VERSO IL COMPIMENTO DELLA RIVOLUZIONE ITALIANA-CAPITOLO SECONDO
Non si può esaminare ed interpretare un qualsiasi accadimento, né tantomeno giudicarlo, se non si pone la massima attenzione alle condizioni storiche concrete presenti nel momento in cui tale accadimento si è verificato. In termini più diretti: è disonesto e fuorviante emettere sentenze sull’operato di Pio IX prescindendo dalle effettive situazioni nelle quali visse ed agì.
Quella che può sembrare una ovvia e banale precisazione si rivela, invece, di fondamentale importanza. E’ anzi l’unica chiave che consente di capire la genesi del Sillabo e la difesa militare di Roma, così spesso rinfacciate al papa quali gravi responsabilità, autentici crimini di “lesa modernità”.
Vediamo allora, seppure con una panoramica alquanto rapida ed incompleta, qual’era il clima che si respirava quando Giovanni Maria Mastai Ferretti assurse alla cattedra di Pietro.
1) Le “nuove idee” e la preparazione della Rivoluzione italiana
Abbiamo già accennato, nel capitolo precedente, al clima di “insurrezione culturale” che caratterizza la prima metà del secolo scorso e che prepara la stagione del Risorgimento italiano. Merita qui di essere ribadito che la guerra culturale, filosofica, politica e sociale dichiarata dalla Rivoluzione francese alla società pre-rivoluzionaria (ormai pallido riflesso di quella che era stata la plurisecolare civiltà cristiana romano-germanica) viene condotta, sul fronte italiano, sotto la bandiera dell’unità politica e dell’indipendenza del paese. Questa bandiera viene in gran parte a svolgere, in tal modo, il ruolo di “cavallo di Troia” per la diffusione della Rivoluzione in Italia e la sua scristianizzazione.
L’utilizzo strumentale di particolari condizioni e stati d’animo al fine di promuovere il successo di cause diverse da quelle pubblicamente abbracciate è, d’altra parte, una strategia nota ed autorevolmente collaudata: potremmo quasi dire che come Marx utilizzò in modo assolutamente strumentale il malcontento del proletariato per promuovere la causa suprema della Rivoluzione (9), così i fautori della versione italiana della Rivoluzione del 1789 utilizzarono la causa unitaria e indipendentista.
L’operazione riuscì, tanto che non manca chi ha definito il 1870, cioè il compimento del Risorgimento, come “l’Ottantanove d’Italia, il momento del passaggio istituzionale della nostra nazione dall’Antico Regime all’ordine nuovo rivoluzionario” (10).
Secondo la polemica condotta dai gesuiti principalmente dalle pagine della Civiltà Cattolica, “[…] il Risorgimento non è solo un fatto nazionale, un nuovo assetto politico da dare all’Italia, ma un aspetto particolare di un fenomeno europeo, l’applicazione forse più coerente dei princìpi rivoluzionari, la violazione continua del diritto, l’assalto contro la religione e contro l’indipendenza del capo della Chiesa, cui si vuole togliere l’insostituibile garanzia di libertà”(11).
Dunque, il nobile ideale dell’unificazione politica della penisola italiana e la consequenziale conquista dell’indipendenza dallo straniero, altro non sarebbero che la modalità utilizzata nel nostro Paese per consentirvi un più agevole ingresso dell’ideologia della modernità, l'”ordine nuovo rivoluzionario”.
Ma in due parole, in che cosa consiste questo ordine nuovo, quali idee lo caratterizzano?
“[…] Circa centocinquant’anni dopo Cartesio, constatiamo come tutto ciò che era essenzialmente cristiano nella tradizione del pensiero europeo sia già stato messo tra parentesi. Siamo nel tempo in cui in Francia è protagonista l’illuminismo, una dottrina con la quale si ha la definitiva affermazione del puro razionalismo. La Rivoluzione francese, durante il Terrore, ha abbattuto gli altari dedicati a Cristo, ha buttato i crocifissi nelle strade, e ha invece introdotto il culto della dea Ragione. In base al quale venivano proclamate la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza. In questo modo il patrimonio spirituale, e in particolare quello morale, del cristianesimo era strappato dal suo fondamento evangelico, al quale è necessario riportarlo perché ritrovi la sua piena vitalità” (12).
Il “puro razionalismo” illuminista di cui parla Giovanni Paolo II, autentica anima del moto rivoluzionario, non tarda ad entrare in rotta di collisione con la religione e con la struttura sociale che della religione fa il proprio punto di riferimento essenziale.
Il liberalismo razionalista e relativista ottocentesco viene così a contrapporsi frontalmente alla dottrina cattolica “negando la trascendenza e l’intervento di Dio nella storia; la comprensibilità e possibilità medesima della Rivelazione; l’utilità della religione in genere e la soprannaturalità del Cristianesimo; assolutizzando la libertà, il pensiero e la coscienza individuale; innalzando la ragione e la scienza a criterio unico ed autosufficiente di verità; esaltando lo Stato come detentore e fonte di ogni diritto ed assoggettandogli al tutto la Chiesa…” (13)
Queste sono le premesse filosofiche ed ideologiche dell’epoca delle rivoluzioni, ed è con questo genere di idee e di intendimenti che Pio IX deve confrontarsi, giorno dopo giorno, avendo cura di difendere l’integrità della dottrina e la piena libertà della Chiesa.
A questa sfida, così ardua, papa Mastai si sarebbe sottratto volentieri per dedicarsi alla cura delle anime ed alla coltivazione della propria spiccata sensibilità religiosa, se il disegno provvidenziale non lo avesse posto alla guida della Chiesa proprio negli anni in cui lo scontro si acuiva e diventava dolorosamente ineludibile.
Del resto, era ben viva la memoria degli anni della giovinezza, quando la tempesta rivoluzionaria, smessi gli abiti dell’estremismo giacobino ed indossate le più tranquillizzanti vesti di Napoleone Bonaparte, era giunta fino a trarre in arresto papa Pio VII, relegandolo in esilio ed in stato di isolamento, affinché con la propria azione non potesse ulteriormente mettere in guardia la cattolicità dalle aberrazioni della Rivoluzione. Ed è proprio in ricordo di Pio VII che il card. Mastai Ferretti, chiamato alla guida della Chiesa, sceglie il nome Pio.
Divenuto papa, dunque, si dedica a fronteggiare in maniera adeguata le nuove idee. Senza mostrare ostilità pregiudiziali, ma anche senza cedimenti sul piano dei princìpi.
Pio IX manifesta subito la propria disponibilità al confronto con una realtà in rapida evoluzione, ma non può ignorare che, al di là dello sbandieramento di rivendicazioni più o meno comprensibili, la partita si gioca essenzialmente sul terreno dottrinale e dei princìpi.
Fin dalla sua prima enciclica, pubblicata cinque mesi dopo il conclave, Pio IX individua con chiarezza i caratteri ideologico-filosofici dell’attacco alla Chiesa e mette in guardia i cristiani contro le false idee degli avversari della religione, i quali non “dubitano di arrogarsi il nome di filosofi, quasi che la filosofia, che si aggira tutta nell’investigazione delle verità naturali, debba rifiutare quelle che lo stesso supremo e clementissimo autore della natura, Iddio, per singolare beneficio e misericordia si è degnato di manifestare agli uomini, affinché conseguano vera felicità e salvezza. Quindi […] audacemente blaterano, che la medesima [fede in Cristo] ripugna alla ragione umana ” (14).
