Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (parte settima)

Posted by on Ago 8, 2017

Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (parte settima)

Uscito il primo libro col titolo De uno universi iuris principio et fine uno l’istesso anno 1720, dalle stampe pur di Felice Mosca in quarto foglio, nel quale pruova la prima e la seconda parte della dissertazione, giunsero all’orecchio dell’auttore obbiezioni fatte a voce da sconosciuti ed altre da alcuno fatte pure privatamente, delle quali niuna convelleva il sistema, ma intorno a leggieri particolari cose, e la maggior parte in conseguenza delle vecchie oppinioni contro le quali si era meditato il sistema.

A’ quali opponitori, per non sembrare il Vico che esso s’infingesse i nemici per poi ferirgli, risponde senza nominargli nel libro che diede appresso: De constantia iurisprudentis, accioché così sconosciuti, se mai avessero in mano l’opera, tutti soli e secreti intendessero esser loro stato risposto. Uscì poi dalle medesime stampe del Mosca, pur in quarto foglio, l’anno appresso 1721, l’altro volume col titolo: De constantia iurisprudentis, nella quale più a minuto si pruova la terza parte della dissertazione, la quale in questo libro si divide in due parti, una De constantia philosophiae, altra De constantia philologiae; e in questa seconda parte dispiacendo a taluni un capitolo così concepito: Nova scientia tentatur, donde s’incomincia la filologia a ridurre a princìpi di scienza, e ritruovando infatti che la promessa fatta dal Vico nella terza parte della dissertazione non era punto vana non solo per la parte della filosofia, ma, quel che era più, né meno per quella della filologia, anzi di più che sopra tal sistema vi si facevano molte ed importanti scoverte di cose tutte nuove e tutte lontane dall’oppinione di tutti i dotti di tutti i tempi, non udì l’opera altra accusa: che ella non s’intendeva. Ma attestarono al mondo che ella s’intendesse benissimo uomini dottissimi della città, i quali l’approvarono pubblicamente e la lodarono con gravità e con efficacia, i cui elogi si leggono nell’opera medesima.

Tra queste cose una lettera dal signor Giovan Clerico fu scritta all’auttore del tenore che siegue:

 

«Accepi, vir clarissime, ante perpaucos dies ab ephoro illustrissimi comitis Wildenstein opus tuum de origine iuris et philologia, quod, cum essem Ultraiecti, vix leviter evolvere potui. Coactus enim negotiis quibusdam Amstelodamum redire, non satis mihi fuit temporis ut tam limpido fonte me proluere possem. Festinante tamen oculo vidi multa et egregia, tum philosophica tum etiam philologica, quae mihi occasionem praebebunt ostendendi nostris septentrionalibus eruditis acumen atque eruditionem non minus apud italos inveniri quam apud ipsos; imo vero doctiora et acutiora dici ab italis quam quae a frigidiorum orarum incolis expectari queant. Cras vero Ultraiectum rediturus sum, ut illic perpaucas hebdomadas morer utque me opere tuo satiem in illo secessu, in quo minus quam Amstelodami interpellor. Cum mentem tuam probe adsequutus fuero, tum vero in voluminis XVIII “Bibliotecae antiquae et hodiernae” parte altera ostendam quanti sit faciendum. Vale, vir clarissime, meque inter egregiae tuae eruditionis iustos aestimatores numerato. Dabam, festinanti manu, Amstelodami, ad diem VIII septembris MDCCXXII

 

