Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Vita solitaria di Jules Verne di Alfredo Saccoccio

Posted by on Nov 20, 2018

Vita solitaria di Jules Verne di Alfredo Saccoccio

Strano l’attaccamento di taluni uomini per gli oggetti del vestiario. Medardo Rosso era maniaco delle scarpe, Verne delle camicie. Nel 1852 scriveva alla mamma: “Spesso una manica della camicia mi rimane dentro la manica della giacca.

 

 

Cambiare il davanti, tu dici, ma il di dietro chi me lo dà? A una è rimasta la sola parte superiore. Perché onorare ancora col nome di “camicia”ciò che ormai non è più che un colletto?”. Era anche nato “con la camicia” Jules Verne, il che, se egli fosse stato italiano, sarebbe divenuto argomento di innumerevoli freddure. Come altri “grandi”, anche Jules Verne era freddurista temerario.

   La sua nascita avvenne a Nantes, l’8 febbraio 1828, sullo scoccare di mezzodì. Nulla attesta che il neonato fosse per diventare un mangiatore d’eccezione. Suo padre, Pierre Verne, si recava al suo studio notarile in “Dama bianca”. Dipinti di bianco, trainati da quattro cavalli bianchi, guidati da postiglioni con livree bianche. Gli immacolati omnibus di Nantes erano forniti di organetti a mantice, che con il movimento delle ruote macinavano le arie più suggestive della “Dama bianca” di Boieldieu. Quanto alla madre del piccolo Jules, il suo nome era una corrente d’aria, Sophie Allotte de la Fuye.

   Mezzo secolo prima, Nantes sfoggiava una potente casta di armatori e di trafficanti, proprietari di flotte sulla Loira e di terre nelle Antille. Nel cuore di Nantes, coloro che il popolino aveva soprannominato i “Piantatori di San Domingo”, avevano edificato un quartiere privato, una città da “Mille e una notte”, palazzi sorretti da cariatidi, voliere sonore di uccellini delle Isole, piante barbute e fiori spaventosi, come fuochi d’articio. Quando Verne si aggirava, giovanetto, per i canali di quel porto fluviale e l’occhio gli si estasiava sui brigantini e sui piroscafi esordienti, i “Piantatori di San Domingo” erano morti da un pezzo e disperse le loro ricchezze, ma un barlume dell’antico splendore perdurava sui ruderi della “città privata” e nell’aria indugiava un oprofumo coloniale.

   La sera del 10 novembre 1848, Jules Verne arriva a Parigi, in tempo per veder finire, tra il fumo delle torce, la festa celebrata dall’Assemblea nazionale per la proclamazione della Costituzione nuova, e mentre Alphonse de Lamartine, in mezzo alla piazza della Concordia, parata come una cattedrale, proclama la religione dei popoli oppressi.E’ l’addio al romanticismo. Muore il romanticismo dei salici piangenti e del non ancora scoperto bacillo di Koch. Sta per nascere un romanticismo eroico e parente dell’Odissea: quello dei pionieri del progresso e delle meraviglie della scienza, nel quale Jules Verne attingerà poesia in quantità.

   Il debuttante si avventura nei salotti letterari. Quelli di “madame” Mariani sono giardini di cristallo, inadatti ai passi di un plantigrado amante delle freddure grosse. “Ah!” sussurra, un giono, il giogiovane Jules a una fanciulla, cui le balene del busto martoriano le coste, “potessi su queste coste pescare le balene!”. Ma nel salotto di “madame” Barrère, Verne incontra il cavaliere d’Arpentigny, celebre chiromante. La divinazione per mezzo della mano appassiona Dumas padre. Nella scia del “cavaliere”, Jules Verne varca la soglia del gigantesco mulatto ed è ammesso all’onore delle “omelettes” fiammanti, delle divine maionesi che l’autore de “I tre moschettieri” prepara con le sue manone color cacao. Dall’intimità alimentare, si passa a quella letteraria. Il 12 giugno 1850, il “Teatro Storico”, diretto dal Dumas, porta al giudizio del pubblico “Le paglie rotte”, commedia proverbiale e versificata di Jules Verne ed Alexandre Dumas figlio. A questa sciocchezzuola seguono altre: “Colin-Maillard”, “Les Compagnons de la Marjolaine”, “Monsieur de Chimpanzé. Spinto da una bassa illusione, da una falsa conoscenza di sè, Verne, destinato a solcare gli oceani, naviga intantonella palude teatrale. Cosmos e Tragos l’hanno stregato a tal punto che colui dalla cui testa sta per uscire, come Minerva armata, Philéas Fogg con gli scopettoni e il completo a quadri, diventa segretario del “Théatre Lyrique”. Si crede a posto! Non solo, ma il futuro moralista, lo scrittore austerissimo, che nei suoi libri eroici farà apparire appena di sfuggita una figura di sposa castissima, di sorelle esemplare, compone commediacce e “vaudevilles” talmente scollacciati che il suo notaio di padre, seduto tra le cantilene della “Dama bianca”, ai passeggeri che gli chiedono notizie dei successi teatrali del suo Jules: “Ma io non so”, risponde, “mio figlio studia giurisprudenza”.