In Italia, accade che queste nuove idee siano fatte proprie da un ristretto gruppo di intellettuali ed uomini politici, molti dei quali vengono a costituire, contestualmente alla elezione di Pio IX, la classe dirigente del Regno di Sardegna. Torino diviene il perno attorno al quale ruoteranno i destini della Rivoluzione italiana e la monarchia sabauda comincia ad accarezzare il sogno della nascita di un Regno d’Italia da essa guidato. “La causa nazionale aveva trovato un’altra guida: il Piemonte. Esso costituiva il centro di raccolta di tutte le forze rivoluzionarie […]” (15).
L’adesione alle idee della Rivoluzione, unita alla ambizione di crescita politica e di espansione territoriale, generano la miscela esplosiva che consentirà la deflagrazione definitiva della Rivoluzione nazionale. La prospettiva è esaltante: finalmente un Regno vasto e potente, un ruolo internazionale da protagonisti, un’epopea gloriosa da ascrivere alla propria intraprendenza e lungimiranza. Effettivamente per la dinastia sabauda e la nuova classe dirigente piemontese, francofona non solo perché incapace di esprimersi in lingua italiana ma principalmente per la propria formazione ideologica, si apre un orizzonte di tutto rilievo.
L’incontro tra tali aspirazioni espansionistiche e le cosiddette nuove idee prepara il terreno, sul piano ideologico, politico e militare, al successo della Rivoluzione italiana. Si determinano in tal modo le condizioni storiche ideali per il conseguimento di un obiettivo (la Rivoluzione italiana, appunto) certamente debitore del Rinascimento e del genio politico di Machiavelli.
La spinta iniziale propiziata dal movimento rinascimentale subisce poi una forte accelerazione con la dominazione napoleonica in Italia (1796-1815) –16-, prosegue durante l’apparente “restaurazione” e trova il proprio sbocco dopo il 1848 grazie all’incontro tra una dinastia e una classe dirigente disposte a guidare il cambiamento con gli interessi (e le armi) di grandi potenze europee.
Questa fase propedeutica al Risorgimento è anche influenzata da una scuola di pensiero, nata nell’ambito dell’illuminismo settecentesco e alquanto diffusa nell’Ottocento, secondo cui l’arretratezza politica ed economica italiana sarebbe da addebitarsi al ruolo dominante svolto dal cattolicesimo, mentre lo sviluppo del settentrione europeo dovrebbe tributarsi al maggiore rigore tipico del protestantesimo.
Questa “nostalgia di Riforma mancata”, troverà emblematica manifestazione nel sostegno che lo stato sabaudo e l’Inghilterra, suo potente alleato, accorderanno alla diffusione delle Società bibliche ed agli altri tentativi (falliti) di proselitismo protestante in Italia, e contribuirà a caratterizzare in senso ostile al cattolicesimo una parte significativa del movimento risorgimentale.2) Unità o annessione?
Se la considerazione delle premesse ideologiche dell’epopea risorgimentale è certamente fondamentale per comprendere l’atteggiamento poco benevolo del papa, appare comunque di non trascurabile rilevanza anche l’esame delle modalità che permisero a tale epopea di ottenere il proprio scopo.
Ce ne occuperemo un pò più diffusamente quando parleremo della presa di Roma. Per ora basti una premessa di ordine generale.
Prima di tutto si tratta di ricostruire quale fu il vero atteggiamento della Chiesa di fronte all’ipotesi dell’unificazione politico-territoriale della penisola italiana. L’idea di unità risale a qualche secolo prima di Mazzini e Garibaldi e si fonda sulla considerazione dei comuni caratteri religiosi, culturali ed etnici delle popolazioni italiane. Tale idea non si traduce in vera e propria aspirazione alla unificazione politica se non relativamente tardi rispetto agli altri Paesi europei ed assume inizialmente i connotati di una unificazione di tipo confederale. Questa soluzione, che considera realisticamente, oltre ai cennati caratteri comuni, anche le non trascurabili differenze nonché la oggettiva plurisecolare suddivisione della penisola in diversi Stati, avrebbe consentito una fusione armonica delle diverse componenti nazionali senza alterarne caratteri autonomi e peculiarità locali.
I cattolici propugnarono questo ideale e non opposero alcuna resistenza all’idea di unificazione.
Il problema nacque dal contrasto che venne determinandosi tra questa prospettiva confederale “realistica” e il progetto annessionistico che venne ben presto elaborato dalla classe dirigente del Regno di Sardegna, con il fondamentale apporto dell’ala più estremistica, definita come “democratica”, riconducibile ai filoni ideologici facenti riferimento a Mazzini e Garibaldi.
Secondo costoro, l’Italia doveva uscire dall’arretratezza prodotta da secoli di cattolicesimo e di divisione politica, doveva recuperare le posizioni perdute rispetto alle progredite consorelle europee, liberarsi dal peso del papato, acquisire piena dignità di grande nazione moderna secondo i dettami della Rivoluzione francese. Tutto ciò imponeva la eliminazione degli Stati esistenti, primo tra tutti dello Stato pontificio, e la imposizione dalle Alpi alla Sicilia delle stesse leggi, della stessa amministrazione, della stessa cultura ufficiale, delle stesse idee. Ed è esattamente ciò che accadde.
Appare evidente, date le premesse, che i fautori cattolici dell’unificazione di tipo confederale non poterono accettare l’idea dell’annessione piemontese di matrice ideologico-rivoluzionaria. “Ciò che si voleva era una confederazione, un’unione che rispettasse la complessa e diversa storia e insieme la pari dignità delle varie regioni italiane. Le quali, invece, si sentirono spesso come colonie africane invase dai “bianchi” giunti da un Piemonte il cui Re quasi non sapeva parlare italiano. […] Volevano, quei cattolici, una unità che non fosse solo un episodio della secolare espansione dei Savoia in Italia; una unità, poi, che non calasse dall’alto, imposta da una piccola casta di borghesi, di aristocratici, di intellettuali, di scontenti, di utopisti, quando non di avventurieri e di demagoghi, ma che coinvolgesse le masse popolari” (17). E invece accadde il contrario: il processo di unificazione assume una caratterizzazione in senso anticattolico nonché i connotati di una annessione. “Vi era nella mentalità di non pochi uomini della Destra la tendenza a considerare il nuovo Stato italiano come l’ampliamento di quello piemontese. La classe politica piemontese, che manteneva giustificate e preminenti posizioni, non aveva duttilità d’ingegno, né sempre sapeva guardare i problemi nella loro realtà, e non dall’angolo visuale di un Piemonte ingrandito” (18).
Detto in altri termini, il nodo del problema non era dato in alcun modo dall’idea di unità italiana, ma da come concretamente, di fatto il progetto unitario prese corpo ed andò realizzandosi. Non contro l’unità, ma contro quella unità Pio IX non cessò di alzare la voce, tanto è vero che lo Stato Pontificio aveva compiuto i primi, ma concreti, passi per la realizzazione di una “Lega doganale” italiana, premessa necessaria ad una cooperazione sempre più stretta tra gli Stati della penisola: “Alla fine di agosto [1847 n.d.r.] cominciarono per iniziativa di Pio IX trattative per una lega doganale, che portarono il 3 novembre alla firma di un accordo preliminare tra i governi di Roma, Firenze e Torino” (19).