Quanto questa lettera rallegrò i valenti uomini che avevano giudicato a pro dell’opera del Vico, altrettanto dispiacque a coloro che ne avevano sentito il contrario. Quindi si lusingavano che questo era un privato complimento del Clerico, ma, quando egli ne darebbe il giudizio pubblico nella Biblioteca, allora ne giudicherebbe conforme a essoloro pareva di giustizia; dicendo esser impossibile che con l’occasione di quest’opera del Vico volesse il Clerico cantare la palinodia di quello che egli, presso a cinquant’anni, ha sempre detto: che in Italia non si lavoravano opere le quali per ingegno e per dottrina potessero stare a petto di quelle che uscivano da oltramonti. E ‘l Vico frattanto, per appruovare al mondo che esso amava sì la stima degli uomini eccellenti, ma non già la faceva fine e mèta de’ suoi travagli, lesse tutti e due i poemi d’Omero con l’aspetto de’ suoi princìpi di filologia, e, per certi canoni mitologici che ne aveva concepiti, li fa vedere in altra comparsa di quello con la quale sono stati finora osservati, e divinamente esser tessuti sopra due subbietti due gruppi di greche istorie dei tempi oscuro ed eroico secondo la division di Varrone. Le quali lezioni omeriche, insieme con essi canoni, diede fuori pur dalle stampe del Mosca in quarto foglio l’anno seguente 1722, con questo titolo: Iohannis Baptistae Vici Notae in duos libros, alterum De universi iuris principio, alterum De constantia iurisprudentis.

Poco dipoi vacò la cattedra primaria mattutina di leggi, minor della vespertina, con salario di scudi seicento l’anno; e ‘l Vico, destato in isperanza di conseguirla da questi meriti che si sono narrati particolarmente in materia di giurisprudenza, li quali egli si aveva perciò apparecchiati inverso la sua università, nella quale esso è il più anziano di tutti per ragione di possesso di cattedre, perché esso solo possiede la sua per intestazione di Carlo secondo, e tutti gli altri le possiedono per intestazioni più fresche; ed affidato nella vita che aveva menato nella sua patria, dove con le sue opere d’ingegno aveva onorato tutti, giovato a molti e nociuto a nessuno; il giorno avanti, come egli è uso, aperto il Digesto vecchio, sopra del quale dovevan sortire quella volta le leggi, egli ebbe in sorte queste tre: una sotto il titolo De rei vindicatione, un’altra sotto il titolo De peculio, e la terza fu la legge prima sotto il titolo De praescriptis verbis. E perché tutti e tre erano testi abbondanti, il Vico, per mostrare a monsignor Vidania, prefetto degli studi, una pronta facoltà di fare quel saggio, quantunque giammai avesse professato giurisprudenza, il priegò che avessegli fatto l’onore di determinargli l’un de’ tre luoghi ove a capo le ventiquattro ore doveva fare la lezione. Ma il prefetto scusandosene, esso si elesse l’ultima legge, dicendo il perché quella era di Papiniano, giureconsulto sopra tutt’altri di altissimi sensi, ed era in materia di diffinizioni di nomi di leggi, che è la più difficile impresa da ben condursi in giurisprudenza; prevedendo che sarebbe stato audace ignorante colui che l’avesse avuto a calonniare perché si avesse eletto tal legge, perché tanto sarebbe stato quanto riprenderlo perché egli si avesse eletto materia cotanto difficile; talché Cuiacio, ove egli diffinisce nomi di legge, s’insuperbisce con merito e dice che vengan tutti ad impararlo da lui, come fa ne’ Paratitli de’ Digesti (De codicillis), e non per altro ei riputa Papiniano principe de’ giureconsulti romani che perché niuno meglio di lui diffinisca e niuno ne abbia portato in maggior copia migliori diffinizioni in giurisprudenza.

