Victor-Maie Hugo, padre del romanzo moderno, venerato come un patriarca
Il francese Victor-Marie Hugo fu il poeta dei rivoluzionari, dei “miserabili”, degli uomini che lottarono sulle barricate. Per generazioni e generazioni, gli umili hanno letto ed amato il profeta del riscatto degli oppressi, trascinatore di cuori, paladino della giustizia e della libertà, considerandolo un poco il loro alfiere, colui che teneva in alto la loro bandiera.
Ciò che maggiormente commuove in Victor-Marie Hugo è la fede profonda nel popolo che anima le pagine, anche laddove il romanziere descrive gli episodi più selvaggi o foschi di una rivolta. L’autore de “I miserabili”, uno dei libri più letti al mondo, un’opera d’arte assoluta, rivela una dimensione segreta, una vera e proprio “golosità” in “Victor Hugo raconté par un témoin de sa vie” di Adèle Hugo, l’adorata moglie “dagli occhi neri”, che era stata un folgorante amore per Victor-Marie,l’affascinante amica d’infanzia sposata nel 1823, a soli ventuno anni, che precipitò lo scrittore nell’angoscia quando intrecciò una relazione con il famoso critico Sainte-Beuve, amico di famiglia.
L’opera apparve anonima, in due volumi, nel 1863, a Bruxelles. A lungo, però, gli studiosi ignorarono che quel testo non era l’originale di Adèle, con la minuziosa annotazione delle conversazioni del marito. Un discepolo di Hugo, Auguste Vacquerie, l’aveva accuratamente rivisto cancellando e modificando episodi ed espressioni che potessero nuocere all’immagine aulica del Vate. Un gruppo universitario ha, di recente, ricomposto il manoscritto, da cui dovrebbero emergere un Hugo intimo, uomo e non mito, e una donna , Adèle, vera divinità tutelatrice che imponeva il ritmo ai tre figli (Léopoldine, Charles e François-Victor) e che vegliava a che il silenzio mattinale venisse rispettato, onde permettere a Victor-Marie di comporre in pace, scrivendo per lo più in piedi. spostandosi, qua e là, nella vasta sala-studio.
In “Victor Hugo raconté par un témoin de sa vie” Joseph Léopold Hugo, il padre del poeta, va in Italia, chiamato da Joseph Bonaparte, incaricato dal suo illustre fratello di conquistare il regno di Napoli. Il Bonaparte confida nella sua fedeltà, nel suo talento di condottiero e nella sua esperienza di “pacificatore” acquisita in Bretannia. Per l’Hugo è l’occasione tanto attesa di azioni strepitose. Egli entra effettivamente nella Storia legando il suo nome alla cattura del più ardito dei cosiddetti “banditi” di Terra di Lavoro, “Fra’ Diavolo”. Banditi: diremmo forse oggi patrioti resistenti di questi uomini sollevatisi contro l’occupazione francese. I soldati dell’Impero, però, galvanizzati dall’ideale della conquista napoleonica, pur ammettendo il coraggio dei loro avversari, non vedevano nella loro lotta che i soprassalti di un vecchio mondo agonizzante, convinti di essere gli attori non di una guerra ma di una epopea.
Bilancio di questa vittoria: il maggiore Hugo diviene colonnello, con la responsabilità della provincia di Avellino. L’avvenire è assicurato e sorridente e la situazione sufficientemente stabile per pensare di far venire presso di lui i suoi figli che non aveva rivisti da più di due anni. La separazione gli appariva tuttavia ormai definitiva. Fu Sophia, che, alla fine del 1807, prese bruscamente, senza avvertirne il marito, la decisione di raggiungerlo: privata dell’appoggio di Lahorie braccato, malato ed invisibile, preoccupata di far beneficiare i suoi figli della felice posizione del loro genitore e temendo forse il divorzio, si decise alla partenza, lei che non amava i viaggi, per l’Italia, lei che non amava che la verzura dei giardini.
Viaggio sinistro, freddo, contrassegnato dalla pioggia, di cui Victor, che ha cinque anni, serberà dei ricordi rari, ma profondamente inscritti nella sua memoria: l’alleanza del buffo e del grande (si mangia aquila), la scoperta che lo stesso segno, sconosciuto, della croce disegna il patibolo e la superstizione. Alcune immagini sparse: un fantastico palazzo di marmo tutto screpolato, la miseria senza scarpe, il mare.
Furono quattro mesi di giochi al sole del Mezzogiorno d’Italia, interrotti dalla decisione materna di rientrare a Parigi, una volta provata l’impossibilità di ogni vita coniugale.
Per quanto concerne la conquista del reame delle Due Sicilie da parte dei francesi,Victor-Marie Hugo non fa parte di quelli che pensano che il fine giustifica i mezzi. Egli vede nella conquista del Sud d’Italia, realizzata con mezzi barbari, non una gloria nazionale, ma una macchia sull’idea che si ha della Francia. Per lui, la colonizzazione armata non è legittima e la civilizzazione non può passare per la sottomissione. Victor-Marie aveva un’ossessione: la libertà, il rispetto della persona umana, oltre alle folgorazioni premonitrici di un padre dell’Europa, un demiurgo che perorava il suffragio universale, il voto delle donne e l’unità monetaria europea. “Un giorno – sosteneva il visionario d’Europa – verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, posti in faccia l’uno all’altro, tendendosi la mano sopra i mari, scambiando i loro prodotti, il loro commercio, la loro industria, le loro arti, i loro geni…” Grandioso nel pensiero come nelle parole, Victor-Marie Hugo aveva 47 anni e un buon secolo di anticipo quando pronunciò questa profezia. Non ci si deve meravigliare perché l’Ottocento fu il secolo di Hugo, come c’era stato il secolo di Voltaire. Lo scrittore di Besançon aveva incarnato il suo tempo e gli aveva dato, per così dire, il suo marchio.
Alfredo Saccoccio