzarone, l’uomo in generale de’ bassi ordini del popolo napolitano che vada a piedi nudi, ma fino a non guari il costume di an- dare a piedi nudi è stato così proprio del nostro popolo che e’ non avrebbero saputo rinunziarvi neanche ad occasione delle loro feste e pompe. Gli è perché lo straniero ha dovuto non di rado maravigliare vedendo qualche suggeco con la sua coppola a galloni 1 la sfolgorante cravatta, la camicia gentilmente pieghettata sul petto, lavoro d’ordina- rio della sua bella, una giacca nuova dai forbiti bottoni, calzoni nuovi, e tutto ciò in eccellente accordo co’ piedi nudi, da far ripetere a tal pro- posito quel di Orazio:

Desinit in piscem mulier formosa superne

e quel che è peggio con piedi quasi sempre non puliti, perché, ad onor del vero, la pulizia e nettezza non è mica il pregio principale onde menar possa vanto il nostro popolo. Nè ci sarà per avventura accaduto tener proposito dell’abito del guaglione senza trarne alcun che da os- servare. Quello scapolare onde cinge il collo, congiunto strettamente alla più profonda venerazione verso le chiese e le sante imagini, sì ani- mato da principi di religione lo attestano, ché questo popolo può dirsi davvero uno de’ più religiosi che v’abbia, e se talun errore, effetto d’ignoranza o di credulità, inevitabili nel basso ordine, va commisto forse a tali sentimenti, non è però a contrastare che i germi puri ed im- macolati ne conservi.

L’ira dell’uomo del nostro popolo, che ha origine la sera, il domani è spenta non solo, ma sostituita dall’amore: quei due che l’un giorno si abbaruffarono, si picchiarono, forse anco si minacciarono della vita, 1

il giorno appresso si scambiano l’amplesso dell’amicizia, il bacio del- la fraternità, le risse delle nostre feminucce, impetuose e brevissime,

1   V. l’art. Il maestro di bottega ed il guappo.

che ci siamo da pezza abituati a riguardare dal solo lato ridicolo, non sono elle per avventura una prova che la divina legge del perdono non abbia più ligi e corrivi seguaci? — Nè qui stieno a cantarci i detrattori della nostra patria, coloro i quali più lontano non veggono di una span- na, nascer ciò da poca fermezza o altrimenti, con quella frase volgare che i Napolitani non hanno carattere ché è questa la più bassa menzo- gna. Vorrebbero egli, di grazia, costoro che invidiassimo l’odio feroce al selvaggio, ovvero la vendetta annosa e meditata al Corso? No, vivaddio, l’amore è nel nostro cielo, l’amore ne’ nostri canti; nella nostra religio- ne l’amore. Lo sdegno è nube passeggiera, l’amore è il sole onde la no- stra vita perennemente s’informa e feconda.

Il Napolitano ama e perdona.

Egida di salvezza, suo conforto e fidanza, pende dal collo del fanciul- letto napolitano, ancor nelle fasce, lo scapolare, ordinariamente di no- stra Signora del Carmine, onde è devotissimo questo popolo. Ed oh quante volle il ricco quadro della madre del Signore, quasi per vergo- gna allogato dietro le ricche cortine d’un letto damascato cede il luogo  a volgari rimembranze e forse anche disoneste dell’umana miseria, quando all’incontro la storia di Dio è un libro aperto sempre nella ca- succia del popolano, e la santa imaghie è il fregio onorato, che ben lon- tano dal nascondere, vuole anzi che risplendente di tutta la sua magni- ficenza ed agli occhi di tutti apparisca!

Ne più aggiugniamo, avendo già in altro luogo di quest’opera fatto cenno della religione del nostro popolo, della potenza e dei mirabili ef- fetti di essa 1.

I Guardie del Corpo. in verità assai ci duole dover designare col nome di un corpo sì distinto una schiera di cenciosi, ma dovendo trat- tar di costumi ci è giocoforza adoperare nelle cose quei nomi onde il popolo, bene o stoltamente, si avvale.