Chi si scandalizza per la coerenza di un papa che antepone le ragioni della religione e della libertà della Chiesa all’ideale unitario così come fu perseguito nutre la curiosa pretesa che gli altri (pontefici compresi) non possano permettersi di agire secondo criteri di giudizio e scale di valori differenti dai propri.
Secondo un cattolico, comunque, ben difficilmente il conseguimento di un pur rilevante risultato politico può essere anteposto ai diritti della religione e della Chiesa. Infatti, “La nazione è il corpo storico che si organizza attorno a un retaggio spirituale e culturale, etnico e famigliare, nonché territoriale e patrimoniale, cioè attorno a una tradizione, ed è certamente un bene. L’unità politica può essere a sua volta elemento preminente di protezione della nazione e quindi della tradizione, ed è allora permessa dalla Provvidenza come configurarsi della libera volontà umana nel tempo e nello spazio, e indirettamente favorita attraverso la santità dei suoi capi e dei suoi membri; ma non è incondizionatamente un bene né incondizionatamente necessaria, e, pur potendo essere un bene, non è tale da poter essere perseguita contro la tradizione e i valori spirituali e civili che la nazione veicola e di cui la nazione vive” (20).3) I protagonisti
Qualcuno potrebbe ancora dubitare sulla reale influenza che le “nuove idee” e la concezione annessionistica e di stampo ideologico dell’unità d’Italia ebbero sull’evolversi degli accadimenti. Si potrebbe ancora pensare che, in fin dei conti, l’ideale unitario era così giusto ed opportuno che molti, anche di idee e visioni differenti, quando non opposte, lo sostennero e lo fecero proprio, senza che quindi si possa attribuire al movimento risorgimentale una uniformità di impostazione ideologica che non ebbe.
In tali obiezioni vi è del vero: le posizioni dei “risorgimentali” erano variegate, talvolta confliggenti, così come l’indole delle persone, la loro personalità e il loro modo di affrontare gli eventi.
Vi sono però alcune fondamentali affinità tra questi pur differenti personaggi: perseguirono, al di sopra delle divergenze di vedute che li separava, il disegno della unificazione italiana in senso statalista, la scomparsa del potere temporale dei pontefici romani, la laicizzazione e secolarizzazione dell’Italia (cioè la riduzione della dimensione religiosa alla sfera soggettiva delle persone), quando non la completa emancipazione delle popolazioni italiane da ogni influenza di carattere religioso. Seppero, in breve, accantonare ciò che li divideva per combattere per una superiore causa comune.
Come scrive Denis Mack Smith, “Ad un estremo vi era il metodo ortodosso della guerra aperta e dell’azione diplomatica; all’estremo opposto quello della cospirazione, del banditismo e dell’assassinio. Oltre ai monarchici conservatori vi erano anarchici professionisti, agitatori repubblicani, contadini affamati, militari e studenti scontenti, tutti con fini e metodi d’azione diversi, ma che contribuirono tutti, spesso senza averne l’intenzione, ad attuare l’unità d’Italia” (21).
E’ stato d’altra parte osservato che la Rivoluzione italiana aveva bisogno di contrapporre all’oscurantismo della Chiesa e delle plebi rurali fanatizzate da questa un’ala estremista e massimalista, rappresentata da Garibaldi l’avventuriero e da Mazzini l’ideologo, per poter proporre l’ala moderata di Cavour quale sintesi ideale ed equilibratrice. L’attivismo volontaristico garibaldino, per quanto non assimilabile al “moderatismo” borghese del governo piemontese, risultò perfettamente funzionale al successo di questo. E’ in questo senso che Gramsci afferma che “storicamente il Partito d’Azione [cioè l’ala estrema del Risorgimento n.d.r.] fu guidato dai moderati: cioè storicamente l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di “avere in tasca” il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto “indirettamente” da Cavour e dal Re” (22).
Si deve d’altra parte osservare che in ogni Rivoluzione la ripartizione di ruoli tra “moderati” ed “estremisti” costituisce un fattore fondamentale di successo, grazie anche al coinvolgimento di un maggior numero di indecisi o di apatici reso possibile dalla funzione catalizzatrice e rassicurante tipica dell’ala moderata.
Si può parlare, semmai, di differente temperamento, levatura e sensibilità politica, ma si deve riconoscere che tra i principali protagonisti della Rivoluzione nazionale non vi fu mai vera contrapposizione in vista degli scopi ultimi unanimemente perseguiti.
Possiamo averne qualche conferma eloquente riflettendo sui brevi “flash” che seguono.
a) Giuseppe Garibaldi
E’ il mitico “eroe dei due mondi”, personaggio da epopea che viene proposto alla venerazione degli italiani da oltre un secolo. Forse però pochi conoscono le sue idee sulla Chiesa e sul papato, mentre sono molti coloro che si scandalizzano per l’atteggiamento di chiusura dimostrato da Pio IX di fronte alla prospettiva della vittoria di eroi di tal fatta.
Per Garibaldi Roma è la “capitale della più odiosa delle sette” (23), il papato è il “cancro d’Italia” (24), il prete è “la più nociva di tutte le creature” (25)nonché “immoralità, menzogna, ingiustizia, tradimento: sì, tradimento, giacché col suo tramare cogli stranieri contro la libertà e l’indipendenza dell’Italia, egli nato su questa terra la tradisce scelleratamente” (26).
Questo galantuomo, inoltre, aveva un’idea perlomeno curiosa della libertà, che pure costituì per lui l’idolo astratto, la parola-chiave che, benché priva di contenuti concreti, rappresentò la méta della sua azione politica. Già, ma quale libertà e per quale popolo? Nel 1848, anno che determina una svolta nella strategia rivoluzionaria, mentre a Roma si è instaurata la Repubblica Romana ed il papa è costretto in esilio a Gaeta, Garibaldi cerca di sollevare le popolazioni settentrionali per allargare il fronte della ribellione, ma il popolo non è con lui. “Mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte […] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma” (27). Oltre all’indifferenza, il Nostro incontra ostilità: “Ho veduto i preti stessi, col crocifisso alla mano, condurre contro di noi i nemici del mio paese […] presto noi sentimmo gli effetti della reazione rinascente in tutte le provincie italiane” (28).
Combattere per la libertà del popolo nonostante e contro il popolo fu una sua prerogativa anche e soprattutto quando si trattò di reprimere con le maniere forti il malcontento generale presente in meridione all’indomani del 1860. Ma, ci chiediamo nuovamente, quale libertà? Garibaldi “Credeva sinceramente in quella ch’egli chiamava libertà, eppure era convinto ch’essa potesse e dovesse essere imposta al popolo per il suo stesso bene. […] La dittatura fu così la forma naturale di governo ch’egli scelse nel 1860 per l’Italia meridionale” (29).
L’odio per la Chiesa cattolica si accompagnava ad una confusa religiosità laica di derivazione massonica: “Solo chi, come lui, […] era animato da profondi e disinteressati sentimenti religiosi si rivelò in grado di portare avanti il discorso sull’Unità europea e su quella mondiale. Unità mondiale senza ipoteche cattoliche, protestanti o musulmane, ma sintesi di tutti i valori […]” (30). Come ci conferma un autorevole studioso (nonché simpatizzante) della Massoneria “iniziazione massonica e lunga frequentazione del mondo liberomuratorio ebbero parte eminente per sostanziare la religiosità di Garibaldi […]” (31).