 

                                  * * *

   Molti orologi sono stati rubati da che il mondo è mondo: nessuno con gli effetti dell’orologio rubato, una sera del 1852, sul comodino di Jules Verne. L’indomani il derubato si reca alla polizia. “Il vostro orologio era a scappamento?”. “Purtroppo!” risponde Jules Verne. Assieme con l’involontaria freddura, l’ispirazione lo colpisce in fronte. Esce dal commissariato, torna a casa a tastoni. Ruote e rotelle gli girano nella testa. Sorge, poco a poco, fra gli ingranaggi la figura allampanata di mastro Zacharius, orologiaio ginevrino e inventore dello scappamento. Nel congegno dell’orologio, Zacharius ha scoperto il segreto di animo e di corpo. Chi gli vieta ormai di competere con Dio? Invano sua figlia, la dolce Geranda, tenta di sanare quella mente sconvolta. Muore mastro Zacharius al colmo dell’aberrazione e gli orologi che con l’innumerabile tic-tac circondavano lo spasimo del pazzo, hoffmannamente si fermano di colpo.

   Assieme con gli orologi del demiurgo mancato, si ferma pure la “bassa vena” di Verne. Il “deus” ha rivelato la sua presenza nella cassa toracica di quel discendente di magistrati e di sognatori. Come avvenne la visita misteriosa?

   Una sera Verne stava nella sua camera. La finestra era aperta sul brillio del “boulevard”. Assieme con le luci e le voci, entrò da quella finestra una signora vestita da venditrice di bibbie dell’Esercito della Salvezza, con cappellina a “tilbury”, occhial a stanghette e, ingombre, le braccia di compassi, sestanti, sferometri. Si fermò davanti al tavolino sul quale Jules Verne stava componendo uno di quegli ibridi spettacoli che dal francese in italiano si traducono “vitelli di città” e, fissandolo severamente negli occhi, gli disse: “Jules, basta con le scemenze!”.

   La signora era magrona, ma fosse stata la più appetitosa delle donne, la sua virtù del pari non sarebbe stata posta a repentaglio in quella camera di scapolo, perché Jules , ancorché si offrisse per pura ostentazione di pescar balene sulle coste delle vergini nantesi, in fatto, e come tanti altri “grandi”, era più incline alle voluttà della fantasia che a quelle dell’amore.

   Verne si alzò dalla sedia e: “Con chi ho l’onore?” domandò.

   “Sono la Scienza”, rispose la visitatrice. E da quel giorno, l’austera dama diventò per Jules Verne ciò che Troja era stata per Omero: una fonte di ispirazione.

