1799: Rivoluzione e Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli.
La reazione armata delle popolazioni del Regno di Napoli – organizzate in gran parte nell’esercito della Santa Fede – contro la Repubblica Napoletana del 1799, va inserita nel più ampio contesto del così detto Triennio Giacobino (1796-1799) o, cambiando angolo di visuale, dell’Insorgenza (1796-1815), cioè dell’insieme delle sollevazioni contro-rivoluzionarie e antinapoleoniche in Italia.
Nascono in quel periodo effimere repubbliche, sostenute soltanto da minoranze «illuminate», che ritennero giunta l’ora per concretizzare le loro utopie o, più prosaicamente, per impadronirsi dei beni ecclesiastici e delle terre comunali su cui gli abitanti esercitavano gli usi civici da tempo immemorabile. Le popolazioni, anziché lasciarsi incantare dalla Libertà astratta e letteraria dei riformatori, insorgono concordi in difesa delle loro tradizioni e delle residue libertà concrete, mostrando che il vero elemento unificatore della nazione italiana era rappresentato dalla comune identità religiosa e culturale. La Rivoluzione, infatti, è avversata dagli italiani perché percepita nella sua essenza reale: straniera nella lingua e nei modi, ma soprattutto straniera al costume, alle credenze e ai legittimi interessi di un popolo (1).
Queste considerazioni valgono in particolare per l’insorgenza nel Regno di Napoli che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà delle vicende, per l’esito vittorioso e per la presenza di un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, seppe coordinare la reazione popolare, spontanea ma non autonoma. Nel 1799, i lazzari, cioè il popolo minuto di Napoli, e i contadini delle province, si rivelano ben lontani dall’essere una massa amorfa, avvezza a passare con facile rassegnazione da un padrone all’altro, e le loro gesta danno vita all’impresa della Santa Fede, animata e condotta dal cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827).
1. Il dibattito storico
1.1 Fra storia e ideologia
La prima ricostruzione, coeva agli avvenimenti, è dei cronisti di parte regia, innanzitutto del domenicano Antonino Cimbalo, appartenente forse alla Provincia di Sicilia, testimone oculare delle vicende e autore di un Itinerario della spedizione, dato alle stampe nel 1799 (2). Il libro offre l’eco immediata dei fatti e ha un impianto forzatamente cronachistico, limitandosi alla «[…] narrazione sincera di quanti sono stati gli effetti ammirabili nelle gloriose vittorie riportate da quei soldati, che sotto del Reale Crocesegnato vessillo han combattuto» (3).
Più meditata è l’opera del siciliano Domenico Leopoldo Petromasi (4), che aveva seguito il cardinale Ruffo dall’inizio della sua impresa, ricoprendo la carica di commissario di guerra per le attività logistiche e ottenendo dal re, al termine del conflitto, il grado di tenente colonnello come riconoscimento per l’opera svolta. La sua intenzione è quella di ampliare la narrazione del domenicano Cimbalo, di cui «[…] si fece spaccio di tutte le copie» (5), e di descrivere non soltanto la marcia dell’esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli, di cui era stato «testimonio di veduta» (6), ma anche le operazioni militari che avevano portato alla liberazione di Roma e dello Stato Pontificio. Il cronista rende giustizia a quei valorosi combattenti e restituisce alla loro impresa il carattere di un’autentica epopea nazionale, senza però addentrarsi nei risvolti politici e culturali dello scontro militare in atto, che rappresentava non più l’ennesima lotta fra case regnanti ma un conflitto fra due irriducibili concezioni del mondo e il primo attacco rivoluzionario al principio della legittimità monarchica.
Il carattere di radicale novità del conflitto è colto, sul versante rivoluzionario, dal molisano Vincenzo Cuoco (1770-1823), che nel 1801, esule a Milano, pubblica il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 (7) – dove individuava le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana nella frattura operata dai giacobini nei confronti della storia e delle tradizioni del regno – e, nel campo legittimista, dall’abate Domenico Sacchinelli (1766-1844), estensore delle Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo (8), e soprattutto da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1768-1838), che nel 1834 raccoglie le sue considerazioni nella Epistola ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta (9).
