Verga, la Lupa e il fascino dell’immaginazione
I personaggi delle novelle e dei romanzi veristi verghiani appartengono ad un mondo ancestrale, dove è più facile analizzare le passioni elementari. Un caso esemplare è la bellissima novella La lupa. Tanta letteratura contemporanea deve riscoprire il fascino dell’immaginazione che sa viaggiare sulle scie dettate da poche parole dei grandi scrittori.
Nel 1920 si festeggiarono pubblicamente gli ottant’anni di Giovanni Verga davanti al Ministro della pubblica istruzione Benedetto Croce al Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania. Luigi Pirandello tenne un magnifico discorso per celebrarne l’opera distinguendo la poesia di parole di D’Annunzio dalla poesia di cose di Verga. Era il 10 settembre del 1920.
Pirandello confrontò Verga con il letterato che aveva riscosso il maggior successo in Italia in quei decenni. Coglieva con profondità la differenza fondamentale tra i due:
“Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori; il D’Annunzio è tutto letteratura, anche là dove l’esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la quale ha arricchito col più dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi».
Così Pirandello sintetizzava i due differenti stili: stile di parole e stile di cose da sempre si sono contrapposti nella letteratura italiana, sottolineava Pirandello, fin dal Trecento quando alla concretezza di Dante Petrarca contrappose la vaghezza e l’indeterminatezza del linguaggio.
Nato nel 1840 a Catania, Giovanni Verga si era più tardi trasferito a Firenze nel 1865 per approdare, poi, alla ricerca del successo e dell’affermazione letteraria a Milano, capitale economica ed editoriale dell’allora Regno d’Italia. Era il 1872.
Vagando per le diverse città, corteggiò spesso donne già impegnate senza creare radici affettive e formarsi una famiglia. Non conseguì il successo economico per la sua vasta produzione romanzesca e novellistica, che ottenne il plauso della critica, ma non il favore del pubblico. Fu, invece, la sceneggiatura di una sua novella, Cavalleria rusticana, musicata da Mascagni e rappresentata alla Scala, a fargli conseguire una cospicua somma di denaro. In seguito al successo dell’opera Verga chiese al musicista un congruo compenso economico. Mascagni non glielo riconobbe. Così Verga lo citò in giudizio e ottenne come risarcimento l’ingente somma di 143 mila lire (quasi mezzo milione di euro di oggi). Nel 1893 Verga ritornò in Sicilia, rinchiudendosi, a quanto è testimoniato, in un cupo silenzio e in un’improduttività letteraria per quasi trent’anni (pubblicò, infatti, pochissimo dopo Mastro don Gesualdo, uscito nel 1889). Verga venne nominato senatore a vita nel 1920 e, colto da un ictus, morì nel 1922.
Gli esordi letterari di Verga erano stati di stampo patriottico-risorgimentale: negli anni del periodo catanese (1840-1865) aveva scritto romanzi come Amore e patria, Sulla laguna, I carbonari della montagna. A Firenze Verga pubblicò, invece, opere di tipo erotico-passionale: Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871). Il periodo milanese (1872-1893) si aprì con romanzi sempre di natura sentimentale: Eva (1873), Eros (1875), Tigre reale (1875).
La conversione di Verga al verismo avvenne gradualmente dopo che conobbe lo scrittore Luigi Capuana, considerato il maestro del verismo italiano. Dapprima lo scrittore siciliano cambiò le ambientazioni e i personaggi delle opere nel bozzetto siciliano Nedda (1874) che vede come protagonista una raccoglitrice di olive, che perde l’amato e la figlia. Anche se lo sguardo dell’autore si concentrava ora sulle classi sociali più basse, il metodo di racconto non era ancora verista e impersonale. Lo sarebbe stato solo a partire dalla novella Rosso Malpelo (1878), confluita, poi, nella raccolte Vita dei campi (1880). Gli anni Ottanta costituirono il decennio verista per eccellenza con la pubblicazione de I Malavoglia (1881), Novelle rusticane (1883), Mastro don Gesualdo (1889).
Nel 1889, anno in cui venne pubblicato il secondo romanzo del ciclo dei vinti Mastro don Gesualdo, uscì anche il romanzo del ventiseienne scrittore Gabriele D’Annunzio, Il piacere,il cui successo decretò anche l’affermazione del movimento dell’Estetismo anche in Italia, favorendo una sensibilità nuova, di stampo decadente, nettamente contrapposta a quella verista e al paradigma culturale positivista.