Sarà incontrato le molte volte allo straniero di vedere una gran turba di guagliune precedere, ordinati in fila, le bande militari, imitando grottescamente le marce del reggimento o facendo capriole 2.

  1. 1    V. l’art. Le feste di Montevergine.
  2. La capriola o capolitrombola (cavriola o capitombolo) onde il significato pare imitato alla danza, consiste in un saldo che fanno, mettendosi col capo all’ingiù ed i piedi all’aria, e saltando poi velocemente a questo modo. E ne fanno con tale sveltezza. Ch’e’ ti par di veder girare una ruota.

Questi che presentano una somiglianza con le vivandiere o figlie di reggimento sono i così detti guardie del corpo, probabilmente per una curiosa, quanto inopportuna e sconcia parodia dell’ufficio del nobile corpo destinato a precedere gli alti personaggi, come eglino precedono  i corpi dell’esercito nelle loro marciate, e noi li chiameremmo volentie- ri anche ausiliari perché infatti son di assistenza ai soldati, ed i loro veri amici, perché non son quelli del poeta, che vengono con la fortuna e van con lei, ma partecipano tanto alla buona quanto alla trista ventu- ra delle armi che seguono.

In tempi di pace e di tranquillità accompagnano nel modo indicato i corpi militari. Quando poi dolorose vicende di guerra o disordini obbli- gano le soldatesche ad allontanarsi dalla capitale, ad acquartierarsi al- trove, ovvero a portarvi le armi, questi, vero simbolo della fedeltà e dell’attaccamento, intrepidi le. seguono, in moltiplici occasioni non piccioli servigi ad esse rendendo.

Trovasi per esempio il soldato (nel senso più ampio della voce) in un villaggio per lui affatto nuovo, stanco, trafelato per una goccia d’acqua, desideroso di un po’ di tabacco, di vino, di liquore od altro affin di ri- storarsi: spicca allora il suo araldo, e l’esperto guaglione esplora, inda- ga, tutto arrischiando, sino alla vita ove occorra, e ritorna infine prov- veduto di quel che gli fu chiesto dal suo compagno di pericoli e di fati- ca.

Nelle lunghe passeggiate militari, marce forzate e simili, indossano eglino il cuoiame, le armi, gli strumenti musicali ec. per agevolare il passo di quelli tra i militi che potessero trovarsi stanchi.

Su i campi di battaglia rendono servigi anche più grandi; raccoglien- do, salvando armi, sollevando i feriti dal peso degli arnesi militari, ov- vero nelle tende trasportandoli; nel che sono assistili da coraggio ed in- trepidezza senza pari, assai ammirevoli, perocché sieno virtù mera- mente filantropiche, e che van bene distinte da quella specie di stordi- taggine e spensieratezza onde il basso popolo per un guadagno anche leggerissimo affronta sovente i pericoli e la morte.

Numerose schiere di costoro seguono ciascun reggimento, sicché ve ne ha due o tre per ciascuna compagnia. In cambio ricevono eglino una mercede mensile dalla rispettiva compagnia; in qualche corpo fino ad una piastra e zuppa, ed oltre a ciò han sempre qualche piccolo guada- gno per ogni servigio che. rendono; una giubba, un calzone, qualche vi- vanda e simigliami. E i pochi che han buona condotta e serbano econo- mia vestono, non lo potendo sempre, pulito ne’ giorni feriali, non altri-

menti che suggechi e maestri di bottega; tali altri non hanno eterna- mente indosso altro che cenci; quel po’ che lucrano, in vino, in giuoco, od in altra mala pratica dissipando.

Indurati ai disagi ed agli incomodi cui la loro vita nomada li costrin- ge, eglino dormono tranquillissimamente in qualche cassone delle mi- lizie, come Diogene nella sua botte, ovvero a ciel sereno; imperversi quanto vuol la stagione, sì che gli stessi soldati ne maravigliano.

