Alta Terra di Lavoro

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Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (parte decima prima)

Posted by on Ott 15, 2017

Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (parte decima prima)

Circa questi tempi il signor conte Gianartico di Porcìa, fratello del signor cardinale Leandro di Porcìa, chiaro uomo e per letteratura e per nobiltà, avendo disegnato una via da indirizzarvi con più sicurezza la gioventù nel corso degli studi, sulla vita letteraria di uomini celebri in erudizione e dottrina;

egli tra’ napoletani che ne stimò degni, ch’erano al numero di otto (i quali non si nominano per non offender altri trallasciati dottissimi, i quali forse non erano venuti alla di lui cognizione), degnò d’annoverare il Vico, e con orrevolissima lettera scrittagli da Vinegia, tenendo la via di Roma per lo signor abate Giuseppe Luigi Esperti, mandò al signor Lorenzo Ciccarelli l’incombenza di proccurarlagli. Il Vico, tra per la sua modestia e per la sua fortuna, più volte niegò di volerla scrivere; ma alle replicate gentil’istanze del signor Ciccarelli finalmente vi si dispose. E, come si vede, scrissela da filosofo; imperocché meditò nelle cagioni così naturali come morali e nell’occasioni della fortuna; meditò nelle sue, ch’ebbe fin da fanciullo, o inclinazioni o avversioni più ad altre spezie di studi ch’ad altre; meditò nell’opportunitadi o nelle travversie onde fece o ritardò i suoi progressi; meditò, finalmente, in certi suoi sforzi di alcuni suoi sensi diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni sulle quali lavorò l’ultima sua opera della Scienza nuova, la qual appruovasse tale e non altra aver dovuto essere la sua vita letteraria.

Frattanto la Scienza nuova si era già fatta celebre per l’Italia, e particolarmente in Venezia, il cui signor residente in Napoli di quel tempo avevasi ritirato tutti gli esemplari ch’erano rimasti a Felice Mosca, che l’aveva stampata, con ingiognergli che quanti ne potesse più avere, tutti gli portasse da essolui, per le molte richieste che ne aveva da quella città, laonde in tre anni era divenuta sì rada che un libretto di dodici fogli in dodicesimo fu comperato da molti due scudi e ancor di vantaggio; quando finalmente il Vico riseppe che nella posta, la qual non solea frequentare, erano lettere a lui indiritte. Di queste una fu del padre Carlo Lodoli de’ Minori osservanti, teologo della serenissima repubblica di Venezia, che gli avea scritto in data de’ 15 di gennaio 1728, la qual si era nella posta trattenuta presso a sette ordinari.

Con tal lettera egli lo invitava alla ristampa di cotal libro in Venezia nel seguente tenore:

«Qui in Venezia con indicibil applauso corre per le mani de’ valentuomini il di lei profondissimo libro de’ Princìpi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, e più che ‘l van leggendo, più entrano in ammirazione e stima della vostra mente che l’ha composto. Con le lodi e col discorso andandosi sempre più diffondendo la fama, viene più ricercato, e, non trovandosene per città, se ne fa venire da Napoli qualch’esemplare; ma, riuscendo ciò troppo incomodo per la lontananza, son entrati in deliberazione alcuni di farla ristampar in Venezia. Concorrendo ancor io con tal parere, mi è parso proprio di prenderne innanzi lingua da Vostra Signoria, che è l’autore, prima per sapere se questo le fosse a grado, poi per veder ancora se avesse alcuna cosa da aggiungere o da mutare, e se compiacer si volesse benignamente comunicarmelo.»

Avvalorò il padre cotal sua richiesta con altra acclusa alla sua del signor abate Antonio Conti nobile veneto, gran metafisico e mattematico, ricco di riposta erudizione e per gli viaggi letterari salito in alta stima di letteratura appo il Newton, il Leibnizio ed altri primi dotti della nostra età, e per la sua tragedia del Cesarefamoso nell’Italia, nella Francia, nell’Inghilterra. Il quale, con cortesia eguale a cotanta nobiltà, dottrina ed erudizione, in data degli 3 di gennaio 1728 così gli scrisse:

«Non poteva Vostra Signoria illustrissima ritrovare un corrispondente più versato in ogni genere di studi e più autorevole co’ librari di quel che sia il reverendissimo padre Lodoli, che le offre di far stampare il libro dei Princìpi di una Scienza nuova. Son io stato un de’ primi a leggerlo, a gustarlo e a farlo gustare agli amici miei, i quali concordemente convengono che dell’italiana favella non abbiamo un libro che contenga più cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali della spezie loro. Io ne ho mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere a’ francesi che molto può aggiungersi o molto correggersi sull’idee della cronologia e mitologia, non meno che della morale e della iurisprudenza, sulla quale hanno tanto studiato. Gl’inglesi saranno obligati a confessare lo stesso quando vedranno il libro; ma bisogna renderlo più universale con la stampa e con la comodità del carattere. Vostra Signoria illustrissima è a tempo di aggiungervi tutto quello stima più a proposito, sia per accrescere l’erudizione e la dottrina, sia per isviluppare certe idee compendiosamente accennate. Io consiglierei a mettere alla testa del libro una prefazione ch’esponesse i vari princìpi delle varie materie che tratta e ‘l sistema armonico che da essi risulta, sino ad estendersi alle cose future, che tutte dipendono dalle leggi di quell’istoria eterna, della qual è così sublime e così feconda l’idea che ne ha assegnata.»

L’altra lettera, che giaceva pur alla posta, era del signor conte Gian Artico di Porcìa da noi sopra lodato, che da’ 14 dicembre 1727 li aveva così scritto:

«Mi assicura il padre Lodoli (che col signor abate Conti riverisce Vostra Signoria e l’un l’altro l’accertano della stima ben grande che fanno della di lei virtù) che ritroverà chi stampi la di lei ammirabile opera de’ Princìpi della Scienza nuova. Se Vostra Signoria volesse aggiungervi qualche cosa, è in pienissima libertà di farlo. Insomma Vostra Signoria ha ora un campo di poter dilatarsi in tal libro, in cui gli uomini scienziati affermano di capire da esso molto più di quello si vede espresso e ‘l considerano come capo d’opera. Io me ne congratulo con Vostra Signoria, e l’assicuro che ne ho un piacer infinito, vedendo che finalmente produzioni di spirito del nerbo e del fondo di che sono le sue vengon a qualche ora conosciute, e che ad esse non manca fortuna quando non mancano leggitori di discernimento e di mente.»

A’ gentil inviti ed autorevoli conforti di tali e tanti uomini si credette obbligato di acconsentir a cotal ristampa e di scrivervi l’annotazioni ed aggiunte. E dentro il tempo stesso che giugnessero in Venezia le prime risposte del Vico, perché, per la cagion sopra detta, avevano di troppo tardato, il signor abate Antonio Conti, per una particolar affezione inverso del Vico e le sue cose, l’onorò di quest’altra lettera in data de’ 10 marzo 1728.

«Scrissi due mesi fa una lettera a Vostra Signoria illustrissima, che le sarà capitata, unita ad un’altra del reverendissimo padre Lodoli. Non avendo veduto alcuna risposta, ardisco d’incomodarla di nuovo, premendomi solamente che Vostra Signoria illustrissima sappia quanto io l’amiro e desidero di profittare de’ lumi che Ella abbondantemente sparse nel suo Principio d’una Nuova Scienza. Appena ritornato di Francia, io lo lessi con sommo piacere, e mi riuscirono le scoperte critiche, istoriche e morali non meno nuove che istruttive. Alcuni vogliono intraprendere la ristampa del medesimo libro ed imprimerlo con carattere più commodo ed in forma più acconcia. Il padre Lodoli aveva questo disegno, e mi disse d’averne a Vostra Signoria illustrissima scritto per suplicarla ad aggiungervi altre disertazioni su la stessa materia o illustrazione de’ capitoli del libro stesso, se per aventura ne avesse fatte. Il signor conte di Porcìa mandò allo stesso padre Lodoli la Vita che Ella di se stessa compose, e contiene varie erudizioni spettanti al progresso del sistema istorico e critico stabilito negli altri suoi libri. Quest’edizione è molto desiderata, e molti francesi, a’ quali ho dato una compendiosa idea del libro istesso, la chiedono con premura.»