   Jules è contento. Scente in strada per dare spazio alla sua gioia. Parigi è in preda alle luminarie. “sono per me questi lumi? “ domanda ad un passante, che lo guarda imbambolato. “Sono per il matroimonio del nostro imperatore”, risponde colui. In quella primavera del 1853, Napoleone III, lustrandosi la mosca a cavaruracciolo e affilando i mustacchioni a spillo, si è portato alle Tuileries la bella Eugenia di Momtijo, la spagnola che ha la nuca a ponte, una dolcezza bovina negli occhi e un paio di boccoli sulla spalla d’alabastro. “Il nostro imperatore…” ripete l’amante della Scienza e la faccia gli si imbruttisce. Gli imperatori andavano meno a garbo a lui, di quanto egli andasse a garbo agli imperatori. Quando Verne morì, così Guglielmo II scrisse dal mare alla vedova: “Avrei desiderato seguire la cara salma. Serbo il fascino di quelle meravigliose letture”. A difetto della sua augusta persona, il “Kaiser” delegò un consigliere d’ambasciata, omonimo dell’autore di “Marta”: von Flotow. Scelta intenzionale? Tutto può darsi da parte di Guglielmone. Al pari di Isidore Ducasse e di Marcel Proust, Verne era pazzo di musica. Per dare sfogo alla sua passione, si era comprato, studente, per venticinque franchi, un pianoforte centenario che era appartenuto a Grétry. Chi non ricorda, nelle soste sottomarine del “Nautilus”, le sublimi, le strazianti improvvisazioni del capitano Nemo? Chi non ricorda le armonie wagneriane, che,nella notte della foresta australiaana, colpiscono le orecchie stupefatte di lord Glenarvan e dei suoi compagni?

   La stessa guerra di CRimea concorre a salvare Verne dal peccato teatrale. Nel settembre 1854 arrivano i primi feriti dalla Tauride e con gesto di seminatori spargono i bacilli del colera sui fertili campi di Parigi. Nel giro di poche ore,Sevestee,direttore del “Théatre Lyrique” di cui Verne è il segretario, tira le calzette. Morto il direttore, muore “per il teatro” anche il segretario. Anche l’amicizia si orienta diversamente. Dai topi di palcoscenico, la buona dea, che ha nome Filìa, lo butta tra le braccia di Giacomo Arago, il viaggiatore cieco. Non resta ai ciechi l’occhio terzo, quell’occhio “interno”, che, a detta degli Stoici, portiano al sommo del cervello e con il quale guardiamo i sogni? Più avventurati di noi, i ciechi guardano i sogni anche da svegli. Diritto davanti agli occhi bianchi, Arago torna dall’aver guidato alle pianure del Colorado una banda di cercatori d’oro, che la freddurista Parigi ha soprannominato gli “Aragonauti”. A Jules Verne, il viaggiatore cieco offre le sue straordinarie memorie geografiche, le colossali liane dell’America, quell’interminabile Cipo della “Jangada”, che guiderà i figli di James Dacosta attraverso la fpresta brasiliana. Informe,ancora e opaco, il Romanzo della Scienza gli si profila , poco a poco, nella mente. Il suo idealismo immenso, che finalmente lo porterà alla più spinosa misantropia, puzza di latte ancora e ha appena la consistenza di una pappa. In queste condizioni, ma già fisso a un sogno “dell’altra sponda”, Verne scrive, e in versi per sovrammercato, una “commedia italiana” sugli amori “immaterial e intellettuali” di Leonardo da Vinci e della Gioconda. Il destino emerge dal caos. Il disegno che quel temerario si propone supera quello di Balzac, quello di Omero, quello di Dante. Una passeggiata attraverso il cosmo, nientemeno.

   Da quando Jules Verne ha intravvisto la faccia del proprio destino, la sua preoccupazione costante è dare forma letteraria all’”epopea della scienza”, rimuovere qualunque ostacolo si frappone a questo disegno.

   Anche l’amore?

   L’amore, che Verne fino allora ha reputato la più poetica avventura della vita, ora capisce che esso pure è un ostacolo da buttare dietro le spalle: forse il più grave. Al fine di risolvere, una volta per sempre, questa fastidiosa necessità, il romanziere della scienza sposa Honorine Hébé Anne du Fraysne de Viane. Egli si illude, con tutti questi nomi, di mobiarsi un harem? In ogno modo ella è una sposa già “pratica” che Verne si porta a casa, la quale , oltre ad essere se stessa, gli reca un paio di figliolone bene in carne e in condizione di andare spose a loro volta. Quando Onoratina , quattro anni dopo, dà alla luce un bambino, è, a ragion veduta che Verne può dire: “ Mia moglie ha tre figli, io uno”. E’ stata Onoratina per Verne ciò che Cosima è stata per Wagner, ciò che ogni moglie di grand’uomo si illude di essere per il proprio marito: un’ispiratrice e una collaboratrice? “Marito muto” dice del suo Onoratina. E un giorno, trovandosi entrambi a bordo del “San Michele” e stando Verne , al suo solito, disteso bocconi sul ponte: “Jules”, lo rimprovera la moglie, “il cielo tu non sai guardarlo altrimenti che col sedere”. Povera Onoratina! Essa non sapeva che, ai fini supremi della poesia, il cielo è proprio con il sedere che bisogna guardarlo.