La polemica storiografica fra i due opposti schieramenti viene alterata, però, dall’infelice autocensura borbonica, che pone le radici della sconfitta culturale dei sostenitori del Trono e dell’Altare. Infatti, il re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825), nel 1801, dopo l’amnistia imposta dai francesi con il trattato di Firenze, proibisce la pubblicazione di opere sul periodo repubblicano e sulla spedizione della Santa Fede, cioè su una vicenda che, per quanto vittoriosa, egli considerava legata agli eccessi di una guerra fratricida e il cui ricordo, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che rinfocolare rancori nefasti. Dopo la spedizione dei Mille, nel 1860, invece, sono gli «unitari» a imporre il silenzio agli storici di parte borbonica, così che le vicende del 1799 sono ricordate tuttora secondo la vulgata rivoluzionaria.
1.2 L’inquinamento storiografico
Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta, testimoni diretti degli avvenimenti del 1799, fin dall’inizio danno al dibattito storico un taglio particolare, cioè di ricerca e di meditazione sugli errori commessi dai repubblicani, per dimostrare che la fine ingloriosa della Repubblica Napoletana era stata la conseguenza di una rivoluzione accettata «passivamente». Cuoco, soprattutto, si sforza di presentare quel fallimento come la conseguenza di sbagli e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell’«intellettuale» e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione.
Benedetto Croce (1866-1952) – che si richiama a Cuoco per sottolineare il distacco fra la classe politica e la nazione – riduce in larga misura la storia del Mezzogiorno d’Italia a quella del suo ceto intellettuale e giunge a idealizzare i giacobini come una nuova aristocrazia, «quella reale, dell’intelletto e dell’animo» (10). Antonio Gramsci (1891-1937), che utilizza lo stesso procedimento logico, si rammarica dell’assenza «momentanea» di un’avanguardia intellettuale, cioè di un partito leninista non ancora fondato, e propone una interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra contadini e borghesia. Secondo l’ideologo marxista «[…] la città fu schiacciata dalla campagna, organizzata nelle orde del cardinale Ruffo perché la Repubblica […] trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani» (11). Giorgio Candeloro (1909-1988) respinge la «tesi della rivoluzione passiva, intesa nel senso puramente negativo della refrattarietà dell’Italia alla Rivoluzione o della non necessità della Rivoluzione in Italia per effetto della precedente opera del riformismo settecentesco» (12) e la ricupera in chiave gramsciana, sostenendo che il giacobinismo italiano non aveva avuto la possibilità di realizzare «[…] quell’alleanza tra città e campagna che era riuscito ad attuare in Francia nel periodo precedente il Termidoro» (13) e che comunque il periodo rivoluzionario ha avuto effetti positivi, consentendo «un ulteriore passo avanti della borghesia italiana nel suo complesso […][e] la formazione di un movimento patriottico, che tende a spezzare rivoluzionariamente il vecchio ordinamento politico dell’Italia» (14).
Nel complesso queste ipotesi interpretative finiscono per ricondurre la storia delle azioni umane quasi esclusivamente all’acume o agli errori dei gruppi dirigenti, ignorando o togliendo valore alla partecipazione popolare e offrendo spiegazioni insufficienti delle insorgenze. In particolare, l’impostazione «classista» cerca invano di accreditare l’idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che abbia sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi e con tradizioni differenti.
Una spiegazione insoddisfacente è offerta anche dalla storiografia nazionalistica, che ha avuto corso fra le due guerre mondiali e vede nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai princìpi rivoluzionari, i quali – essa sostiene – avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza (15).
Negli ultimi trent’anni il peso della tradizione crociana, nella versione rinnovata dagli innesti gramsciani, ha continuato a stimolare l’attenzione degli storici sugli intellettuali e sul pensiero politico della Repubblica Napoletana, ritenuta «un momento fondamentale non solo nella storia meridionale ma nella elaborazione della tradizione democratica italiana» (16). Anche per altre vie il giacobinismo napoletano ha suscitato interesse: «Gli espliciti o inconfessati sensi di inferiorità del meridionalismo storico potevano attingere alla “Repubblica dei martiri” consolazione e riscatto, speranze per l’avvenire. […] Aneddotica delle “donne illustri”, contadinismo populista e “perdute armonie” cittadine fra aristocrazia e “plebe”, facevano e fanno del 1799 una inesauribile fonte di ispirazione letteraria» (17).