Quindi il Vico tanto più si sentì stimolato a scrivere delle note e commenti a quest’opera. E nel tempo che vi travagliava, che durò presso a due anni, prima avvenne che il signor conte di Porcìa, in una occasione la qual non fa qui mestieri narrare, gli scrisse ch’esso voleva stampar un suo Progetto a’ signori letterati d’Italiapiù distinti o per l’opere date alla luce delle stampe o più chiari per rinomea d’erudizione e dottrina, come si è sopra pur detto, di scriver essi le loro Vite letterarie sopra una tal sua idea con la quale se ne promuovesse un altro metodo più accertato e più efficace da profittare nel corso de’ suoi studi la gioventù, e di volervi aggiugnere la sua per saggio, che egli aveva di già mandata, perché, delle molte che già glien’eran pervenute in potere, questa sembravagli come di getto caduta sulla forma del suo disegno. Quindi il Vico, il qual aveva creduto ch’esso la stampasse con le Vite di tutti ed in mandandogliela aveva professato che si recava a sommo onore d’esser l’ultimo di tutti in sì gloriosa raccolta, si diede a tutto potere a scongiurarlo che nol facesse a niun patto del mondo, perché né esso conseguirebbe il suo fine ed il Vico senza sua colpa sarebbe oppresso dall’invidia. Ma, con tutto ciò, essendosi il signor conte fermo in tal suo proponimento, il Vico, oltre di essersene protestato da Roma per una via del signor abate Giuseppe Luigi Esperti, se ne protestò altresì da Venezia per altra di esso padre Lodoli, il qual aveva egli saputo da esso signor conte che vi promoveva la stampa e del di lui Progetto e della Vita di esso Vico; come il padre Calogerà, che l’ha stampato nel primo tomo della sua Raccolta degli opuscoli eruditi, l’ha pubblicato al mondo in una lettera al signor Vallisnieri, che vi tien luogo di prefazione; il quale quanto in ciò ha favorito il Vico, tanto dispiacer gli ha fatto lo stampatore, il quale con tanti errori anco ne’ luoghi sostanziali n’ha strappazzato la stampa. Or nel fine del catalogo delle opere del Vico, che va in piedi di essa Vita, si è con le stampe pubblicato: «Princìpi d’una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che si ristampano con l’Annotazioni dell’autore in Venezia».