   Intorno agli eroi   candidi e barbuti dell’Ottocento, il macchinismo trionfante andava tessendo una mitologia a stantuffi. Il vapore di Papin sostiyuiva la nuvola di Giove. Verne crede alla maestà della scienza. La sua fede nell’uomo è cieca. “Tutto quanto io invento, tutto che immagina la mia mente, rimarrà al di sotto delle realtà perché verrà giorno in cui le creazioni della scienza supereranno quelle dell’immaginazione”. Questi gli apoftegmi che come colonne d’acciaio sorreggono l’animo di questo apostolo della scoprta, di questo Mazzini delle carte geografiche, di questo propugnatore dell’Esperanto. Per la meravigliosa navigazione, nel corso della quale centoiquattro opere rilegate e illustrate da Riou, Benett, Bayard, Neuville, saliranno dal fondo degli oceani alla luce delle aurore boreali, nulla manca all’attrezzatura di Jules Verne, neppure quel necessario blocco di stupidità, che per l’artista di forza è ciò che la zavorra è per la nave. Verne non dubita. L’introspezione non lo rode. E’ un genio semplice e armato di praticità. Un Giuseppe Verdi della geografia. Ma come navigare, se non ci si circonda della stessa solitudine del mare?

   Una leggenda di bontà si è formata intorno a Jules Verne, ipocrita e falsa. Per merito precpuo di un altro “deformato” dalla leggenda, Edmondo De Amicis, i nomi di Filemone e Bauci sono stati pronunciati a riguardi di Jules Verne e di sua moglie. Vorremo confutare questa panzana? Chi vuole trovare un simila a Jules Verne, prenda a modello quel Bongiovanni astronomo a Ferrara, il quale consumò la vita in cima a una torre deCatello Estense e che non consentiva a ricevere la moglie e la figliola, se non una volta la settimana, la domenica, dalle undici a mezzogiorno. Per quanto riguarda i past, il romanziere della geografia replicava Menelik,perché anche Jules Verne , ad imitazione del “re dei re”, ma non per le stesse ragioni di “pudore alimentare”, si nutriva in solitudine.

   L’umanitarismo lo gonfiava come una mongolfiera. Anche la sua opera sarà consacrata al bene dell’umanità. Ricompensa suprema, il 7 luglio 1884, dentro una delle undicimila stanze del Vaticano, dorata e pitturata come un tabernacolo, la “missione umanitaria” della sua opera srà riconosciuta e lodata da un vegliardo lrggero come fumo e bianco come un’enorme cicala delle nevi. “Visione celestiale”,commenta un nipote di Jules Verne nella sua effemeride di viaggio. “Uscito dall’udienza di Leone XIII, mio zio piangeva come un vitello”. Intanto, gli affetti familiari di questo “vitello” si vanno progressivamente raffreddando. Jules Verne si chiude , sempre più, in quell’idealismo . che è la conquista suprema della mente borghese. Più egli allarga il prorio amore ai cerchi lontani dell’umanità, più quelli vicini ne rimangono privati.

   Alla genesi del libro che apre trionfalmente la serie dei “Viaggi straordinari”, hanno collaborato l’”anitra in pallone” di Edgard Poe e l’amicizia di quel Félix Tournachon, detto Nadar, e per anagramma Ardan nel “Viaggio dalla Terra alla Luna”, che, per primo, innalzò la fotografia a forma d’arte e , il 4 ottobre 1863, salpò in cielo dal suolo di Parigi, a bordo del “Gigante”. Nadar influenzò Verne, o quesi quello? La verità è, come sempre, controversa. Uscì, da questo incontro, la prima stesura di quel profetico romanzo, che nella versione definitiva prese il titolo di “Cinque settimane in pallone”.