Ma in che cosa consistono lo sguardo e la poetica verista? Verga condivide con i naturalisti alcune idee sull’uomo e sulla letteratura: ne accetta la concezione deterministica dell’agire umano e l’idea che la vita interiore sia spiegabile in termini psico-fisici. Verga vuole applicare anche alla letteratura il metodo rigoroso della scienza guardando «i documenti umani», i fatti veri, storici, analizzati con scrupolo scientifico, in maniera oggettiva secondo il canone dell’impersonalità.
I veristi sono, però, anche in disaccordo con i naturalisti su molti punti: la scrittura deve prelevare dalla scienza solo lo scrupolo della rappresentazione oggettiva e impersonale. Falso è sostenere che la letteratura sia subordinata alla sociologia e alla politica, perché l’arte è autonoma, non finalizzata al progresso della società o al miglioramento delle condizioni delle classi sociali inferiori tanto più che i veristi sono pessimisti sull’effettiva possibilità di cambiamento dei poveri e dei diseredati e appaiono fatalisti e pessimisti al riguardo. Basti pensare al ciclo dei vinti di Verga in cui i personaggi aspirano ad un cambiamento economico e sociale, ma rimangono travolti dalla «marea» del progresso e soccombono. Anche chi riuscisse a scalare i gradini della società sarebbe, poi, costretto a soccombere perché si ritrova isolato.
Nella prefazione all’Amante di Gramigna (novella appartenente a Vita dei campi) Verga spiega in cosa consista la poetica verista esponendo il canone dell’eclissi dell’autore. La novella deve sembrare qualcosa di raccolto tra i campi tanto che «l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé». L’opera d’arte raggiungerà la perfezione quando «la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile» e saranno solo le cose a parlare. Verga passa così da una «poesia di parole» ad una «poesia di cose» (per poesia dobbiamo qui intendere l’atto creativo).
Per ottenere l’impersonalità e l’oggettività nella narrazione Verga si avvale di artifici letterari che permettono di attuare l’oggettivizzazione del racconto. Grazie alla regressione il narratore assume un punto di vista più basso, a livello culturale e sociale, rispetto a quello che l’autore realmente possiede come nell’inizio della novella «Rosso Malpelo» in cui Verga racconta che il ragazzo si chiamava Rosso Malpelo perché aveva i capelli rossi e aveva i capelli rossi perché era cattivo (giudizio di un ceto sociale basso, ignorante e superstizioso, non certo il punto di vista di Verga).
Con il discorso indiretto libero (trascrizione dell’Erlebte rede,o «discorso rivissuto», termine coniato dal critico tedesco Leo Spitzer) Verga riporta il pensiero o le parole dei personaggi così come i personaggi potrebbero pensarli o pronunciarli nella realtà. Ogni personaggio ha il suo idioletto, cioè il suo linguaggio specifico.
La lingua non è certo il siciliano. Verga crea bensì una sorta di italiano abbassato, improntato alla mimesi del parlato, un linguaggio ibrido, che non è né italiano né dialetto puro. Per questo ripete spesso la congiunzione «che», usa l’indicativo al posto del congiuntivo, si avvale spesso di proverbi e di espressioni siciliane italianizzate.
Il grande regista italiano Luchino Visconti, trasponendo il romanzo I Malavoglia nel film La terra trema,sceglie pescatori siciliani che parlano nel loro dialetto mostrandoci come il siciliano stretto (quello parlato dai pescatori di Aci Trezza) sarebbe inaccessibile, mentre la lingua delle opere di Verga è, invece, perfettamente comprensibile ad un lettore di cultura media.
I personaggi delle novelle e dei romanzi veristi verghiani (per lo più contadini, pastori, minatori) appartengono ad un mondo ancestrale, dove è più facile analizzare le passioni elementari, e sono connotati da un certo regionalismo, più che italiani sono siciliani, come scrive Capuana: a Verga non basta «che quei suoi personaggi siano italiani: egli va più in là, vuole che siano siciliani […]. Ha bisogno che siano proprio d’una provincia, d’una città, d’un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano».
Proprio una spiccata sicilianità connota le opere veriste verghiane: passioni forti, gelosie che portano a duelli o addirittura all’omicidio, paesaggi pieni di vita o assolati nella canicola estiva, abitanti popolani che abitano i paesi della costa o dell’entroterra, dediti alla pastorizia o all’agricoltura o alla pesca.