Potrò intendersi di leggieri come l’ozio che naturalmente segue la loro vita, li renda col decorrer degli anni inatti a qualunque arte o me- stiere, e quello solo conoscono che praticano; di qualità che quando l’età più loro non permette di rendersi utili in quei servigi che pur ri- chieggono la vigoria e la sveltezza della gioventù muoiono miseramen- te negli ospedali. Ed è però che quelli soli i quali mostrano più sano giudizio, pervenuti ad età provetta si arruolano nelle soldatesche e quella vita volentieri proseguono che l’esercizio e la propria inclinazio- ne giù rendette loro omogenea.

Nelle vicende di guerra degli ultimi anni decorsi molli di costoro si segnalarono; ed in particolare uno che salvò con incredibile  coraggio un granatiere da imminente pericolo, così che la munificenza di re Fer- dinando II, volle largamente rimunerarlo, accordandogli benanche un soldo mensile.

Piccoli mestieri. Il bisogno imperioso ed inesorabile  a fronte di troppo misere condizioni e non di rado oh quanto pur lagri- mevoli, spingono una non piccola parte fra le persone del basso popolo a procacciar mezzi e risorse, sovente d’una meschinità quasi inconcepi- bile affìn di trarre la vita; al che non sarò per avventura inopportuno l’aggiugnere il vizio, o almeno qualche vizietto, o scendendo anche dip- più talune di quelle cattive abitudini non necessarie, o affatto inutili che l’uomo da sé stesso si forma, e cui volgarmente addimandar soglia- mo col nome di vizio, picciole imperfezioni, onde l’uomo, in generale, povero o ricco che sia, paga il tributo all’umana picciolezza, e poi qual- che gozzoviglia, ed i riti in ispecie cui la plebe in generale, ma segnata- mente la nostra, per miserrima che sia, non sa in modo alcuno rinun- ziare, come da più luoghi di quest’opera di leggieri avrà potuto scorger- si.

Non è la prima volta che ci avvenga tener proposito de’ piccoli me- stieri, d’altra parte utilissimi, taluni anzi necessari, né però sembrami che faccia uopo di aggiungere altro, volendo considerarli dal solo Iato del vantaggio, diciam così, sociale e di quello, qual che esso sia, che all’ordine più indigente del popolo ne deriva.

Pertanto una mia opinione mi si permetta di esporre e come una mia opinione s’intende bene che andar non debba immune né da biasimo né da confutazione ove ragion ve ne abbia—ed è che il procacciar mezzi cosi tapini e gretti alla vita avvenga per lo più quando il popolo o per propria volontà o per negligenza delle famiglie, o per altrettali cagioni non abbia cercato lucro più proficuo, più certo e tante volte più onesto, come osservammo altrove 1 sicché piccoli mestieri meglio che da altro parmi ripeter la loro vera sorgente da infingardaggine o poco amor di fatica.

Ed in fatti (imperocché ci proponemmo, per quanto sia l’amore che abbiamo inverso la nostra patria, a tutto anteporre la verità e la schiet- tezza) molti sono i poveri tra noi ne’ quali è vera miseria, ma quanti al- tri ve ne ha cui pule il pane della fatica? —

In effetti in tanta povertà è difficilissimo il trovare un servitore o una serva 2 e quando pur si trovi un poco più di fatica, una vita un tantino più disagiata, una parola alquanto amara che possa offendere meno- mamente la dignità servitoriale alla mendicità li ricaccia, e non di rado l’umiliazione dell’accattare al servire antepongono. E basti su ciò.

Ché se poi taluno mi domandasse che cosa badie fare tutto questo  col guaglione, io risponderei che vi ha che fare benissimo perché molti di questi piccioli mestieri sono esercitati da’ guagliune ed il guaglione essendo la pianta dell’uomo del popolo, quanto di sopra dicemmo è pienamente applicabile anche a costoro; quante volte (come sarebbe a desiderare) più sano consiglio adottando si addimostrassero men ne- gligenti ad istruirsi in altra cosa che meglio e più decorosamente ai loro bisogni provvedesse.

