Alta Terra di Lavoro

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Zampognari e poesia a Napoli

Posted by on Dic 4, 2019

Zampognari e poesia a Napoli

Le melodie degli zampognari e la poesia di Dante, nella novena dell’Immacolata, ci ricordano che la vita è un cammino verso una meta, mentre prepariamo il cammino del presepe. 

Il ventinove del mese di novembre era sempre stato un giorno speciale per Napoli e i Napoletani, risvegliati al mattino presto dalle melodie degli zampognari che si diffondevano per le strade ed i vicoli, entrando nei bassi, arrampicandosi su per le facciate dei palazzi, penetrando con i loro suoni acuti e gravi negli angoli più remoti delle case.

Chissà perché il suono delle zampogne, che preludia al momento più bello dell’anno, quando gli Angeli proclamano la “gloria di Dio nel più alto dei Cieli” e annunziano la “pace in terra per gli uomini di buona volontà”, è così malinconico e riempie l’animo di  nostalgia.

“Nostalgia”: parola che, come al solito, viene dal greco antico: significa “dolore” (algos) per il “ritorno” (nostos): desiderio di ritornare a casa.

Ma dov’è la casa dell’uomo? Probabilmente in quel “giardino” (il Paradiso) da cui l’umanità fu scacciata nel suo primo rappresentante. L’avvenimento dei primordi che segna il destino di tutti i discendenti di Adamo.

E la storia primordiale si ripete per ogni singolo uomo: per ognuno di noi vi fu la cacciata da un paradiso, che non si è più stati in grado di riconquistare. La ricerca del “paradiso” è la ricerca del senso della vita.

Perché la vita sia un cammino verso una meta, come dice il padre Dante, e non un vagolare per una selva oscura, in andirivieni che non portano da nessuna parte.

Conoscere, amare e servire Dio in questa vita: è il senso dell’esistenza, nella concisa formulazione del catechismo di Pio X. Il resto viene da solo.

Le melodie degli zampognari sono così piene di nostalgia, forse perché fanno risalire dal profondo dell’animo umano la consapevolezza del tradimento nei confronti dell’unico vero scopo dell’esistenza, “immagini di ben seguendo false”: è ancora il padre Dante che ci mette in guardia. Tutto ciò che ci piace a questo mondo non è il bene, ma solo immagine del bene, pura ingannevole apparenza, da cui l’uomo si lascia tentare e sedurre.

Sono anni, ormai, che la mattina del ventinove del mese di novembre gli zampognari non risvegliano più i Napoletani.

Naturalmente, da un punto di vista socio-economico, dovrebbe essere un bene.

Le zampogne, infatti, erano legate a un’economia pastorale fatta di sacrificio e di povertà. Gli zampognari erano pastori, per lo più molisani o ciociari, che, spinti dal bisogno, venivano giù dai loro monti nelle città, andando di casa in casa a suonare la novena e a racimolare quel po’ di denaro che consentisse alle loro famiglie un Natale meno povero.

Nelle lunghe sere dell’inverno precedente, mentre le loro greggi riposavano nelle stalle, avevano intagliato dei lunghi cucchiai di legno, le “cucchiarelle”. Poi, nel mese di novembre venivano in città e si recavano presso le abitazioni a offrire la “cucchiarella”, ottima per girare la salsa sul fuoco e per impartire qualche lezioncina ai bambini impertinenti. Chi accettava la “cucchiarella” si impegnava a fare suonare nella propria casa le due novene, della Immacolata e di Natale.

Per questo, il presepe doveva essere allestito nel corso del mese di novembre: per essere pronto, alla data stabilita, ad accogliere il devoto omaggio alla Madre di Dio da parte degli zampognari e di tutta la famiglia riunita intorno a loro.

“Questa novena che abbiam cantata a Voi, Vergine bella, è dedicata”.

Mio padre non mancò mai di fare cantare la novena nella sua bottega artigiana. Gli zampognari erano padre e figlio. Il più anziano suonava la ciaramella e di tanto in tanto staccava per cantare le strofe, con il grave sottofondo della cornamusa, suonata dal giovane.

L’otto dicembre è la festa della Immacolata Concezione. Nella chiesa di San Domenico Maggiore, a Napoli, vi è una statua della Vergine, realizzata da mio padre Vincenzo nei primi anni Cinquanta. Fra tutte le statue di mio padre è quella che prediligo. Ha uno slancio verso l’alto che mi ha reso sempre certo, al di là di ogni razionalistico dubitare, che, anche se siamo su questa terra, non le apparteniamo. Il nostro destino è nell’alto, dove sono le nostre radici.