Ma quale religiosità? Per Garibaldi, il vero dio era l’unità d’Italia contro la Chiesa. Per questo idolo era disposto a qualunque sacrificio, anche ad allearsi con l’odiata monarchia sabauda, perché “Se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue fila” (32).
Quest’uomo, additato ad esempio di grandezza d’animo ed abnegazione, morì come era vissuto. Nel suo testamento, a proposito della eventualità di ricevere i conforti religiosi nel momento estremo della propria vita, scrive: “[…] trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare” (33).
b) Giuseppe Mazzini
Altra divinità laica dell’epopea risorgimentale è Giuseppe Mazzini, il “Mosè dell’unità” (secondo la grottesca definizione di Francesco De Sanctis), l’ideologo del Risorgimento, l’Apostolo dell’unità.
Anche Mazzini, più di Garibaldi, viene sovente dipinto come uomo di profonda religiosità. In realtà “Per strappare il popolo alla Chiesa cattolica, al papato, Mazzini non esita a proclamare una nuova religione […]” (34). Di che si tratta? Non è questa la sede per approfondire le discutibili fantasticherie del Nostro; basti qualche accenno. Secondo Mazzini “Dio sarebbe il vero sovrano ed il popolo il vero interprete della legge divina: il suffragio universale sarebbe il rito secondo il quale il popolo, buono ed infallibile perché ispirato da Dio, affiderebbe la direzione nazionale ai migliori per senno e virtù. Mazzini, in fondo, sostituiva al diritto divino dei re il diritto divino del popolo” (35).
La divinizzazione del popolo (quello astratto, naturalmente, non quello che si ostinava a mostrarsi fedele alla Chiesa ed al papa) reca con sé l’odio al papato. Solo così si giustificano le “eleganti” espressioni che l’ideologo del Risorgimento riserva al Capo della Chiesa. “A Dio, non a voi i popoli chiedono coraggio per combattere, fede per soffrire e morire sorridendo. A voi non resta che guaire indecorosamente, mendicare per vivere, e maledire impotente… Scendete dunque da un trono sul quale voi non siete più Papa […] Morite – tristissima fra le morti – maledicendo […] Voi sapete d’essere in Roma, quando baionette straniere non ricingano il vostro conclave, l’ultimo Papa […] Guardatevi attorno. A chi parlate? Dov’è oggimai la fede nella vostra parola?” (36). L’abbattimento del papato, secondo Mazzini, costituisce inoltre la premessa necessaria a conferire all’Italia quella dimensione europea (o, meglio, nord europea) che il papato stesso non rendeva possibile, secondo il giro mentale di cui abbiamo già parlato: “Ora il papato starà finché non lo rovesci dal seggio ov’ei dorme l’Italia rinata. In Italia sta dunque il nodo della quistione europea. All’Italia spetta l’alto ufficio di bandire solenne e compiuta l’emancipazione. E l’Italia adempirà l’ufficio che le affida la civiltà. Allora i popoli accorreranno securi a rannodarsi intorno ad un altro principio. Allora il mezzogiorno d’Europa sarà posto in equilibrio col Nord. L’Italia ridesta entrerà nella famiglia europea.” (37).
L’afflato “religioso” di Mazzini non si fermò alle parola, ma si tradusse in una fitta rete di trame più o meno clandestine che non rifuggivano da qualsiasi mezzo pur di purificare l’Italia dall’odiosa presenza del papa: “[…] Specie dopo la sconfitta della rivoluzione nazionale nel 1848-49, Mazzini cercò di attuare un rilancio della sua azione assumendo come base il nascente associazionismo operaio e contemporaneamente cercando di creare reti clandestine di professionisti dell’insurrezione, pronti ad usare anche metodi terroristici […]” (38).
c) Camillo Benso conte di Cavour
Protagonista indiscusso del Risorgimento italiano, il Cavour si differenzia sensibilmente dai personaggi tratteggiati poco sopra, non solo per il fatto di essere assai meno “pittoresco” e “leggendario”, ma soprattutto per la differente caratura politica e culturale nonché per la posizione filo-monarchica e “moderata”.
A dire il vero, come abbiamo già sottolineato, l’azione politica del Cavour non sarebbe forse stata possibile (e comunque non con tanto successo) se non avesse potuto contare sull’aiuto diretto ed indiretto che ricevette dagli estremisti del cosiddetto “Partito d’Azione”: diretto, nel senso che Garibaldi ne sostenne la politica in varie circostanze, accantonando le pur marcate differenze di idee, indiretto, nel senso che, proprio grazie alla presenza di un massimalismo risorgimentalista fanatico, Cavour poté più facilmente portare al successo la propria politica apparentemente equilibratrice e moderatrice.
Di fatto, però, se l’unità italiana fu fatta nonostante la Chiesa e contro la Chiesa (per scelta ideologica e non per necessità ineludibile) fu proprio grazie all’opera spregiudicata di Cavour, il quale riuscì, con i guanti bianchi, a compiere ciò che Garibaldi, con il fucile, non seppe e non poté fare.
Differenti stili, dunque, per differenti personaggi. Ma, fondamentalmente, il medesimo risultato perseguito.
E d’altra parte, che fra i due personaggi non vi fossero, dal punto di vista dei cattolici italiani, sostanziali differenze quanto alla battaglia che entrambi combattevano ce lo dice chiaramente un credibile testimone di quegli anni di scontro: don Margotti, direttore del giornale cattolico torinese l’Armonia. Constatata l’impossibilità per i cattolici di partecipare alle competizioni elettorali nel neonato Regno d’Italia, a causa dei palesi brogli che annullavano i voti conseguiti da candidati non graditi al regime, egli conia la nota espressione “né eletti né elettori” e motiva questa scelta scrivendo: “[…] La lotta elettorale verte oggi tra Camillo Cavour e Giuseppe Garibaldi, tra coloro che combattono il Papa con le ipocrisie e coloro che vogliono combatterlo apertamente con l’empietà e la demagogia. E noi diciamo: né l’uno né l’altro; sono tutti d’una stessa buccia. E ci asterremo” (39).
Come dargli torto? Con Cavour primo ministro, cioè a partire dal 1852, il Piemonte inizia la fase della persecuzione legislativa della religione. Si susseguono provvedimenti repressivi di vario genere, che rendono di fatto illegale la presenza cattolica nella società e nella politica. In fin dei conti, “libera Chiesa in libero Stato” significa che la Chiesa può muoversi liberamente come qualsiasi altra associazione di cittadini all’interno dello Stato, purché non pretenda di influire in nessun modo sull’andamento delle vicende politico-sociali.
Cavour attua la rivoluzione italiana nelle aule parlamentari, nelle sedi diplomatiche, nelle conferenze internazionali più che con gli scontri campali. Il Parlamento, opportunamente depurato con mezzi di ogni tipo dalla sgradevole presenza di deputati cattolici che avrebbero potuto ostacolare i disegni della classe dirigente piemontese, è la sua arma preferita: “Non ho fiducia alcuna nelle dittature, specialmente nelle dittature civili. Sono convinto che con un Parlamento si possano fare molte cose che sarebbero impossibili con il potere assoluto …e non mi sento mai così debole come quando la Camera è chiusa” (40).