Tra i piccoli mestieri che esercitano i guagliune molli potremmo an- noverarne, come per esempio:

  1. V. l’art. le Fioraie.
  2. V. l’art. la Serva.

Il franfelliccaro 1 o venditore di pastiglie di zucchero e melazzo.

Il mellonaro. Quel guaglione che nella state corre le vie recando sulla testa una tavola, sopravi il popone disposto in fette.

Il galantariaro 2  (chincagliere ambulante).

I venditori, spacciatori di gazzette, opuscoli, canzoncine od altri fogli volanti che si spacciano per le strade o per le piazze.

I venditori di cerini e legni fosforici 3, quelli che vanno intorno per le strade o pe’ Caffi vendendo suppellettili, come specchiere, tondi, scri- gnetti, cassette d’oriuoli, armadi ec. disponendoli in bell’ordine la sera per la strada Toledo: rifiuto de’ magazzini, ovvero lavori formati da’ garzoni 4 con gli avanzi di legno rimasti nelle botteghe; delizia di chi è abituato a guardar le cose all’oscuro.

Non trascuriamo di far menzione di un’altra piccola industria e di data recentissima che si esercita da’ guagliune ed è questa.

Nelle giornate piovose, poiché l’acqua è cessala, vanno eglino frugan- do fra le commettiture e le fenditure de’ basoli, in busca di qualche fer- ruccio o chiodo od altra simile cosa che poi riuniscono e vendono.

Questa cotanto profittevole industria può bene considerarsi come un’appendice a quella non meno splendida del trova sigari!5

Potremmo aggiungere anche i garzoni de’ salassatori e parrucchieri,  i venditori ambulanti di cade e simili, ma essendo questi a considerare piuttosto come scalini al rispettivo mestiere, così è che all’apposito pa- ragrafo appartengono: contentandoci di chiuder questo col far cenno di un ultimo ufficio de’ guagliune, che non sappiam bene se chiamar si debba piccolo mestiere o mestiere, ma che pe’ barbieri se non altro, è un mestiere, come ha sanzionato Figaro, oramai rispettabile per la sua fama e vecchiezza

Un bel mestiere per verità Per un barbiere di qualità.

  1. 1   V. l’art.
  2. 2    V. l’art.
  3. 3    V. l’art. I venditori ambulanti in Toledo.
  4. 4   Giovani di bottega.
  5. V. l’art.

Mestieri.  Così come l’ozio e l’infingardaggine rendono cattivo   il cittadino o almanco poco utile, cosa non àvvi più adatta a distruggere il cattivo germe, disgraziatamente tanto ingenito alla umana natura, della incessante fatica e solerzia, le quali, laddove sian pure al buon vo- lere accoppiate, non v’ha mèta cui dubitar possano di non aggiugnere.

Ed a questo proposito, affinché via meglio apparisca quanto valgano siffatte pregevoli qualità nell’esercizio de’ mestieri, mi gode l’animo di qui riferire un dialogo a un dipresso tal quale l’udii ne’ miei primi anni, che mentre ci divertirà un tantino dalla monotonia della narrazione, varrà pure a dare allo straniero una qualche idea anche più chiara de’ modi familiari delle nostre famiglie popolane:

Lu si Tore 1 — capo inasto d’ascia. La siè Vicenza — verdummara.

Pascariello— guaglione, figlio de la siè Vicenza.

Salvatore -capo maestro d’ascia. a Vincenza— venditrice di verdura. Pasqualino—guaglione, figlio di lei.

Tore. Bonnì, siè Vicè.

Vie. (da lu vascio) Bongiorno ussignoria, mosto To’.

Tore. Che d’è?

Te veco ngullata stammatina… Aie avuto mala cera?