Avevano i competitori poste in quattro cose loro speranze, nelle quali come scogli il Vico dovesse rompere. Tutti, menati dalla interna stima che ne avevano, credevan certamente che egli avesse a fare una magnifica e lunga prefazion de’ suoi meriti inverso l’università. Pochi, i quali intendevano ciò che egli arebbe potuto, auguravano che egli ragionerebbe sul testo per gli suoi Princìpi del dritto universale, onde con fremito dell’udienza arebbe rotte le leggi stabilite di concorrere in giurisprudenza. Gli più, che stimano solamente maestri della facoltà coloro che l’insegnano a’ giovani, si lusingavano o che, ella essendo una legge dove Ottomano aveva detto di molta erudizione, egli con Ottomano vi facesse tutta la sua comparsa, o che, su questa legge avendo Fabbro attaccato tutti i primi lumi degl’interpetri e non essendovi stato alcuno appresso che avesse al Fabbro risposto, il Vico arebbe empiuta la lezione di Fabbro e non l’arebbe attaccato. Ma la lezione del Vico riuscì tutta fuori della loro aspettazione, perché egli vi entrò con una brieve, grave e toccante invocazione; recitò immediatamente il principio della legge, sul quale e non negli altri suoi paragrafi restrinse la sua lezione; e, dopo ridotta in somma e partita, immediatamente in una maniera quanto nuova ad udirsi in sì fatti saggi cotanto usata da’ romani giureconsulti, che da per tutto risuonano: «Ait lex», «Ait senatusconsultum», «Ait praetor», con somigliante formola «Ait iurisconsultus» interpetrò le parole della legge una per una partitamente, per ovviare a quell’accusa che spesse volte in tai concorsi si ode, che egli avesse punto dal testo divagato, perché sarebbe stato affatto ignorante maligno alcuno che avesse voluto scemarne il pregio perché egli l’avesse potuto fare sopra un principio di titolo, perché non sono già le leggi ne’ Pandetti disposte con alcun metodo scolastico d’instituzioni, e, come egli fu in quel principio allogato Papiniano, poteva ben altro giureconsulto allogarsi, che con altre parole ed altri sentimenti avesse data la diffinizione dell’azione che ivi si tratta. Indi dalla interpretazione delle parole tragge il sentimento della diffinizione papinianea, l’illustra con Cuiacio, indi la fa vedere conforme a quella degl’interpetri greci. Immediatamente appresso si fa incontro al Fabbro, e dimostra con quanto leggiere o cavillose o vane ragioni egli riprende Accursio, indi Paolo di Castro, poi gl’interpetri oltramontani antichi, appresso Andrea Alciato; ed avendo dinanzi, nell’ordine de’ ripresi da Fabbro, preposto Ottomano a Cuiacio, nel seguirlo si dimenticò di Ottomano e, dopo Alciato, prese Cuiacio a difendere; di che avvertito, trappose queste parole: «Sed memoria lapsus Cuiacium Othmano praeverti; at mox, Cuiacio absoluto, Hotmanum a Fabro vindicabimus». Tanto egli aveva poste speranze di fare con Ottomano il concorso! Finalmente, sul punto che veniva alla difesa di Ottomano, l’ora della lezione finì.

Egli la pensò fino alle cinque ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo strepito de’ suoi figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o scrivere o meditare. Ridusse la lezione in sommi capi, che si chiudevano in una pagina, e la porse con tanta facilità come se non altro avesse professato tutta la vita, con tanta copia di dire che altri v’arebbe aringato due ore, col fior fiore dell’eleganze legali della giurisprudenza più colta e co’ termini dell’arte anche greci, ed ove ne abbisognava alcuno scolastico, più tosto il disse greco che barbaro. Una sol volta, per la difficoltà della voce proghegramménon, egli si fermò alquanto; ma poi soggiunse: «Ne miremini me substitisse, ipsa enim verbi antitupía me remorata est»; tanto che parve a molti fatto a bella posta quel momentaneo sbalordimento, perché con un’altra voce greca sì propia ed elegante esso si fosse rimesso. Poi il giorno appresso la stese quale l’aveva recitata e ne diede essemplari, fra gli altri, al signor don Domenico Caravita, avvocato primario di questi suppremi tribunali, degnissimo figliuolo del signor don Nicolò, il quale non vi poté intervenire.