Un caso esemplare è la bellissima novella La lupa, appartenente a Vita dei campi e più tardi trasposta a livello teatrale e cinematografico.
Verga costruisce attorno alla protagonista femminile un’aura infernale. Lo stesso nome, attribuito alla donna dal popolo, sembra prelevato dall’Inferno dantesco dove la lupa rappresenta la cupidigia: anche la gnà Pina è «sazia giammai – di nulla». Il campo semantico legato alla lupa e al cane prosegue in tutto il racconto: lei è «sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata». Il popolo affianca a quella donna anche l’immagine del demonio: la lupa ha gli «occhi da satanasso» e, poi ancora, leggiamo che «il diavolo quando invecchia si fa eremita». Per questo la gente si fa il segno della croce quando vede quella lupa che non va mai in chiesa, «né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi».
Un giorno la Lupa s’innamora di Nanni, giovane appena tornato dal militare. Prova a conquistarlo con la sua seduzione, ma il giovane non cede, perché vuole sposare la figlia di lei. Accade allora che la madre acconsente al matrimonio purché le venga ritagliato un piccolo spazio nella casa della futura coppia di sposi.
A questo punto viene inserita la prima ellissi temporale del racconto. Sono addirittura trascorsi anni. Nanni e Maricchia si sono sposati, sono nati dei figli, la Lupa ha ottenuto di rimanere in casa con genero e figlia, mai desistendo dal proposito di conquistare il giovane. Un giorno riesce nell’intento, svegliando di soprassalto Nanni, stanco e addormentato in un fosso vicino ad una «siepe polverosa». La grande magia del racconto sta nel sottaciuto e nel non raccontato, gran pregio di un autore come Verga che, al contrario di tanta narrativa contemporanea che ostenta il sesso e la morte, sa alludere e far immaginare.
Dopo aver ottenuto quanto desidera, la Lupa se ne va via «riannodando le trecce superbe» e, poi, ritorna tante altre volte nell’aia per incontrare il genero. Nessuna ostentazione morbosa, nessuna indulgenza alla passionalità, ma grande capacità sintetica, che emerge in dialoghi teatrali rapidi presentati nel cuore della novella in cui Verga mette in scena madre e figlia che si accapigliano. Maricchia apostrofa la Lupa con gli epiteti di «mamma scellerata» e di «ladra». Alla fine decide di rivolgersi al brigadiere per denunciare la madre. Nanni non cerca di discolparsi, anzi dichiara che «è la tentazione dell’inferno» ad indurlo ad un comportamento siffatto. Per questo preferisce andare in galera o morire piuttosto che cedere ancora alla seduzione della suocera. La Lupa, però, non vuole andarsene di casa fino a che non accade che Nanni, ricevuto un calcio da un mulo, rischia di morire e il prete rifiuta di portargli il viatico se la donna rimane nella casa col genero. Solo quando la Lupa se ne va, Nanni si confessa, contrito e dispiaciuto per tutto quanto è accaduto. Magari fosse morto in quel momento, è il commento che compare nella novella, solidale a quanto probabilmente pensano tutti gli abitanti del paesino. Il giovane, invece, guarisce e la suocera torna a tentarlo. Nanni paga «delle messe alle anime del Purgatorio», in segno di penitenza fa «pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa». Infine, minaccia di ammazzare la Lupa.
Nella scena finale («Ah! malanno all’anima vostra! – balbettò Nanni») l’immaginazione del lettore è sollecitata: la morte non è raccontata, tutti si immaginano l’ira omicida di Nanni senza che l’autore la descriva. Anche i due padri della lingua italiana, Dante e Manzoni, decisero di tacere rispettivamente le vicende di Paolo e Francesca e della Monaca di Monza, con l’endecasillabo «Quel giorno più non vi leggemmo avante» e l’ottonario: «La sventurata rispose». Dante e Manzoni tacciono per una questione morale, perché non vogliono correre il rischio di sedurre i lettori al fascino del male.
Verga tace per altre ragioni. Descrivere tutto e varcare la soglia del vietato letterario significa spesso limitare la capacità del lettore di interagire con l’opera letteraria. Le grandi opere sanno dire e non dire, sanno quale sia il limite oltre il quale può essere il lettore a viaggiare con l’immaginazione.
Tanta letteratura contemporanea deve riscoprire il fascino dell’immaginazione che sa viaggiare sulle scie dettate da poche parole dei grandi scrittori.
fonte https://lanuovabq.it/it/verga-la-lupa-e-il-fascino-dellimmaginazione-1