Soltanto negli ultimi anni la ricerca scientifica, finora stereotipata nelle interpretazioni, ha dato segnali di cambiamento e comincia a proporre ricostruzioni d’insieme che prestano attenzione anche al fenomeno dell’Insorgenza, letto nel contesto dei mutamenti economici e sociali in atto in varie parti del regno, dei violenti conflitti municipali provocati dal mutare delle gerarchie tradizionali e dello scontro culturale fra due realtà molto differenti (18).
Nel complesso, però, la matrice religiosa degli avvenimenti risulta sbiadita e la resistenza armata di interi popoli, che si batterono in difesa della loro fede e delle loro tradizioni – soprattutto dove si era conservata l’organica compattezza della nazione cristiana – è ancora oggi ignorata da molti o ricordata con disprezzo: «[…] tutto questo che è dignità, fierezza, spirito di sacrificio – scrive lo storico Niccolò Rodolico (1873-1969), autore di orientamento liberale «nazionale» – è stato considerato, specialmente per l’Italia meridionale, fanatismo e brigantaggio» (19).
2. Gli antefatti
2.1 Fermenti rivoluzionari
La costituzione di un regno napoletano indipendente, nel 1734, con don Carlos di Borbone (1716-1788), favorisce lo sviluppo economico, sociale e artistico del paese, ma dà inizio anche a progressive tensioni con la Chiesa, a causa della violenta politica anticuriale della corte, culminata con la stipulazione di un nuovo Concordato, la soppressione del Sant’Officio e l’abolizione dell’omaggio della «chinea», un cavallo bianco, simbolo della soggezione feudale del reame alla Santa Sede. L’ispiratore di questa politica, che apre la strada alla laicizzazione dello Stato e alla secolarizzazione della società, è il ministro Bernardo Tanucci (1698-1783), affiancato da uomini di governo e da intellettuali illuministi. Questi, però, «[…] sprovvisti di sufficienti nozioni teologiche sull’intima struttura della società ecclesiastica, non seppero rinvenire un fondamento assoluto alle aspirazioni della Chiesa, né distinguere il diritto dal privilegio, che, essendo un prodotto dei tempi, può e deve essere abrogato col mutare delle circostanze» (20).
Non è facile identificare le fasi determinanti della rottura fra cultura religiosa e cultura laica, ma un momento importante nel graduale distacco pratico dalla Chiesa di molti «cavalieri» ed esponenti del ceto medio è la soppressione della Compagnia di Gesù: «E’ indubbio – scrive Romeo De Maio – che alla caduta dei gesuiti seguirono in Napoli l’espansione del deismo, collegato alla rinascita della massoneria (dopo ch’era stata soppressa nel ’54), al regalismo anticlericale, e al visibile decadimento di istituzioni tradizionalmente serie come il Collegio dei nobili e le congregazioni ascetico-caritative per ceti aristocratici e borghesi; si poté anche rilevare la notevole riduzione o l’involuzione qualitativa della letteratura spirituale, specialmente per il clero» (21). Da quel momento i giansenisti e gli illuministi napoletani hanno piena libertà di azione, innanzitutto contro i gesuiti: «I giansenisti e tutti i novatori – nota sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) – li vogliono tolti dal mondo, per togliere un baluardo alla Chiesa. Mancando i gesuiti, non così facilmente si ritrova chi si oppone ai loro errori. I gesuiti hanno franca la penna; e la Compagnia si fa gloria di combattere tali nemici. […] Essi [i giansenisti] non hanno in mira la sola Compagnia, ma colla Compagnia la Chiesa e lo Stato» (22).