Di una tale arma si dimostrò magistrale utilizzatore, così come non disdegnò il ricorso alla mai tramontata pratica della “mazzetta”: per ottenerne la conquista senza inasprire ulteriormente la situazione, “Cavour aveva inviato segretamente delle somme considerevoli a Roma nella speranza di riuscire a corrompere le autorità ecclesiastiche” (41).
Dove non poté il denaro, poté la persecuzione, come avremo modo di vedere a grandi linee nel prossimo capitolo. Dopo aver avviato la stagione della persecuzione legislativa in Piemonte, l’illustre statista la impose a tutti i territori che venivano annessi al nuovo regno italiano, dal momento che egli “aveva dovuto tener conto del fanatismo giacobino dei partiti di sinistra, e si era visto obbligato sotto la loro pressione ad estendere immediatamente alle province annesse le principali disposizioni della politica ecclesiastica piemontese, senza tener conto neppure dei concordati esistenti, e a prendere inoltre misure di rigore contro vescovi, preti e religiosi che tentavano di opporre qualche resistenza” (42).
Valido uomo di governo, statista di rango, Cavour spese la sua carriera costruendo progetti politici incompatibili con le esigenze di libertà e di indipendenza della Chiesa ed osteggiandone la missione evangelizzatrice. Si racconta che un giorno don Bosco – il più amato dei tanti “santi sociali” che in quegli anni, mentre i patrioti perseguitavano la Chiesa in nome del popolo, erano gli unici ad occuparsi dei reali bisogni di un popolo sempre più immiserito – trovandosi a pranzo con esponenti politici governativi ed ascoltati i brindisi in onore del re, di Cavour e di Garibaldi, alzasse il bicchiere ed esclamasse: “Viva Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, sotto la bandiera del Papa, affinché possano salvarsi l’anima” (43). Ingenuità e grandezza dei santi!
d) Altri protagonisti
Abbiamo menzionato tre autentici “campioni” del Risorgimento italiano, ma non sarebbe corretto trascurare il ruolo determinante che altri ebbero per la peculiare caratterizzazione ideologica di quegli avvenimenti. Meritano almeno una menzione “d’onore” l’Inghilterra e la Massoneria.
Mentre la retorica patriottarda giunta sino a noi enfatizza lo slancio eroico di quegli Italiani che sacrificarono ogni cosa per l’unità della Patria e l’indipendenza dallo straniero, la realtà storica ci insegna che il Risorgimento fu reso possibile dall’intervento straniero, spesso e volentieri con le armi puntate contro soldati italiani. Le celebrate vittorie nella decisiva seconda guerra d’indipendenza sono attribuibili all’esercito francese (quello piemontese non raccolse figure molto brillanti), così come la gloriosa ed audace spedizione dei Mille ebbe successo grazie ai cospicui finanziamenti erogati dal governo inglese ed utilizzati per pagare i volontari e corrompere i generali borbonici (44).
L’Inghilterra giocò effettivamente un ruolo di primo piano nelle vicende italiane, sia sotto il profilo dell’appoggio diplomatico e politico, che sotto l’aspetto economico. La grande potenza inglese desiderava creare nell’area mediterranea uno Stato amico, fondato sui medesimi presupposti ideologici, alleggerito dalla presenza del papato e da un cattolicesimo troppo invadente.
In questa prospettiva assai poco altruistica, l’Inghilterra diviene paladina della indipendenza italiana proprio negli anni in cui aggrava la propria politica oppressiva in India ed Irlanda. Figure di primo piano della politica britannica verso l’Italia sono lord Palmerston e lord Russell: “Riguardo al papato l’avversione di entrambi era decisa e senza discussione […] In Palmerston essa era alimentata dal suo anticlericalismo e dalla sua indifferenza per le questioni religiose […]” (45), mentre Russell “era convinto che il Papa si avvalesse del suo primato religioso per contrastare l’unità italiana, costituendone così il più formidabile ostacolo. Per di più il Papa gli sembrava in Italia solo un “anacronismo”. […] Il Risorgimento era da lui seguito con viva partecipazione anche emozionale, e ciò spiega la sua simpatia per Garibaldi” (46).
Lord Gladstone non esita a tracciare un quadro apocalittico della situazione del mezzogiorno borbonico abbandonandosi a “[…] Fantasie traboccanti d’indignazione puritana” al servizio degli “[…] Interessi della Gran Bretagna nel Mediterraneo” (47). E’ in ossequio a tali interessi, assai più che alla verità storica, che Gladstone scrive, il 17 luglio 1851, la celebre lettera a lord Aberdeen, nella quale addita il regno dei Borboni come il concentrato di ogni infamia e aberrazione: “Il governo borbonico rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l’assoluta persecuzione delle virtù congiunta all’intelligenza, fatta in guisa da colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura, come udii più volte ripetere; la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo” (48).
Il Risorgimento italiano diviene per l’Inghilterra un importante terreno di scontro politico contro la Chiesa e per la diffusione dei princìpi del relativismo agnostico liberale, in sintonia con la propria politica estera. Palmerston “Aveva una sua articolata visione geopolitica centrata sulla distruzione degli Stati cattolici o di quelli, come la Russia ortodossa, che resistevano comunque all’egemonia inglese e al dilagare della potente finanza internazionale; o come il piccolo Regno di Napoli, reo di essersi talora ribellato alle pretese coloniali inglesi sulle miniere di zolfo in Sicilia e di non praticare la politica mediterranea verso la Russia gradita al governo di Sua Maestà britannica” (49).
Nel Congresso di Parigi del febbraio 1856, Cavour portò all’attenzione delle potenze europee l’importanza della causa nazionale italiana, svolgendo una durissima requisitoria contro i malgoverni pontificio e borbonico e chiedendo l’aiuto europeo per il progredito Piemonte. In questa circostanza, l’intervento più duro contro lo Stato Pontificio ed a sostegno del Cavour fu quello del rappresentante inglese, lord Clarendon, che definì il governo romano “come il peggiore che sia mai esistito” (50).
Si trattava, naturalmente, di una bugia propagandistica. Tre mesi dopo il Congresso di Parigi, l’ambasciatore francese a Roma scrisse un memoriale diretto al proprio governo in cui confutava le accuse di malgoverno rivolte a Roma da Cavour e Clarendon. “Qui l’illustre diplomatico afferma che la presenza dei preti nell’amministrazione è soltanto di poco più di duecento e non di tremila, come si grida nelle piazze: due province sono governate da laici e le popolazioni preferiscono gli ecclesiastici. Nella revisione dei codici era stato preso come modello il Codice Napoleonico. Le finanze, ridotte ad un disastro nei mesi del triumvirato [della Repubblica Romana, n.d.r.], sono state risanate. Il romano paga di tasse soltanto ventidue franchi all’anno, mentre il francese quarantacinque. Si elencano poi le innumerevoli opere pubbliche, strade, ponti, viadotti, introduzione del telegrafo, illuminazione a gas, favori all’agricoltura” (51). Cavour non perderà tempo ad attaccare l’ambasciatore Rayneval come traditore della Francia ed ottenerne poi la sostituzione con un diplomatico più vicino alle proprie idee.
