Vinti e vincitori di Nicola Zitara
Il Sud non possiede giornali a grande diffusione, per cui, quelle volte che un sudico tenterebbe di esternare le sue ragioni circa il non sopito conflitto con il Centronord, è costretto a chiedere ospitalità all’avversario, o forse meglio, al nemico. La richiesta, a volte, è esaudita, a volte no. Nel caso affermativo, però, l’ospitalità è immancabilmente pelosa. E la cosa si spiega. Infatti le grosse testate milanesi, torinesi e romane sono finanziate dal grande capitale padano, il quale si è organizzato sulla base del mercato unico nazionale, con il Sud in funzione di sbocco coloniale. Conseguentemente il sistema padronale, che si autodefinisce anche nazionale, assembla i più ferventi patrioti e i più credibili fautori dell’Italia unita – unita sempre come fu unificata alle origini, con il Sud in funzione di colonia interna.
Attualmente “Forza Italia” amalgama e integra la declamata spinta al profitto, che promana dal sistema toscopadano, e la declamata spinta al servilismo meridionale (Schifani, Signorile, etc.,), funzionale al sistema padano. Non stranamente, le formazioni politiche antiberlusconiste vogliono l’identica cosa, però senza declamazioni; in modo soft, modello fregami piano – quello in cui Enrico Cuccia e Gianni Agnelli furono maestri e che è stato, ed è espresso euristicamente dal quotidiano “la Repubblica” e nelle esternazioni del precedente e dell’attuale rappresentante della nazione una e indivisibile.
Veniamo al fatto, che ha due code, e ai protagonisti, che sono quattro. Quel lercio culo di gallina di Giorgio Bocca ha pubblicato un libro in cui denuncia il crollo in Italia della morale pubblica, ed ha spiegato il (per lui sorprendente) fenomeno con l’assunzione a livello padano della morale pubblica meridionale.
Chi scrive questa nota non ha letto il libro di Culo di Gallina, né intende farlo, per non regalare danari al maleodorante autore e all’ambigua casa editrice che lo ha pubblicato.
Con Culo di Gallina, i conti del Sud sono aperti da molti decenni. Ma con una merda, che il padrone strapaga affinché ammorbi l’aria, come gli untori facevano con i pozzi, una persona dabbene non sa come regolarsi. Chi è d’indole sbrigativa, potrebbe pensare: adesso gli faccio dare una lezione. Sta di fatto, però, che la mafia è passata al pieno servizio delle banche, dei costruttori e della distribuzione padana, e non è quindi utilizzabile a prezzi accessibili, mentre il tempo dei bravi aggregati per il solo rancio, di manzoniana memoria, è ampiamente trascorso. Potrebbe provare con l’onorevole Loiero, che appare agile e aggressivo, ma forse, essendo egli un tipo politicamente floreale, finirebbe col buscarle nel corpo a corpo con un partigiano d’antico pelo.
Questo non letto libro di Culo di Gallina è stato recensito da uno stronzobossista a nome Aldo Cazzullo, la cui prosa è superfluo riassumere, in quanto nota e parlamentarizzata nella massima sede costituzionale e istituzionale italiana da ministri e lecchini al seguito.
Non avendo un proprio mezzo di stampa a diffusione nazionale su cui dare una risposta al recensore, Carmine De Marco si è rivolto, con una lettera, al milanese “il Giornale”, che fu dell’acclamato e per fortuna defunto Rigoletto, Indro Montalenelli, e che oggi è di proprietà di un familiare del cummenda Berlusca (i prodigi della moralissima Milano!).
In termini alquanto miti, De Marco dice: rifacciamo i conti del dare e dell’avere (proprio quelli economici) tra Sud e Nord. Soltanto se facciamo questi conti sarà possibile arrivare finalmente all’unità d’Italia.
Risponde il direttore del Giornale: “Caro amico, i conti sono già stati fatti, la mano è stata vinta e il piatto è stato già incassato”. Seguono parole di consolazione per la vedova e i figli del defunto Sud, tipo sappiamo tutti chi era Cavour, e anche come è stato fatto il cosiddetto Risorgimento, etc. etc.
Carmine De Marco è il più acuto fra i critici dell’evento unitario. Peccato che la sua tesi di ricontrattare l’unità italiana con i toscopadani sia una favola senza alcun fondamento nella storia dei vinti.
Noi non siamo Italiani (questo il bluff giacobino, massonico, mazziniano e cavourrista!), ma Italici, i soli titolari della radice Italoi. In 38 secoli di storia civile della vera Italia, l’unità con il Centronord non è mai esistita. Neppure Napoleone ebbe l’ardire di proporla. Questo ardire, come De Marco insegna, l’ebbero i Rothschild e gli altri creditori dell’indebitato Regno di Sardegna. Dopo la vittoria di Napoleone III in Lombardia, i proprietari, i baroni e gli avvocati del Sud si dettero a Garibaldi e ai Savoia (al Sud il cosiddetto Risorgimento – che per noi fu solo una beffa – è tutto qui). Non così il popolo. Una guerra di resistenza, durata più di dieci anni, e un numero di morti e di deportati nei campi piemontesi di sterminio vicino o forse maggiore della cifra 200.000, lo testimonia.
La pax italiana esiste già e tutti sappiamo di cosa si tratta. Se non è sufficiente la ragione a capirlo, c’è la storia a insegnarlo. Abbiamo dato tutto quello che avevamo all’Italia cavourrista, i soldi e l’onore, e l’Italia non ci ha lasciato nemmeno gli occhi per piangere, come ammonì Francesco II lasciando per sempre Napoli. Ma certo non le abbiamo insegnato a rubare e a irridere ogni morale. Di ciò era già maestra, come ben sapevano gli altri popoli d’Europa. L’Italia toscopadana è un bordello sin da prima che Dante nascesse. Il cinismo politico che ispira i nostri omologhi del Centronord è codificato ne Il principe di Machiavelli.
Il patriottismo italico è vero solo quando, e in quanto, s’impegna a ridare l’indipendenza e la conseguente libertà al più antico fra i popoli d’Occidente.