Vic. Viato tene, mosto To’… Sapisse, addò stanno mo le ccelevrelle meie. Tengo stu diavolo niro, ca nun me fa arrecettà né ghiuorno né notte (mmostanno Pascariello).

Pasc. Oimà… accattame allesse. Vic. La mala pasca che te vatta

Pasc. Oimà… accattarne u casatiello.

Tore. Embè; pecché nun nce l’accatte, siè Vicè… È piccerillo e nce vo pacienzia.

Vic. Siè To’… si nun fusse tu, mo te diciarrìa nu chiaccone… Chisto è nu lazzariello, nu banchiere… Chisto me vo uccidere a mme… Chisto me fa magna i mmorze amare.

Pasc. Oimà…nu turnese e franfellicche… Vic. (le mena nu zuoccolo e Pascariello se ne fuie) Mo te ne fuie, nè, lazzariè… Te ne fuie mo, chiappo de mpiso… Puozze sculà, puozze schiattà nsarvamiento nuosto e de chi nce sente 2. Ma statte zitto, ca quanno me viene dinto a le granfe te voglio

Salv. Buongiorno, siè Vincenza.

Vinc, (dal basso) Buongiorno a vossignoria, mastro Salvatore.

Salv. Che cosa è? Ti veggo assai di cattivo umore questa mattina. ‘Ài forse

avuto cattiva cera b?

Vinc. Oh te beato, mastro Salvatore… Se sapessi dove io mi abbia la testa…

Ci ho questo demonio nero che non fa trovarmi pace né di né notte (mostrando Pasqualino).

Pasq. Mamma, comprami le baloge. Vinc. Il malanno che ti colga….

Pasq. Mamma. comprami il casatiello c.

Salv. Or via; perché non gliel compri,

siè Vincenza? È fanciullo e ci vuol pazienza.

Vinc. Si Salvatore, se non fossi tu or ti direi uno sproposito… Costui è un piccolo lazzaro, un monello…

Costui mi vuote ammazzare… Costui mi fa trangugiare di continuo bocconi amari.

Pasq. Mamma, comprami un tornese di franfellicchi d.

Vinc. (gli tira uno zoccolo e Pasq. fugge) Or te’n fuggi, piccolo lazzaro… Ora te ‘n fuggi, capestro… Che tu possa scolare… Che tu possa crepare… in salvamento nostro e di chi ci ascolta e. Ma sta pure, che quando mi

cunzulà io… Nnevina, sì Tò, stu mpiso che bba facenno lu iuorno?

Nnevina. Tore. E cche?

Vic. Va facenno lu banchiere ncoppa a lu muolo, e cu ll’aute lazzarielle pare suie e pevo d’ isso iocano a capo o croce… se fanno lu tuccariello… Gnossì… lu tuccariello, stu muccuso ch’ancora a dda nascere. E cchesto n’è nniente… Uh faccia mia! A na famiglia nnorata comme a la nosta… stu lazzariello… stu faccia d’acciso peccerillo peccerillo… se mpara a rrobbà moccatore mmiezo a lu lario du Castiello. Tore. Siè Vicè… nun aggio che te dicere… Aie raggione, e chiù che raggiane. Te vurria propria cunzulà si putesse.

Vic. E che cunzulà… Co chisso arrassosia nun me fa vedi chiù ffaccia de confessore 3 e no juorno o n’ auto, a li cane sia ditto, chisto me venerrà acciso a la casa…

Cridemi siè Tò ca me ne songo proprio sculata da dinto a li panne… Na povera vedola ca Dio lu ssape comme campa… che s’a llevato le frutte dell’uocchie pe mmantenè a stu chiappo de mpiso (chiagne).

Tore. Siè Vicè… tu me sparte lu core… Ma, aspè… Pecche nun lu miette all’arte?

Vic. Vulesso lu Cielo. Tenarria celevriello chillo banchiere, ma nun bo’ appricà…

Tore. Mannammillo ccà dimane. Vie. E che nne caccie, nè?