Anche l’adozione di leggi restrittive nei confronti del clero regolare ha gravi ripercussioni: i religiosi, soprattutto i francescani, si riducono di numero e decadono visibilmente gli ordini, gettati nell’agitazione e nello scompiglio. Le conseguenze negative di quei rivolgimenti sono sottolineate anche dalla storiografia d’ispirazione marxista: «[…] l’esistenza di numerosissimi conventi aveva dato vita ad una fitta rete di opere di carità […]. E’ ovvio, pertanto – osserva Gaetano Cingari -, che la soppressione dei conventi contribuì ad acuire l’esasperazione del popolo, che si vedeva sottrarre queste antiche e non certo inutili istituzioni» (23). «Era pur sempre il clero – regolare e secolare – che tradizionalmente forniva il personale per tutti i possibili servizi, per la sanità, per l’assistenza e per l’istruzione. Tutti questi servizi – scrive Augusto Placanica – erano rimasti del tutto privi di personale proprio nel momento in cui se ne auspicava il potenziamento» (24).
Alla chiusura dei principali centri di cultura religiosa e alla soppressione di molte congregazioni laicali seguono altri due avvenimenti di grande portata per la diffusione dell’ideologia rivoluzionaria: la riforma dell’università, a danno delle scienze ecclesiastiche, e l’espansione delle logge massoniche. La massoneria diffonde nel clero una concezione nuova dei suoi compiti e dei suoi fini e in certe formulazioni s’identifica con la stessa religione cristiana, assunta al ruolo di super-religione, prescindendo dai dogmi e al di sopra della gerarchia ecclesiastica (25). Gli agenti segreti della Repubblica Francese trovano un mezzo efficace per la diffusione del giacobinismo proprio nelle logge massoniche, che si andavano trasformando in focolai rivoluzionari, subendo anche l’influenza del filone dell’egualitarismo comunista. Dietro i così detti club si svolge un’attività cospirativa che ha come obbiettivo finale «l’occupazione per assalto del palazzo reale e delle sedi del governo, e la fisica soppressione dei governanti; la conquista del “castello” ed i cannoni puntati sulla città; la rivolta del popolo ovvero se il popolo non insorga la coazione ad obbedire» (26).
La nobiltà risente più di ogni altro ceto della ventata sovvertitrice e i suoi rappresentanti sono gradualmente irretiti da uno spirito di dissolutezza e di miscredenza. I baroni si riducono a cortigiani e a semplici proprietari terrieri, decorati di titoli pomposi e sempre meno significativi, desiderosi soltanto di mantenere intatti i propri privilegi senza fornire alla comunità un corrispettivo di servizi. Per di più, sollecitano l’abolizione di quei vincoli feudali, indispensabili all’economia contadina, che rappresentano per il signore un insieme di consuetudini e di contratti poco remunerativi, collaborando di fatto con gli illuministi, che combattevano contro le ultime vestigia politiche ed economiche del feudalesimo. Soltanto per contingenti ragioni polemiche la letteratura antifeudale settecentesca e ottocentesca ha messo l’accento sull’oppressione baronale, descrivendo a fosche tinte il sistema feudale e generalizzando situazioni che spesso costituivano soltanto eccezioni (27).
Dallo sfaldamento dell’antico sistema trae vantaggio un nuovo ceto, definito genericamente «borghese», composto in prevalenza da avvocati, negozianti e professionisti, anch’essi reclamanti, in nome dell’idea illuministica di una proprietà libera da ogni vincolo, l’abolizione di quelle consuetudini – le terre aperte, gli usi civici, i tenui canoni colonici e di affitto, il favore accordato alla piccola conduzione e proprietà – che assicuravano alle popolazioni rurali i complementi necessari alle loro piccole economie. Proprio nel periodo di transizione dalla vecchia economia alla nuova le condizioni di vita peggiorano radicalmente. Su ciò concordano sia gli studiosi liberali, come Giuseppe Galasso – secondo cui «[…] questa modernizzazione significava anche un peggioramento oggettivo per le centinaia di migliaia di piccole economie contadine, esposte al rischio di non trovare più i punti di riferimento tradizionali per esse nel sistema feudale» (28) -, sia quelli marxisti, come Augusto Placanica, il quale scrive che il piccolo appezzamento contadino «[…] è respinto alla soglia di sussistenza dai fenomeni economico-giuridici tipici di quegli anni» (29).