Dopo aver fatto cenno al ruolo del governo inglese, si tratta ora di svolgere qualche riflessione sulla Massoneria. In effetti, il ruolo svolto dalla Massoneria nelle vicende risorgimentali appare di primaria importanza anche a coloro che non credono al teorema del “complotto massonico” e non sono disposti a vedere l’ombra di un oscuro cospiratore dietro ogni avvenimento.
Non si può dubitare che la Massoneria agisca a sostegno del movimento unitario in funzione anticlericale e che parte cospicua dei protagonisti della storia risorgimentale sono, con maggiore o minore forza, riconducibili alla principale società segreta dei tempi moderni. Questo ruolo emerge con chiarezza nella fase successiva all’avvenuta unificazione politica nazionale, mentre nella fase preparatoria l’azione sovversiva vede tra i propri protagonisti un’altra società segreta, la Carboneria, che per alcuni aspetti appare l’antesignana della nascente Massoneria italiana moderna.
“La massoneria contemporanea è nata a Torino come Gran Loggia Ausonia tra le benedizioni del “fratello in spirito” Camillo Benso, conte di Cavour […]. A battezzarla con l’antico nome dell’Italia – con “augusta soddisfazione del fratello Vittorio Emanuele II” – è stato Livio Zambeccari, cospiratore del primo Risorgimento, colonnello garibaldino e “principe di Rosacroce” del Rito scozzese sin dagli anni dell’esilio a Londra. Era l’8 ottobre del 1859″ (52).
Qual’è lo scopo immediato della Massoneria italiana ottocentesca? Raccogliere l’eredità cospiratoria ed insurrezionale della Carboneria e costituire, con la propria ramificata presenza sul territorio italiano, il collante unitario in antitesi alla comune tradizione religiosa delle popolazioni della penisola: “In una Italia ove l’unica tradizione comune e popolare era allora rappresentata dalla Chiesa cattolica e nel cui ambito, in quella specifica situazione storica, ogni forma di conflittualità politica si presentava in costume regionale, con movenze e cadenze che testimoniavano la profonda diversificazione della penisola, le Logge divennero l’unica vera scuola di unità nazionale” (53). Si trattava di scalzare il sentimento religioso dalla coscienza comune e cercare di far convergere gli entusiasmi civili sul progetto unitario centralista. L’operazione non era facile: occorreva trovare un momento superiore di sintesi tra le variegate posizioni carbonare, repubblicane, monarchiche, federaliste, centraliste, moderate e anticlericali che il Risorgimento esprimeva.
Di fatto, l’operazione riuscì e, almeno parzialmente, l’influenza della Massoneria, anche nell’accentuazione dei caratteri antireligiosi che il Risorgimento presenta, è indiscutibile. Come già abbiamo visto parlando dei protagonisti dell’epopea risorgimentale, la battaglia unitaria di stampo filosofico-ideologico fu condotta con sostanziale concordanza di intenti da personaggi pur profondamente diversi tra di loro e certamente non assimilabili. Evidentemente, il richiamo alla suprema causa unitaria e il comune riferimento all’ideologia massonica resero possibile il superamento di ogni divergenza ideale ed operativa.
La lotta contro la Chiesa funse, dunque, da elemento di coesione delle principali componenti rivoluzionarie e mentre il Carducci scriveva il suo atroce e blasfemo Inno a Satana, il Primo Massone d’Italia, Giuseppe Garibaldi, declamava, con l’Inno romano, il proprio programma d’azione:Giù le mitre, vergogna del mondo,giù le tiare, nel fango calpeste;dello schiavo lasciate la veste,della daga affilate l’acciar.Marceremo, scenderemogiù dai colli alla vendetta!dei chercuti, orrenda setta,
Roma nostra a liberar! (54)
Non ci si può onestamente meravigliare se, di fronte a questi programmi, Pio IX non esitò a manifestare la propria opposizione e condanna. Già nella prima enciclica, il Papa mise in guardia i cattolici da coloro che “impugnano la divina autorità e le leggi della Chiesa, per conculcare insieme i diritti della potestà civile e di quella sacra. A questo mirano inique macchinazioni contro questa Romana Cattedra del Beatissimo Pietro, nella quale Cristo pose l’inespugnabile fondamento della sua Chiesa. A questo mirano altresì quelle sette segrete che occultamente sorsero dalle tenebre per corrompere gli ordini civili e religiosi, e che dai Romani Pontefici Nostri Predecessori più volte furono condannate con lettere apostoliche che Noi, con la pienezza della Nostra Autorità Apostolica, confermiamo e ordiniamo che siano diligentissimamente osservate” (55).
Mentre lo scontro tra opposte concezioni dell’uomo, prima che del futuro assetto istituzionale italiano, si andava radicalizzando, Pio IX intervenne a condanna della Massoneria (direttamente o tramite la Curia e la segreteria di Stato) con 79 documenti diversi. Non a caso il più organico e completo degli oltre 500 interventi di condanna della Massoneria è la lettera enciclica Humanum genus, pubblicata da Leone XIII nel 1884, cioè pochissimi anni dopo la morte di Pio IX, a testimonianza della particolare rilevanza e persistenza che la questione massonica aveva in quegli anni.4) E il popolo?
Abbiamo già avuto modo di osservare come il popolo, in nome del quale si è levata la bandiera della “liberazione” dall’oppressione straniera e clericale, non possa in realtà essere annoverato tra i protagonisti del Risorgimento, se non nel senso che ne fu avversario. Quanta retorica sulle genti italiche pronte a sacrificare la vita per il sommo ideale unitario, sulle masse patriottiche osannanti il nuovo Regno, sui plebisciti che ne sancirono la legittimità democratica!
La realtà è drasticamente diversa: chi non ricorda il celeberrimo “Abbiamo fatto l’Italia, adesso dobbiamo fare gli italiani” con cui Massimo D’Azeglio ammetteva che l’Italia appena fatta era solo un’espressione geografica ottenuta dalla conquista diplomatico-militare piemontese e che il popolo era rimasto estraneo a questa operazione?
I dati di fatto sono inconfutabili: lo storico gramsciano Candeloro ammette che “[…] le grandi masse del popolo italiano [rimasero] senza dubbio estranee alla vita pubblica del nuovo Stato unitario” (56), mentre Mack Smith osserva che “[…] l’unificazione venne raggiunta con metodi che non pochi Italiani detestavano” (57) e che “le guerre e le sollevazioni del Risorgimento avevano scarse ripercussioni sulla gran massa della popolazione” (58), tanto che “se avesse prevalso la volontà del popolo, forse non vi sarebbe stato Risorgimento” (59).
“Non solo popolo estraneo, popolo inerme ed apatico, ma popolo oppositore: è stato osservato che le popolazioni rurali italiane, cioè la stragrande maggioranza degli italiani, “non nutrivano un genuino amore per l’Unità d’Italia e che probabilmente non si resero conto di quel che il termine significasse finché non penetrò nelle loro case sotto forma di prezzi e imposte maggiori e di coscrizione obbligatoria. La loro tendenza naturale era quella di resistere a qualsiasi esercito invasore che sopraggiungesse a requisire le loro scarse provviste alimentari, ed in politica costituivano pertanto una forza controrivoluzionaria. Nel 1848 i contadini lombardi avevano aperto le chiuse per frenare l’avanzata dei Piemontesi. Nel 1849, come nel 1799, avevano combattuto sia nel Nord che nel Sud a favore delle vecchie dinastie […]. Il patriota Pisacane era stato ucciso nel 1857 da quegli stessi contadini che aveva voluto liberare, da quelle stesse masnade rustiche che non di rado ostacolarono Garibaldi […]” (60).