   Colui che in qualità di editore è destinato a spartire la fortuna di Jules Verne si chiama Hetzel ed è uomo temibile per più riguardi. Hetsel innanzitutto è il nome germanico di Attila, come risulta dalla versione elvetica della saga dei Nibelunghi. Hetzel, che, oltre che editore, è anche autore di squisiti romanzi,firma con lo pseudonima Stahl, che in tedesco significa “acciaio”. Tuttavia, quando , in una nebbiosa mattina dell’autunno 1862, Jules Verne , il manoscritto del suo primo romanzo “scientifico2 in tasca, va a bussare alla porta dell’Attila d’acciaio, questi lo riceve dentro una camera imbottita come un portaspilli, sdraiato in un letto, sul quale piovono dal baldacchino ptrziose tappezzerie di Fiandra e simile piuttosto a una “validé2, o come dire sultana madre, che all’indomabile re degli Unni.

   Jules Verne e Hetzel sono fatti per intendersi. L’editore impegna lo scrittore a fornirgli due romanzi all’anno, quaranta romanzi in vent’anni.

   Da quel momento Jules Verne diventa il Santa Clau della ragazzeria dei due emisferi. Del Santa Claus acquistera, opoco a poco, anche l’aspetto: barba di bambagia, sopracciglia a grondaia, passo dell’orso ballerino. Per quarant’anni e più, questo San Nicola scientifico e immaginoso arriverà puntuale al convegno della fine d’anno, colma la gerla di bei volumoni nuovi, vestiti di rosso e con il filetto d’oro slle coste. Mentre squillano le campane della Natività e la neve spande una mite sembianza di nonna sulla tragica faccia di nostra madre terra, il raduiso volto dell’Avventura splende nelle finestre gelate dalla brina e dentro le camere imbottite di tappeti, al calore mormorante delle stufe, un immenso sospiro di felicità, un vento di cime e di largo gonfia il cuore di migliaia e migliaia di ragazzi.

   Pure il più infervorato di questi, un “grande” cui la peluria già adombra lo spazio tra naso e labbro, si apposta, una sera del marzo 1886, presso la casa di Jules Verne e, quando il suo idolo emerge dal buio della strada, gli scaruica addosso il contenuto di una grossa pistola a tamburo.

   Il poeta dell’avventura cade bocconi sul marciapiede, mentre l’assassino scantona in fondo alla strada. Il velo del mistero cala su quella scena sinistra e assurda. Le ragioni dell’incomprensibile attentato ci saranno mai svelate? Una voce sussurra: “Tacere! Tacere! “. E forse il conoscerle, deluderebbe più dell’ignorarle. Ci sono ragioni “che non riempiono l’attesa”; ragioni “prive di ragione”.

   Mentre trasportano l’”amico dei ragazzi” in casa, la scarpa ciondola come vuota e sospesa per le stringhe. Il navigatore è ridotto a rottame. Per ingannare l’immobilità, il tessitore delle avventure terracquee compone geroglifici, crittogrammi e “ottocento” parole crociate. “Della claudicazione alla quale sono condannato per sempre, mi consolerò pensando a madamigella di La Vallière, a Talleyrand, a lord Byron”. Così egli scherza sul suo piede spezzato. Ma nella vita marinara che lui ama tanto, che ne sarà?

   Anche su Jules Verne viaggiatore la leggenda ha tessuto le sue ragnatele. Una lo rappresenta come un “viaggiatore in poltrona”, l’altra come un ittiocentauro. Sorella di Banalità, Verità, al solito, sta nel mezzo. Il mare è il grsandee amore di questo misogino. L’estate del 1854 gli è nefasta: febbri biliari, cefalee, mansioni ridicole al “Théatre Lyruque”, una paralisi facciale che gli afflovcia la guancia e gli cala il siparietto della plapebra sull’occhio. Ure, dal fondi di tanta miseria, un grido di gioia scaturisce dal cuore di Verne e, in forma di lettera, raggiunge la mamma a Nantes: “ Sabato sera ho preso il treno: ho visto il mare del Nord”.Dalkla talassofilìa di Verne i mari brillanti del mezzogiorno non sono esclusi,ma i suoi veri amici, i suoi “consiglieri segreti” sono i tristi, i neri, gli sconfinati mari del Settentrione. Nel 1869 , il primo , grande viaggio: Scozia, Ebridi, grotta di Fingal,. Poi, viaggio in America sul “Great Eastern”, l’mmenso zatterone a ruote, che gli suggerisce l’idea della “Città galleggiante”. Più tardi, quando i diritti d’autore cominciano a far cumulo, Verne acquista la prima delle sue navi di diporto,, il primo dei suoi tre”Saint Michel”: poco più di una barca il primo, yacht a vela ul secondo, “steam-yacht” il terzo, con il quale compirà il periplo del Mediterraneo occidentale.