I nuovi arrivati fanno incetta di terre – grazie soprattutto all’usura, all’incameramento dei beni ecclesiastici e alle usurpazioni di beni comunali e demaniali – e portano con sé la durezza e la fiscalità proprie del capitalismo liberale. Ancora più grave è la rottura del contatto esistenziale, della omogeneità culturale e della solidarietà fra signori e contadini, che erano state le caratteristiche fondanti dell’Antico Regime.
La reazione popolare sul finire del secolo, perciò, non è antifeudale e neppure antiaristocratica – se non dove la nobiltà era venuta meno alla sua funzione di mediazione e di comando -, ma rivolta contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese.
Re Ferdinando IV cerca di conciliare inizialmente, con una politica di lente e misurate trasformazioni, le spinte rivoluzionarie, che vengono dai ceti in ascesa e dal mondo della cultura, con il desiderio di non infrangere equilibri tradizionali. I sanguinosi avvenimenti della Rivoluzione francese e la scoperta nel regno di un vero e proprio complotto giacobino contro la monarchia gli fanno tuttavia comprendere che i riformisti attentano, di fatto, ai poteri della regalità, mettendone in discussione il carattere sacrale, e hanno come meta finale il rovesciamento delle legittime istituzioni. Il re fa bruscamente marcia indietro, rinsalda i vincoli con il Pontefice, Pio VI (1775-1799), e invita i principi italiani a fare lega contro la Rivoluzione.
2.2 Fermenti contro-rivoluzionari
Preparatore remoto ma profondo della resistenza contro-rivoluzionaria è sant’Alfonso Maria de’ Liguori, «il più intelligente restauratore religioso del Settecento» (30), che presta la sua energica mano alla Chiesa, travagliata da attacchi esterni e interni, e si prodiga per migliorare le condizioni spirituali e le sorti materiali del popolo.
Nato a Marianella di Napoli il 27 settembre 1696 e avviato alla professione di avvocato, abbandona l’attività forense nel 1723 e abbraccia lo stato sacerdotale. Il suo carattere pratico l’orienta verso i problemi più immediati della vita del credente, scossi nella fede e nelle certezze tradizionali dai nuovi movimenti culturali e religiosi, soprattutto l’illuminismo, che minava dalle fondamenta la fede cristiana, e il giansenismo, sostenitore di una dottrina della grazia che, invece di alimentare la fiducia e di animare la speranza, portava alla disperazione o, per contrasto, al disimpegno. Si tratta di argomenti cui dedica la Breve dissertazione contro gli errori dei moderni increduli, del 1756, e Verità della fede contro i materialisti e deisti, del 1767. Come socio delle Apostoliche Missioni percorre i paesi vesuviani, gli Appennini e le Puglie, annunciando con semplicità le verità eterne. Nel 1732, desiderando evangelizzare più efficacemente le popolazioni del Mezzogiorno, specie le più abbandonate e sprovviste di aiuti spirituali, fonda a Scala, piccolo paese sopra Amalfi, la Congregazione del Santissimo Salvatore, poi denominata del Santissimo Redentore. Incontra subito l’ostilità del Cappellano Maggiore del regno, Celestino Galiani (1681-1753), del ministro Tanucci e di altri uomini di governo, che non volevano sentir parlare di nuovi ordini religiosi proprio mentre pensavano di sopprimere quelli esistenti, ma, nel 1749, ottiene il riconoscimento da Papa Benedetto XIV (1740-1758).
Grande amico del popolo, al quale insegna che tutti sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato, sant’Alfonso si circonda di ecclesiastici e di laici di ogni ceto, sesso ed età, ovunque organizzandoli in associazioni. Infatti, profondo conoscitore dei cuori e delle esigenze delle diverse realtà sociali, vuole un’assistenza materiale e spirituale adeguata alla particolare natura di ognuna di esse. Si dedica in modo particolare ai ceti più umili, compiendo innumerevoli missioni nelle campagne e nei paesi rurali e prodigandosi in un intenso apostolato nei quartieri più poveri di Napoli, dove organizza, fin dal 1727, le Cappelle Serotine, frequentate assiduamente da artigiani e da lazzari, che si radunavano la sera, dopo il lavoro, per due ore di preghiera e di catechismo. L’opera ha rapida diffusione e diventa una scuola di educazione civile e religiosa. Sant’Alfonso si rivolge al popolo con i mezzi pastorali più idonei e più efficaci, rinnovando la predicazione nei metodi e nei contenuti, e collegandola con un’arte oratoria semplice e immediata. Il dialetto, che egli usa spesso nel contatto con i più umili, non è soltanto veicolo di trasmissione del messaggio evangelico, ma diventa strumento di raffinata poesia, che pone il santo nella schiera dei grandi poeti napoletani.