L’ostilità popolare non nasce da grettezza e povertà di vedute, ma dalla consapevolezza, o anche solo dalla percezione, dell’estraneità del progetto ideologico e politico della Rivoluzione italiana alle genuine tradizioni popolari ed ai valori comuni della religione che il popolo aveva da sempre vissuto prima ancora che condiviso.
D’altra parte è ormai acquisito che il Risorgimento è stato fenomeno elitario e fortemente minoritario, condotto dalle forze liberali con il determinante appoggio straniero. Per costoro il popolo letteralmente non esisteva o, nella peggiore delle ipotesi, era un intralcio di cui liberarsi senza troppe formalità, come la storia di quegli anni dimostra in modo eloquentissimo, dall’aggressione militare del Regno delle Due Sicilie alle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris del 1898, a Milano.
Tutto ciò è ulteriormente confermato dal fatto che la Camera dei deputati, che Cavour riteneva il cuore della Rivoluzione italiana, rappresentava una ridicola percentuale di italiani. Il suffragio era infatti esclusivamente maschile e su base rigidamente censitaria. Nel 1848 Garibaldi fu eletto nel Parlamento Subalpino grazie a diciotto voti; nel 1857 Cavour fu eletto con circa trecento voti; nel 1861 nelle elezioni per il primo Parlamento unitario avevano diritto di voto circa 420 mila elettori su oltre 22 milioni di abitanti: per di più votarono circa 240 mila elettori, ma i voti validi furono solo 170 mila. Aveva ragione Massimo d’Azeglio a dire “Queste Camere rappresentano l’Italia così come io rappresento il Gran Sultano turco!” (61).
Come se non bastasse, nelle menzionate elezioni piemontesi del 1857, dalle quali scaturì il Parlamento che portò a compimento la nascita del Regno d’Italia, la consistente affermazione dei cattolici fu vanificata da una serie di pretestuosi annullamenti delle votazioni nei collegi che avevano fatto segnare un risultato non “in linea” con gli auspici dei “piemontesi”: “[…]Cavour vide che il gruppo dei deputati clericali poteva essere assottigliato mediante l’invalidazione di parecchie elezioni. Questo fu fatto nei primi mesi del ’58: furono annullate alcune elezioni di canonici […] ed altre avvenute in collegi dove molto aperto era stato l’intervento propagandistico del clero” (62). Questa clamorosa operazione di estromissione dei deputati cattolici contribuì ad indurre i medesimi cattolici all’astensionismo in occasione della successiva tornata elettorale del 1861, affrontata con lo slogan “né elettori né eletti” coniato dal battagliero don Giacomo Margotti.
Nonostante la spregiudicata gestione degli esiti elettorali non graditi, la retorica democraticista era ben presente alle classi dirigenti piemontesi, come testimoniano i continui inattendibili plebisciti con i quali il tanto declamato popolo era chiamato ad approvare le annessioni dei vari Stati italiani al Piemonte. Le percentuali dei “sì” erano davvero “bulgare”, forse perché si votava senza cabina deponendo la scheda in urne differenziate per i “sì” ed i “no” davanti allo sguardo poco rassicurante dei “liberatori”.
Non si può non accennare infine, a proposito della partecipazione popolare al Risorgimento, alla corale opposizione che le truppe di occupazione incontrarono nel Meridione d’Italia e che fu all’origine del sanguinoso episodio del cosiddetto “brigantaggio”.
Il fatto che il governo piemontese avesse ormai deciso che era tempo di procedere con ogni mezzo a portare a compimento il progetto annessionistico contemplava necessariamente l’annientamento delle altre dinastie italiane e la repressione di ogni forma di opposizione. Poco importava che tale opposizione giungesse proprio da quel popolo per rispondere al cui (inesistente) “grido di dolore” Vittorio Emanuele II non poté fare a meno di aggredire militarmente le Due Sicilie.
Da tale disegno di conquista derivò la più grave, devastante e sanguinosa guerra civile di tutto il periodo risorgimentale. E’ paradossale che l’evento-cardine del processo di unificazione nazionale sia stato reso possibile da una carneficina fratricida che pose di fronte una classe politica abituata a parlare francese e ad ottenere aiuti di ogni genere dalla potente Inghilterra e una intera popolazione italianissima guidata da una dinastia altrettanto italiana. E’ quanto annota amaramente Socci quando scrive che “[…] Il re di Savoia che ha regalato alla Francia delle terre italiane (e per tragica ironia perfino la città dell’eroe italiano per antonomasia) si sente poi in dovere di liberare delle regioni da principi più italiani di lui, e recare il suo aiuto fraterno dove nessuno l’aveva mai chiamato. Sono le amene curiosità del Risorgimento…” (63).
Il popolo non vuole essere liberato? Tanto peggio per il popolo. Durante il periodo della guerriglia legittimistica “Vi furon battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, senza null’altro che un sospetto vago, uomini, donne, vecchi, bambini persino […] Secondo la stampa estera, dal gennaio all’ottobre del 1861, si contavano nell’ex Regno delle Due Sicilie 9860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1428 comuni sorti in armi” (64). Mack Smith, osservatore non tacciabile di antirisorgimentalismo, scrive chiaramente che “La crudeltà di una guerra del genere non conosce limiti. Quando i Piemontesi entrarono in territorio napoletano nell’ottobre 1860, una delle prime azioni del generale Cialdini fu di far fucilare sul posto ogni contadino che fosse trovato in possesso di armi; era una spietata dichiarazione di guerra contro gente che non aveva nessun altro mezzo di difesa e ottenne i risultati che erano da aspettarsi” (65).
La retorica “patriottica” ha molto insistito sulla necessità di modernizzare l’Italia e di porre fine al governo borbonico, reazionario, incivile ed arretrato per antonomasia. La verità, anche questa volta, è ben diversa: “Desta sorpresa constatare che il primo battello italiano a vapore, il primo ponte in ferro e la prima ferrovia fecero la loro apparizione non in Piemonte, ma a Napoli grazie ai “reazionari” Borboni […]” (66) ed infatti “Il Regno delle Due Sicilie godeva di una delle monete più solide d’Europa, aveva la terza flotta mercantile del continente, l’emigrazione vi era sconosciuta, il debito pubblico inesistente; la sua industria era all’avanguardia con un fatturato dieci volte superiore a quello piemontese, vi era il primo bacino di carenaggio d’Europa e la prima ferrovia d’Italia, il numero di addetti all’industria e di medici era il doppio di quello piemontese, con il doppio della moneta esistente in tutto il resto della penisola. Tutto questo fu presentato dalla propaganda liberale come il peggiore dei mondi possibili” (67).
La civilizzazione di queste terre “selvagge” arrivò a colpi di rastrellamenti tanto che fu impiegata nel meridione d’Italia circa la metà di tutte le forze militari disponibili: un impiego di risorse belliche davvero curioso per andare a liberare dal giogo borbonico popolazioni ansiose di divenire finalmente suddite dell’illuminato Piemonte.