   Appena in piedi, clauduicante e più ingrugnato che mai, Verne torna a Nantes,cercando l’ombra leggera della mamma, e il fantasma notarile del babbo. Nei porti i fantasmi si raccolgono sul molo., a cui è attraccato il “Saint- Michel III”. Con un’ultima speranza in corpo, Verne sale la scaletta apposita che il capitano Ollivier ha fatto fabbricare per il piede difettoso del padrone. La nave esce al largo. Al primo beccheggio , il lupo di mare va a gambe all’aria. E’ finita! I grandi peroli, le navigazioni sconfinate non avverranno più, se non per virtù di immaginazione. L’insaziabile navigatore abbandona il mare.; abbandona Parigi, che, a suo modo, e

è, anch’essa, un mare.; abbandona Amiens, ove si è ritirato in una casa troppo grande e nella quale, come in un porto, troppa gente, troppi “amici”, troppi “ammiratori” vengono ad approdare. Jules si riduce in una casa appena sufficiente a lui e ai sogni salmastri, che, senza posa, come nel mare l’onda, gli girano, notte e giorno, nella testa.Il “Saint- MIchel III” , il nervoso “steam-yacht” nero, filettato d’oro, dalla prua affilata come una matita, andrà a soddisfare gli umori marinari del principe del Montenegro.

   Il francese è divoratore di onorificenze. Lo stesso Verne – si stenta a crederlo – non era immune da questo insano appetito. Nel febbraio 1870, il visconte Ferdinand-Marie di Lesseps, diplomatico ed ingegnere, a cui si deve il canale di Suez, chiede per l’autore dei “Viaggi straordinari” la croce della Legion d’onore, omaggio di colui che ha unito Mediterraneo e Mar Rosso, a colui che questi stessi mari aveva già unito per mezzo di un passaggio sottomarino. Napoleone III sta per firmare il decreto. Marte gli strappa la penna di mano, gli spinge al galoppo il cavallo alla volta del Reno. Al termine di questa fragorosa galoppata, notizie nere cominciano a piovere sulla capitale: Reichshoffen , Forbach, Sedan. Il ministero crolla. Prima di deporre le armi ministeriali, Elio Ollivier sottopone alla firma dell’imperatrice il decreto rimasto in sospeso. E’ una delle ultime firme di Eugenia “reggente”. La Francia perde due province, ma la rosetta brillerà all’occhiello di Jules Verne.

   Comandato dall’autorità militare all’officio di guardacoste, il nuovo membro della Legio d’onore monta la guardia sulla Loira, a bordo del “Sant -Michel II.E’ silenzioso,, cupo, riconcentrato. Di tutte le divinità dell’Olimpo, Marte è quella che meno gli talenta. Le spacconate dei suoi connazionali gli ispirano amare riflessioni. Sulla guerra, lui quanto a sè non dirà parola. E mantiene la promessa. E’ del tempo “settantesco” uno dei libri più spogli di Jules Verne, nel quale la guerra fa capolino, leggermente ironizzata: “Avventure di tre russi e di tre inglesi”.

   La sua vita si stacca sempre più dalla vita di tutti. La sua mente sale, poco a poco, alla solitudine suprema della “Sfinge dei ghiacci”, epica conclusione delle “Avventure di Gordon Pym”, alla pazzia verde, rameggiante del “Villaggio aereo”, all’ermetismo di “Vulcano d’oro”, di “Faro in capo al mondo”, di “Invasione del mare”.