La scelta «preferenziale» per i poveri non significa trascurare la parte più abbiente della popolazione, dal momento che «ultimo» è chiunque si trova in pericolo di perdersi o per povertà materiale o per povertà spirituale e intellettuale. Sant’Alfonso, individuando nella missione verso i poveri e i dotti la necessità del momento, rivolge un’attenzione particolare anche ai nobili e agli intellettuali, perché la Chiesa, assorbita sul versante culturale dal confronto con il giurisdizionalismo e su quello pastorale dalla catechesi popolare, aveva lasciato tali ceti impreparati di fronte alla diffusione delle nuove ideologie.
Nel 1762, a sessantasei anni, pur conservando la carica di rettore maggiore della Congregazione, viene nominato vescovo della diocesi di Sant’Agata dei Goti, nel Beneventano. Nel nuovo compito pastorale sviluppa un’attività che ha quasi dell’incredibile, nella duplice direzione del ministero diretto – avviando una riforma spirituale del clero nei tre settori fondamentali della vocazione, del ministero e della preghiera – e dell’apostolato della penna. La sua imponente produzione letteraria giunge a comprendere ben centoundici titoli e abbraccia i tre grandi campi della fede, della morale e della vita spirituale. Fra le opere ascetiche, in ordine cronologico, si possono ricordare le Visite al SS. Sacramento e a Maria SS., del 1745, Le glorie di Maria, del 1750, Apparecchio alla morte, del 1758, Del gran mezzo della preghiera, del 1759, e la Pratica di amar Gesù Cristo, del 1768, il suo capolavoro spirituale e il compendio del suo pensiero. I suoi scritti, in cui la semplicità dell’esposizione si unisce a una sapienza profonda, saranno tradotti in oltre settanta lingue e avranno circa diciassettemila edizioni. Nel 1775, fiaccato da molte sofferenze fisiche e spirituali, sant’Alfonso lascia la diocesi e si ritira a Pagani, nel Salernitano, in una casa del suo istituto religioso, dove rimane fino alla morte, avvenuta il 1° agosto 1787. Il processo di beatificazione ha inizio già nove mesi dopo e si conclude nel 1839 con la canonizzazione da parte di Papa Gregorio XVI (1832-1846). Papa Pio IX (1846-1878) lo proclama dottore della Chiesa nel 1871 e Papa Pio XII (1939-1958) lo assegna come celeste patrono a tutti i confessori e ai moralisti nel 1950.
Nel 1871, in occasione della sua proclamazione a dottore universale, fu detto giustamente che tutti gli errori condannati dal Sillabo nel 1864 – deismo, materialismo, liberalismo, comunismo, società segrete – trovano una condanna e una confutazione anticipata nei suoi scritti. In particolare, d’immensa portata pastorale è la polemica sul giansenismo, poiché investiva la prassi sacramentale e la concezione stessa della divinità, della redenzione, della salvezza e della Chiesa. Sant’Alfonso è turbato dall’invasione di quella corrente devastante e opera con alacrità per conservare integra nel popolo la fede in genere e, in specie, la devozione a Maria, e in campo strettamente dogmatico elabora una dottrina della grazia imperniata sulla preghiera, che restituirà alle anime il respiro della fiducia e l’ottimismo della salvezza. Così, «[…] nei lunghi anni di lutto per il suo popolo, sul quale incombeva la minaccia di venire defraudato della figura della Madre divina, egli creò il capolavoro della dottrina e del culto di Maria, l’opera “Glorie di Maria”, pegno di una poderosa vittoria del vero amore cattolico per la Vergine» (31). Grazie ai suoi scritti la consuetudine della meditazione diventa molto comune e si radica in tutti i ceti una cristiana sapienza, aneddotica e sentenziosa, frutto dell’assimilazione delle massime eterne e dei diari spirituali. Le Visite al SS. Sacramento hanno larghissima diffusione, sicché si può affermare che «[…] il risveglio eucaristico europeo lungo la seconda metà del secolo XVIII e tutto il XIX è dovuto a questo libretto, vero codice della pietà alfonsiana, e della più schietta religiosità cattolica» (32). Dal moto alfonsiano – che si intreccia ai primi del secolo XIX con la nuova fioritura delle pratiche religiose di spirito ignaziano, soprattutto grazie all’opera del gesuita Nikolaus Albert von Diessbach (1732-1798) e del venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830) – nasce una pietà solidissima, che costituisce il principale alimento spirituale delle famiglie cattoliche per tutto l’Ottocento e oltre, specialmente nei centri rurali.