Di più, dentro il medesimo tempo avvenne che d’intorno alla Scienza nuova gli fu fatta una vile impostura, la quale sta ricevuta tra le Novelle letterarie degli Atti di Lipsia del mese di agosto dell’anno 1727. La qual tace il titolo del libro, ch’è il principal dovere de’ novellieri letterari (perocché dice solamente «Scienza nuova», né spiega dintorno a qual materia); falsa la forma del libro, che dice esser in ottavo (la qual è in dodicesimo); mentisce l’autore e dice che un lor amico italiano gli accerta che sia un «abate» di casa Vico (il qual è padre e per figliuoli e figliuole ancor avolo); narra che vi tratta un sistema o piuttosto «favole» del diritto naturale (né distingue quel delle genti, che ivi ragiona, da quel de’ filosofi che ragionano i nostri morali teologi, e come se questa fusse la materia della Scienza nuova, quando egli n’è un corollario); ragguaglia dedursi da princìpi altri da quelli da’ quali han soluto finor i filosofi (nello che, non volendo, confessa la verità, perché non sarebbe «scienza nuova» quella dalla quale si deducono tai princìpi); il nota che sia acconcia al gusto della Chiesa catolica romana (come se l’esser fondato sulla provvedenza divina non fusse di tutta la religion cristiana, anzi di ogni religione: nello che ed egli si accusa o epicureo o spinosista, e, ‘n vece d’un’accusa, dà la più bella lode, ch’è quella d’esser pio, all’autore); osserva che molto vi si travaglia ad impugnare le dottrine di Grozio e di Pufendorfio (e tace il Seldeno, che fu il terzo principe di tal dottrina, forse perch’egli era dotto di lingua ebrea); giudica che compiaccia più all’ingegno che alla verità (quivi il Vico fa una digressione, ove tratta degli più profondi princìpi dell’ingegno, del riso e de’ detti acuti ed arguti: che l’ingegno sempre si ravvolge dintorno al vero ed è ‘l padre de’ detti acuti, e che la fantasia debole è la madre dell’argutezze, e pruova che la natura dei derisori sia, più che umana, di bestia); racconta che l’autore manca sotto la lunga mole delle sue congetture (e nello stesso tempo confessa esser lunga la mole delle di lui congetture), e che vi lavora con la sua nuova arte critica sopra gli autori delle nazioni (tralle quali appena dopo un mille anni provenendovi gli scrittori, non può ella usarne l’autorità); finalmente conchiude che da essi italiani più con tedio che con applausi era ricevuta quell’opera (la qual dentro tre anni della sua stampa si era fatta rarissima per l’Italia e, se alcuna se ne ritruovava, comperavasi a carissimo prezzo, come si è sopra narrato; ed un italiano con empia bugia informò i signori letterati protestanti di Lipsia che a tutta la sua nazione dispiaceva un libro che contiene dottrina catolica!). Il Vico con un libricciuolo in dodicesimo, intitolato: Notae in Acta lipsiensia, vi dovette rispondere nel tempo che, per un’ulcera gangrenosa fattagli nella gola (perché in tal tempo n’ebbe la notizia), egli, essendo vecchio di sessant’anni, fu costretto dal signor Domenico Vitolo, dottissimo e costumatissimo medico, d’abbandonarsi al pericoloso rimedio de’ fumi del cinabro, il qual anco a’ giovani, se per disgrazia tocca i nervi, porta l’apoplesia. Per molti e rilevanti riguardi, chiama l’orditore di tale impostura «vagabondo sconosciuto». Penetra nel fondo di tal laida calonnia e pruova lui averla così tramata per cinque fini: il primo per far cosa che dispiacesse all’autore; il secondo per rendere i letterati lipsiensi neghittosi di ricercare un libro vano, falso, catolico, d’un autor sconosciuto; il terzo, se ne venisse lor il talento, col tacere e falsare il titolo, la forma e la condizion dell’autore, difficilmente il potessero ritruovare; il quarto, se pur mai il truovassero, da tante altre circostanze vere la stimassero opera d’altro autore; il quinto per seguitare d’esser creduto buon amico da que’ signori tedeschi. Tratta i signori giornalisti di Lipsia con civiltà, come si dee con un ordine di letterati uomini d’un’intiera famosa nazione, e gli ammonisce che si guardino per l’avvenire di un tal amico, che rovina coloro co’ quali celebra l’amicizia e gli ha messi dentro due pessime circostanze: una, di accusarsi che mettono ne’ loro Atti i rapporti e i giudizi de’ libri senza vedergli; l’altra, di giudicare d’un’opera medesima con giudizi tra loro affatto contrari. Fa una grave esortazione a costui, che, poiché peggio tratta con gli amici che co’ nimici ed è falso infamatore della nazion sua e vil traditore delle nazioni straniere, esca dal mondo degli uomini e vada a vivere tralle fiere ne’ diserti dell’Affrica. Aveva destinato mandare in Lipsia un esemplare con la seguente lettera al signor Burcardo Menckenio, capo di quella assemblea, primo ministro del presente re di Polonia:

«Praeclarissimo eruditorum lipsiensium collegio eiusque praefecto excellentissimo viroBURCARDO MENCKENIO, IOHANNES BAPTISTA VICUS s.d.

 

Satis graviter quidem indolui quod mea infelicitas vos quoque, clarissimi viri, in eam adversam fortunam pertraxisset, ut a vestro simulato amico italo decepti omnia vana, falsa, iniqua de me meoque libro cui titulus Princìpi d’una Scienza nuova dintorno all’umanità delle nazioni, in vestra eruditorum Acta referretis; sed dolorem ea mihi consolatio lenivit quod sua naturae sponte ita res nasceretur ut per vestram ipsorum innocentiam, magnanimitatem et bonam fidem, istius malitiam, invidiam perfidiamque punirem; et hic perexiguus liber, quem ad vos mitto, una opera et illius delicta et poenas et ipsas vestras civiles virtutes earumque laudes complecteretur. Cum itaque has Notas bona magnaque ex parte vestra eruditi nominis caussa evulgaverim, eas nedum nullius offensionis sed multae mihi vobiscum ineundae gratiae occasionem esse daturas spero, tecumque in primis, excellentissime Burcarde Menckeni, qui praestantissimae eruditionis merito in isto praeclarissimo eruditorum collegio principem locum obtines. Bene agite plurimum. Dabam Neapoli, XIV kal. novembris anno MDCCXXIX

Giovambattista Vico:

“Opere” a cura di Paolo Rossi

 

 

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