Tore, ilo vedimmo. Accummenzammo nuie ca lu Cielo farrà lu riesto. Aiutate ca DDio t’ aiuta dice lu ditto.

Vic. E che ne vuò sperà, sì Ture mio. È tiempo perzo. Chi lava la capa all’aseno nce perde la lisciva e lu ssapone.

Tore. Siè Vicè, siè Vicè… e mo me nzallanisce. T’aggio ditto: manname a figlieto dimane cu na scusa, e io ncapo a nu mese te lu torno n’auto… Tu mmedesema nun lu canusciarrai chiù; tu mmedesema diciarrai: chisto è figliemo o nun è figliemo?

Vic. Passasse l’ angelo e dicesse ammenne. Tore. T’aggio ditto: manname a figlieto dimane.

Vic. Te lu mannarraggio sì To, e si

verrai fra le unghie voglio acconciarli ben io come va… Indovina un po’ sì Salvatore questo tristo impiccato che va facendo nella giornata? Indovina?

Salv. E che?

Vinc. Va facendo il monello sul molo, e con altri piccoli lazzari suoi pari o peggiori di lui giuocano a capo o croce… fanno al tocco… Signorsi… al tocco… cotesto moccioso f che quasi pur dianzi è nato… Oh mia vergogna!… Ad una famiglia onorata come la nostra.. Questo piccolo lazzaro… questa faccia da

forca… piccolo ancora… apprende a rubar fazzoletti in mezzo al largo del Castello g. Salv. Siè Vincenza.. non so che dirti… Ai ragione e più che ragione. Vorrei proprio consolarti se potessi.

Vinc E come consolarmi; ché costui, oimà, non fa eh’ io vegga più la faccia di un confessore h e un giorno

o l’ altro, sia detto per li cani i costui mi verrà ucciso a casa. Credimi sì Salvatore, che mi son cosi dimagrita da non reggermi più indosso gli abiti… Una povera vedova che Dio sa come vive… che si ha tolto li bulbo dell’occhio k per dar da vivere a cotesto capestro (piange).

Salv. Siè Vincenza, tu mi spezzi il cuore… Ma, stà. Perché non lo addici all’arte?

Vinc. Il Ciel volesse. Quel furfantello avrebbe bene l’ingegno (da poter attendere a lavorare cioè) ma non vuole applicarsi.

Salv. Mandalo qui a me domani. Vinc. E a qual prò, di grazia?

Salv. Vedremo. Cominciamo noi, ché poi il Cielo farà il resto. Aiutati ché Iddio ti aiuterà, dice l’adagio.

Vinc. E che vuoi sperarne, sì Salvatore mio. E tempo perduto. Chi lava il capo all’asino vi perde il ranno ed il sapone.

Salv. Siè Vincenza, sii Vincenza… ora mi stordisci. Ti ho dello: mandami tuo figlio domani sotto un qualche

pretesto, ed io a capo di un mese te lo renderò tutt’altro… tu stessa non lo riconoscerai, tu stessa dirai: E questo il mio figliuolo, o non lo è?

Vince. Passasse l’angelo e dicesse amen.

Salv. Ti ho detto: mandami tuo figlio

veramente me lu faie arrennere ca lu Cielo te pozza benedicere e aonnà comme aonna la messa 4. Ma… teccutillo che se ne vene fiscanno cu n’auta chiorma de lazzarielle. Ah mpiso, mpiso (a lu figlio che bbene vuttannolo

dinto a lu vascio). Trase dinto, galantò, ca po facimmo li cunte. Bonnì sì Tó.

Tore. Bonnì, sii Vice… (zitto zitto a Vicenza) Aie ntiso mo, mannammillo… a la fine è ccriatura, e lu llignamme verde se pò sempre chijà.

Vic. Lu Signore te pozza benedicere. Bongiorno ussignoria…

domani.