Stimò soltanto il Vico portare a questa pretensione i suoi meriti e ‘l saggio della lezione, per lo cui universal applauso era stato posto in isperanza di certamente conseguire la cattedra; quando egli, fatto accorto dell’infelice evento, qual in fatti riuscì anche in persona di coloro che erano immediatamente per tal cattedra graduati, perché non sembrasse delicato o superbo di non andar attorno, di non priegare e fare gli altri doveri onesti de’ pretensori, col consiglio ed auttorità di esso signor don Domenico Caravita, sapiente uomo e benvoglientissimo suo, che gli appruovò che a esso conveniva tirarsene, con grandezza di animo andò a professare che si ritraeva dal pretenderla.

Questa dissavventura del Vico, per la quale disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria, fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico, il quale, come se avesse udite le accuse fatte da taluni alla di lui opera, così nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all’articolo VIII, con queste parole, puntualmente dal francese tradotte, per coloro che dicevano non intendersi, giudica generalmente: che l’opera è «ripiena di materie recondite, di considerazioni assai varie, scritta in istile molto serrato»; che infiniti luoghi avrebbono bisogno di ben lunghi estratti; è ordita con «metodo mattematico», che «da pochi princìpi tragge infinità di conseguenze»; che bisogna leggersi con attenzione, senza interrompimento, da capo a piedi, ed avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile; così, col meditarvi sopra, i leggitori «vi truoveranno di più, col maggiormente innoltrarsi, molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa». Per quello onde fe’ tanto romore la terza parte della dissertazione, per quanto riguarda la filosofia dice così: «Tutto ciò che altre volte è stato detto de’ princìpi della divina ed umana erudizione, che si truova uniforme a quanto è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessità vero». Per quanto riguarda alla filologia, egli così ne giudica: «Egli ci dà in accorcio le principali epoche dopo il diluvio infino al tempo che Annibale portò la guerra in Italia; perché egli discorre in tutto il corpo del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori vulgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto badato». E finalmente conchiude per tutti: «Vi si vede una mescolanza perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche, poiché il signor Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate, come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in ciò. Tra queste tre scienze vi ha un sì forte ligame che non può uom vantarsi di averne penetrata e conosciuta una in tutta la sua distesa senza averne altresì grandissima cognizione dell’altre. Quindi è che alla fine del volume vi si veggono gli elogi che i savi italiani han dato a quest’opera, per cui si può comprendere che riguardano l’auttore come intendentissimo della metafisica, della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno d’importanti discoverte».

Ma non altronde si può intendere apertamente che ‘l Vico è nato per la gloria della patria e in conseguenza dell’Italia, perché quivi nato e non in Marocco esso riuscì letterato, che da questo colpo di avversa fortuna, onde altri arebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. Come in effetto ne aveva già lavorata una divisa in due libri, ch’arebbono occupato due giusti volumi in quarto: nel primo de’ quali andava a ritrovare i princìpi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanità delle nazioni, per via d’inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi più immaginato che raggionato; in conseguenza del quale, nel secondo, egli spiegava la generazione de’ costumi umani con una certa cronologia raggionata di tempi oscuro e favoloso de’ greci, da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo delle antichità gentilesche. E già l’opera era stata riveduta dal signor don Giulio Torno, dottissimo teologo della chiesa napoletana, quando esso – riflettendo che tal maniera negativa di dimostrare quanto fa di strepito nella fantasia tanto è insuave all’intendimento, poiché con essa nulla più si spiega la mente umana; ed altronde per un colpo di avversa fortuna, essendo stato messo in una necessità di non poterla dare alle stampe, e perché pur troppo obbligato dal propio punto di darla fuori, ritrovandosi aver promesso di pubblicarla – ristrinse tutto il suo spirito in un’aspra meditazione per ritrovarne un metodo positivo, e sì più stretto e quindi più ancora efficace.

 

Giovambattista Vico: “Opere” a cura di Paolo Rossi

fonte

classicitaliani.it

 

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