Per una “finzione di guerra”, Jules Verne (per meglio dire il “simulacro” di Jules Verne, il “nume” del viaggiatore straordinario) simula una vita assurda e lievemente colorata di politicismo. Entra questo Jules Verne mascherato nella lista socialista della giunta comunale di Amiens, tratta questioni urbanistiche, sta in corrispondenza con l’arciduca Luigi Salvatore di Toscana e con un misterioso Demetrio Zanini, milionario, che lo proclama “Solone futuro” e gli offre la legislazione di un “mondo rinnovato”, ricopre le cariche di controllore finanziario dei teatri e di ispettore dei circhi ambulanti. Vita doppia, di altissima creazione poetica, nascosta, come corazzata dietro il fumo dei caccia, dal simulacro di una vituzza di cittadini esemplare, che continua fino al 20 marzo 1905. Ma, all’imbrunire di questo giorno, una nuova, suprema possibilità si offre a Jules Verne di staccarsi definitivamente dal mondo di tutti.

   Jules Verne è a letto. La pancia fa pallone sotto la trapunta. L’occhio annegs tra la palpebra pollina e la borsa rigonfia di grasso giallastro. In mezzo alla selva argentea della barba e dei capelli, la faccia è una radura di carne ingiallita dal diabete. Le mani posano sulla riversina, la destra si muove lentamente come se scrivesse. Il lettuccio di ferro si inarca sotto il suo peso. Il papà di Philéas Fogg è un orso che fa il morto, in una commedia di animali ammaestrati.

   Entrà “madame” Guillon: maniche a coscia, colombaccio sula testa, mezza veletta, a pasticche nere. La sorella del moribondo grida: “Jules! Jules! “ e dà fuori i singhiozzi che le gonfiavano il naso. Jules non si muove. Entrano Susanna, Valentina, il figlio Michele. Entra lo stesso Hetzel, l’editore. L’orso fa la sua parte, a regola d’arte: non riconosce nessuno.

D’un tratto, la porta si apre da sè. Dal buio dell’anticamera, viene avantiun bastone, Enorme, nodoso, chiodato. Viene avanti saltellando. Dietro il bastone, entra la delegazione della “Boy’s Imperial League”: quattro inglesini angelici, la codina da girino dell’ “Eton jacket” sul culino globosetto. Il più grandicello, con voce nasale e a nome di tutti, dice: “Bongiono, mister VErne. Questo è il bastone più robusto che abbiamo trovato in tutta Londra. Ci siamo quotati per comprarlo e ve lo offriamo perché vi sorregga nei vostri futuri pellegrinaggi”.

   L’orso nel lettuccio si sgrulla dal piacere, come se savesse visto arrivare la pappa, ma continua a fare il morto. Nemmeno la morte, dunque, procura quella solitudine totale, alla quale egli aspira fin dal fondo della vita? I delegati della “Boy’s Imperial League se ne vanno, ma arrivano, in compenso, i rappresentanti della giunta comunale di Amiens, i parenti vicini e quelli lontani, gli amici, gli ammiratori, i preti, i ceri accesi, i fiori grassi come bistecche e carichi di odori nauseanti.

   Salvezza non c’è. Jules Verne scende dal letto in camicia da notte e scalzo come un padreterno in bassa tenuta si tira su la camicia per un ultimo saluto ai presenti e afferra per il collo il bastone della “Boy’s Imperial League e lo spendola a batacchio,uscendo dalla camera ardente, a larghe pedate, che rimangono impresse sul tappeto a fiorami, come le zampate del megaterio sulla creta del pliocene.

   A Monaco intanto, dal dormitorio di un collegio di frati maristi, un “interno” che si chiama Guglielmo di Kostrowitzky, ma che, più tardi, prenderà, come poeta, lo pseudonimo di Guillerme Apollinaire, si affaccia alla finestra e grida: “Che stile, Jules Verne! Non usa che sostantivi!”. E’ il saluto della generazione nuova al vecchio poeta che se ne va.

   Alfredo Saccoccio

 

1 Comment

  1. Non so chi sia questo Afredo Saccoccio, ma il testo è, pari pari, di Alberto Savinio, in Narrate, uomini, la vostra storia, Adelphi, pp. 117-131

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