Vinc. Te lo manderò si Salvatore, e se veramente potrai far che si pieghi che il Cielo ti possa benedire e farti abbondare come abbonda la messa l. Ma… eccolo che se ne viene fischiando con una mano di piccoli lazzari… Ah disgraziato, disgraziato (al figlio che è sopraggiunto, spingendolo nel basso). Entra, bel galantuomo, ché salderemo poi le partite. Buongiorno si Salvatore.

Salv. Buon giorno, siè Vincenza (in disparte) Ci siamo intesi; mandamelo. Alla fin fine è fanciullo ed il legname verde si può sempre piegare.

Vinc. Il Signore ti possa benedire Buongiorno a vossignoria.

Decorsi diciassette anni incirca da che udii un tal dialogo, nel mentre un bel dì di domenica andava a diporto con un vecchio capitano di nave napolitana per la bellissima strada della marina, vidi passarmi daccanto uno non dirò magnifico ma certo assai decente carrozzino con entro un uomo d’intorno ai trent’anni, vestilo con molta pulizia, una donna di avanzata età; una giovane in sul ventottesimo anno e due puttini, un maschio ed una femina, belli belli come due amorini.

Il mio compagno di passeggiata mi disse come colui fosse un capo- maestro al servizio del Governo, che, la mercé dell’indefesso lavoro, della sua ottima volontà, di una esemplare condotta, era giunto infino  a metter su un più che sufficiente capitale pe’ propri bisogni e per quel- li della sua famiglia; ed io ebbi a stupire sommamente allorché dalle relazioni venni a riconoscere in cotesti personaggi quel monello di Pa- scariello, oggi D. Pasquale, la siè Vincenza, oggi D. Vincenza, e l’altra giovane assai avvenente, moglie di Pascariello che probabilmente era anch’ella conosciuta un giorno come la siè Concetta ma oggi chiamasi donna Concetta, e forse anche eccellenza perché l’eccellenza dal nostro popolo si vende a buon patto: in ispecie quando vede che Sua eccellenza ha denari e spende bene.

Donna Vincenza dunque attualmente benedice la memoria del buon mastro Tore (perché non è più) per la cui opera, in cambio d’un figliuo- lo che parea accennare indubitatamente ad un discolo, ad un capestro ha acquistato un modello di figliuolo virtuoso tenero ed operoso.

Nè certo men di lei gode il figliuolo pensando di poter lasciare alla sua prole un sufficiente e forse pingue peculio senza rimorsi e senza

pentimento., ché se Iddio da una parte ci diede il pane nella fatica e nel sudor della fronte, dall’altra il condì di tale un sapore che fa talvolta scordare e le sofferenze e le angosce e le fatiche durate.

E così il fabbro, il ferraio, il calzolaio, il sarto, il sellaio, il muratore, il parrucchiere ec. e così anche il mercante, e il rigattiere e il sensale e talvolta ancora il negoziante primario non riconoscono la loro primiti- va origine dal povero e non curato Viva dunque il lavoro cd i mestieri..

Conclusione.

E come quei che con lena affannata Uscito fuor del pelago alla riva

Si volge all’acqua perigliosa e guata

Così affannoso anch’io di guadagnarla riva dopo corso l’oceano delle vicende guaglionesche in quel modo che meglio si poteva da troppo inesperto pilota non ho che solo due altre parole ad aggiugnere, come breve riepilogo del già esposto, cioè che in tutta quanta la storia del guaglione napolitano l’acume dell’ingegno ammirar possiamo, una vi- vacità e sveltezza senza pari, e molti altri favori onde natura gli fu lar- ga, ma congiunti nondimeno a molli difetti che sol l’educazione, novel- la vita dell’uomo, giugnerebbe ad estirpare, ché anche il buon frumento è al loglio commisto, la buona pianta agli sterpi, ma la mercé del vaglio e della falce la dorata cerere biondeggia, e la pianta, olezzante e rigo- gliosa forma il sorriso dei prati e la felicità del solerte agricoltore, che lietamente e benedicendo il Cielo, ad esso intorno i suoi sudori profon- de.