Di fronte a questo ennesimo capitolo della Rivoluzione italiana, Pio IX, nella allocuzione al concistoro del 30 settembre 1861, pronunciò parole di sdegno e di condanna: “Non è poi che non vegga quale luttuosa serie di calamità, di delitti e di rovine sia ridondata specialmente alla povera Italia, da questo vasto incendio. Perocché, per usare la parola del profeta, “la maledizione e la menzogna, l’omicidio e il furto e l’adulterio hanno straripato e il sangue incalza il sangue” (Osea, 4,2). Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del Regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppur dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi… Queste cose si fanno da coloro che non arrossiscono di asserire con estrema impudenza… voler essi restituire il senso morale all’Italia” (68).
Il furore repressivo delle truppe di occupazione fu implacabile, tanto da provocare eccessi e crudeltà anche in coloro che si difendevano dall’invasione. Il risultato dell’eroica impresa fu che “il numero di coloro che perirono nel corso di questa lotta fu superiore a quello dei caduti di tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme” (69): una autentica tragedia, costosissima sotto il profilo della perdita di vite umane non meno che sotto quello culturale, sociale ed economico. Ebbe inizio la sistematica spoliazione delle risorse del Sud, si generò il drammatico fenomeno dell’emigrazione e i costi della guerra civile aggravarono notevolmente le già precarie finanze piemontesi, provocando tra l’altro l’inasprimento della pressione fiscale.
A questo proposito merita una menzione il capolavoro di politica fiscale del governo unitario: dopo aver riservato al proprio monopolio il sale e il tabacco, il fisco pensò di raccogliere soldi per tamponare in qualche modo i disastrosi conti pubblici istituendo la famigerata “tassa sul macinato“, in virtù della quale per ogni quintale di grano o di mais portato a macinare si doveva corrispondere l’imposta. In una società semplice e rurale, la tassa sul pane (uno dei pochi generi di prima necessità che il contadino non produceva da sé), istituita nel 1868, scatenò il furore popolare. “Nelle campagne dell’Emilia e delle Romagne, al grido “Abbasso il macinato”, si accompagnarono quelli di “viva l’Austria” e di “viva il papa-re”” (70).
E’ ancora serio riproporre la leggenda di un Pio IX ultimo residuato di una società d’altri tempi, incapace di capire l’evolversi delle idee, estraneo ai genuini sentimenti della gente?
NOTE9 “Nel cercare la possibilità della Rivoluzione, Marx trova il proletariato“, così scrive il militante comunista Arthur Rosenberg, nella sua Storia del Bolscevismo, Sansoni, Firenze 1969, p.3.10 Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, II ed. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 15.11 Così scrive Giacomo Martina, anch’egli gesuita anche se di fama liberal, nell’opera, da lui curata con integrazioni per l’edizione italiana, di Roger Aubert, Il pontificato di Pio IX, tomo I, S.A.I.E., Torino 1976, p.355.12 Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 56.13 Manlio Brunetti, Pio IX: giudizio storico-teologico, ed. Opera Pia Mastai Ferretti, Senigallia 1992, p.15.14 Pio IX, Lettera enciclica Qui pluribus, del 9-11-1846. In Ugo Bellocchi (a cura di) Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740. Vol. IV: Pio IX (1846-1878), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, p.14.15 Joseph Lortz, op. cit., p. 422.16 “[…] gli eserciti napoleonici portarono con sé i germi del liberalismo sparsi dalla Rivoluzione francese del 1789 […]” Così scrive Denis Mack Smith, Storia d’Italia. Dal 1861 al 1958, Laterza, Bari 1959, p. 20.17 Vittorio Messori, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 191.18 Nicolò Rodolico, Storia degli italiani, Sansoni, Firenze 1964, p. 910.19 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. III, Feltrinelli, Milano 1979, p.60.20 Giovanni Cantoni, op. cit., p. 11.21 Denis Mack Smith, op. cit., p. 25.22 Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 66.23 Giuseppe Garibaldi, Memorie, Rizzoli, Milano 1982, p. 50.24 Cit. in Pietro Balan, Storia d’Italia, Paolo Toschi, Modena 1898, vol. X, p. 428.25 Giuseppe Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III, Cappelli, Bologna 1937, p. 334.26 Cit. in Letterio Briguglio, Garibaldi e il socialismo, SugarCo, Milano 1982, p. 186.27 Giuseppe Garibaldi, Memorie, cit., p. 178.28 Ibid., p. 179.29 Denis Mack Smith, op. cit., p.32.30 Letterio Briguglio, cit., p. 76.31 Aldo A. Mola, Storia della Massoneria italiana, Bompiani, Milano 1994, p. 845.32 Giuseppe Garibaldi, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri inediti, Voghera, Roma 1907, p. 664.33 Ibid., Scritti e discorsi politici e militari, cit., vol III, p. 316.34 Massimo Guidetti e P.P. Poggio, Il Risorgimento e l’unificazione italiana, in Storia d’Italia e d’Europa, Jaca Book, Milano 1982, vol. VI, p.248.35 Gaetano Mosca, Storia delle dottrine politiche, Laterza, Bari 1974, p.239.36 Cit. in Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica, Mondadori, Milano 1994, pp. 30-31.37 Cit. in Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., vol. II, p. 223.38 Massimo Guidetti e P.P. Poggio, cit., p.251.39 Cit. in Antonio Socci, La società dell’allegria, SugarCo, Milano 1989, p. 164.40 Cit. in Denis Mack Smith, op. cit., p.43.41 Ibid., p. 146.42 Roger Aubert, op. cit., p. 159.43 Cit. in don Luigi Chiavarino, Don Bosco che ride, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p.177.44 Cfr. Giulio Di Vita, Finanziamento della spedizione dei Mille, in AA.VV., La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria, a cura di Aldo A. Mola, Atti del Convegno organizzato dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, Bastogi, Foggia 1990, pp. 379 e segg.45 Massimo de Leonardis, L’Inghilterra e la Questione Romana, Vita e Pensiero, Milano 1980, p.38.46 Ibid., pp. 38-39.47 Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, Milano 1994, p.8.48 Cit. in ibidem.49 Antonio Socci, op. cit., p. 99.50 Roger Aubert, op. cit., p. 139.51 Mons. Alberto Mons. Polverari, Vita di Pio IX. II. Dall’esilio di Gaeta al Regno d’Italia , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1987, p.208.52 Enrico Nassi, La Massoneria in Italia, Newton Compton, Roma 1994, p. 14.53 Aldo A. Mola, op. cit., p. 61.54 Cit. in Ibid., p. 78.55 Pio IX, lettera enciclica Qui Pluribus del 9-11-1846, in Ugo Bellocchi op. cit. , p.17.56 Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 140.57 Denis Mack Smith, op. cit., p. 16.58 Ibid., p. 26.59 Ibid., p. 60.60 Ibid., pp. 66-67.61 Cit. in Vittorio Messori, op. cit., p. 404.62 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna (1849-1860) vol. IV, Feltrinelli, Milano 1980, p. 275.63 Antonio Socci, op. cit., p.151.64 Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, Milano 1994, p. 133.65 Denis Mack Smith, op. cit., p. 119.66 Ibidem, p. 40.67 Rino Cammilleri, Ufficiale e sacerdote, cit., pp. 10-11.68 Cit. in Carlo Alianello, op. cit., p.134.69 Denis Mack Smith, op. cit., pp. 123-124.70 Niccolò Rodolico, Storia degli Italiani, Sansoni, Firenze 1964, p. 913.
fonte
http://www.totustuustools.net/altrastoria/PIOIX2.html