Certo, mi dirai, un figlio stravede sempre per l’opera di suo padre. Non posso negarlo. Ma talvolta ho avuto qualche riscontro oggettivo.

Ti racconto un piccolo episodio, di qualche anno fa.

Il giorno dell’Immacolata, per la Messa, vado sempre nella chiesa di San Domenico Maggiore. Quella volta, al termine della celebrazione, il padre domenicano che aveva officiato il rito, salutando i fedeli, li invitò a fermarsi davanti alla statua dell’Immacolata per una preghiera. E aggiunse di avere sempre avuto per quella statua una particolare predilezione, perché, pregando davanti a lei, si sentiva come attirato verso l’ alto.

Puoi immaginare come mi sentii pieno d’orgoglio, e non solo: avevo la prova che non era solo mia la sensazione di forte spiritualità che promana da quella immagine. Attesi che il padre domenicano si dirigesse verso la sacrestia, perché volevo ringraziarlo per le sue belle parole. Perciò, sulla soglia della sacrestia, lo chiamai riguardosamente: “Scusi, Reverendo …”

Con mia sorpresa, il serio domenicano risponde celiando: “Eh … reverendo…! a chi vuo’ prendere in giro!?!”

Sorpreso dal tono, cerco una risposta adeguata, non la trovo, ma nel frattempo lo riconosco: un mio antico compagno d’Università, uno bravissimo, che, naturalmente stimavo molto. Nella mia biblioteca conservo anche alcuni suoi libri, perché è uno studioso delle letterature latina e greca.

Lui mi aveva riconosciuto, mentre ero al mio posto nel banco della chiesa, ma io non avevo riconosciuto lui. Fu sorpreso di sapere che quella statua era opera di mio padre: aveva letto la firma, mi disse, ma non l’aveva collegata al mio cognome.

Quante volte mio padre ha raffigurato la Madre di Dio sul suo trono di gloria o assunta in cieli al di sopra delle nubi, in un coro di angeli.  E , nel pensare le fattezze della Vergine, sempre si era ispirato al viso di mia madre.

Purtroppo non so trovare le parole adatte a fare comprendere che cosa si prova a vedere le fattezze della propria madre terrena trasfigurate nel viso della Madre di tutti: è il miracolo dell’arte, il miracolo della fede.

“Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio,

Umile ed alta più che creatura,

Termine fisso d’etterno consiglio…”

Della fede che raccorda insieme i versi sublimi del padre Dante e l’Ave Maria recitata con devozione dall’umile donna che torna dal mercato, carica delle buste della spesa.

E ti racconto un altro episodio. Ero stato, ancora una volta, nella Cappella Sansevero a studiare il simbolismo diffuso a piene mani nella sua chiesetta nobiliare dal Principe Raimondo de’ Sangro. Erano anni che lavoravo all’interpretazione della complessa rete di figure e di significati escogitati dalla mente di quel geniale studioso che il popolo napoletano considerò uno stregone.

Ero giovane, allora. A un certo punto, sentii stanca la mente e dovetti uscire dalla cappella, quasi per potere respirare. Mi rifugiai nella chiesa di San Domenico che, come sai, è proprio lì, a due passi. Naturalmente sostai davanti all’Immacolata. Vi era una donna che pregava fervidamente, assorta nella contemplazione della Vergine.

Capii allora perché mi ero sentito stanco, nella Cappella dei Sangro: come impallidiva e come si sgonfiava l’astruso simbolismo, saturo di orgoglio intellettuale, accessibile a pochi, di fronte alla purezza di quel simbolo accessibile a tutti, purché disposti ad accostarvisi con umiltà, e che aveva lo stesso significato per me, per Dante, per la donna che pregava: parlavamo tutti e tre lo stesso linguaggio, quello insegnatoci dall’Angelo che un giorno pronunciò le parole sublimi nella loro semplicità: Ave Maria …

Che peccato che gli zampognari non percorrano più le strade di Napoli a cantare e suonare la novena in onore dell’Immacolata e di Gesù Bambino. Certo, è segno di un benessere materiale sospirato e raggiunto, ma forse anche di un decadimento spirituale.

Che la bellezza sia inseparabile compagna della povertà?

Mi farebbe piacere sapere che ne pensano gli altri.

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