ENRICO COSSOVICH.

1presso il popolo pare che valga a un dipresso come l’antico aere. È un modo tra il signorile e  il triviale; e la siè è il femminino del sì.

a «Questa versione non ha altro scopo che di far intendere, alla meglio, alla straniero affatto ignaro del nostro dialetto, ciò che contiene questo dialogo e non altro. Invano intanto ci adopre – remo a conservar la venustà, la semplicità, l’indole, in una parola tutta propria, tutta originale, tutta caratteristica del dialetto; anzi talune cose è affatto impossibile rendere in italiano, o alme- no fredde e snervate per modo che nulla più vi si ravvisi della originale bellezza. —Una tale pro- testa era indispensabile.

2 Allo straniero avverrà sovente che queste e somiglianti frasi ed imprecazioni  oda profferire  nell’ira dalle madri popolane di Napoli, a prima giunta cosi straordinarie e scandalose in bocca d’una madre; ma si rimanga dal giudicare dalle primo sensazioni. Tali modi nella nostra plebe non son mica differenti dal Mammone e dalla befana che si dà ad intendere al bambino affinché zittisca; ed invece questo madri, come tutt’i Napoletani, hanno ottimo cuore ed amano teneramente la loro prole.

3 Cioè » pe’ peccati che commetto a cagion sua non ardisco più di presentarmi innanzi di un con- fessore».

4 Aonnare cioè abbondare… Perciò dovrebbe tradursi: » Il Cielo ti possa abbondare come abbon-  da la messa.» —Ma che significa ciò? Nulla. Intanto nel dialetto è una frase che suol ripetersi le mil- le volte por felicitare alcuno o fargli lieti auguri e pare che valga come il dire:— » Il Cielo possa ab- bondare di tanti beni e grazie inverso te per quanto la messa è produttrice di grazio o di boni celesti per l’anima ». — Ed ecco una dello tanto specialità del dialetto che a potersi bene intendere e gusta – re fa mestieri aver lunga pozza fatto soggiorno in un paese.

b Cioè: ti ha forse fatto cattivo sembiante il tuo innamorato? — È modo scherzevole del popolo.

c      Spezie di torta con uova, di cui parlammo, e di rito ne’ giorni pasquali.

d     De franfellicchi si è già fatto parola. — Vedi il franfelliccaro.

e     Vedi la nota n. 2. che corrisponde egualmente a questo punto.

f    Vale a dire cotesto ragazzaccio cui pule ancor la bocca di latte. — modo del popolo muccuso.

g    Già tempo ritrovo conosciutissimo di sacculari.

h     Vedi la nota n. 3.

i Non so perché tutti malanni le morti le pesti, nel linguaggio del nostro popolo, debbono essere indirizzati a queste povere e fedelissime bestie, quando ve ne ha tante altre così brutte e malvage, ma tanto è così.

k Modo enfatico del dialetto per indicare i sacrifizi che costa un figliuolo alla madre. — Il nostro dialetto, come ognuno vede, è pieno di metafore ardite, d’immagini vivacissime sì che difficile è il trovarne altro al pari energico, vibrato, concettoso, veemente; ed il quale più al vivo ne faccia sentire nell’animo tutto quello che esprime. —L’orientalismo che è non solo nella poesia ma anche nel linguaggio familiare del nostro popolo chiaramente lo mostrano non pure di anima ardente e passionata, ma bene ancora figliuolo prediletto delle muse.

l Ecco una frase del dialetto che è impossibile rendere in italiano. —Lu cielo te pozza aonnà com- me aonna la messa. Vedi la nota corrispondente al num 4.

DESCRITTI E DIPINTI

OPERA DIRETTA DA
FRANCESCO DE BOURCARD

NAPOLI
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI GAETANO NOMLE

Vicoletto Salata a’  Ventaglieri num. 14.1853

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