Il suo probabilismo – che si opponeva sia al rigorismo giansenista, influenzato dal protestantesimo puritano, sia a un certo lassismo volgare, sorto come reazione eccessiva al rigorismo – costituisce la più sicura garanzia contro i sogni utopistici e ricorda, in opposizione a quanti pensano che il progresso storico porterebbe alla graduale estinzione del male, che la perfezione non è di questo mondo. Se si considera che, fra tutti i dottori della Chiesa, sant’Alfonso è stato definito «il più letto» (33) dai comuni fedeli, che la maggioranza del clero – in Italia come in Francia – ne adottò le massime nella pratica quotidiana del confessionale e che egli, per oltre un secolo, ha rappresentato la massima autorità riconosciuta nel mondo cattolico nel campo della teologia morale, si comprende il ruolo decisivo che questa figura ha avuto nel radicare un sano realismo di fronte a tutte le utopie e nel riformulare l’ethos italiano di fronte alla sfida della modernità.
Uomo di ampia e raffinata cultura umanistica e giuridica, oltre che teologica e filosofica, laico fervente, sacerdote dedito alla rieducazione religiosa, morale e civile del popolo napoletano, missionario, fondatore di una congregazione religiosa, vescovo zelante, scrittore fecondo di opere teologiche e ascetiche, pittore, poeta, musicista, egli è senza dubbio un grande protagonista della storia della Chiesa e della storia tout court. Nel Mezzogiorno porta a termine uno straordinario lavoro di animazione civile e culturale, dotando la Chiesa e la società di numerosi e solidi presìdi, che sarebbero stati lievito della reazione della Santa Fede, «preparata» dal santo napoletano «nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort [1673-1716] preparò la Vandea» (34).
3. La Rivoluzione
3.1 L’aggressione militare
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori muore nel 1787. La Rivoluzione francese scoppia due anni dopo ed è presto esportata militarmente in Europa, suscitando ovunque aspre reazioni.
Luigi Blanch (1784-1872), di parte moderata, forse il più acuto degli storici napoletani della prima metà del secolo XIX, descrive l’impatto delle idee sovversive sugli abitanti del Regno di Napoli, soprattutto i popolani, che, quando conobbero «[…] la morte del re e le persecuzioni alla religione e ai suoi ministri, acquistarono una profonda antipatia, che si poteva senza esagerazione denominare odio, per le nuove massime e pei suoi partigiani» (35). Agiva in loro un sentimento di nazionalità che «[…] rappresentava il proprio modo di essere, le abitudini, i costumi e le credenze. Conservarle era indipendenza e libertà, perderle schiavitù. […] Perciò l’invasione dei Francesi della rivoluzione dava al governo un appoggio che esso non avrebbe trovato forse contro i Francesi di Luigi XVI né contro gli Austriaci o gli Spagnuoli, che avessero invaso il regno e cambiato la dinastia» (36).
Quando, nel novembre del 1798, dopo aver conquistato Roma e lo Stato Pontificio, l’esercito rivoluzionario invade il Regno di Napoli, la «[…] monarchia napoletana – ammette Croce -, senza che se lo aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede”» (37).
Stimolati dal sentimento religioso e nazionale, gli abruzzesi sono i primi a levarsi compatti contro l’aggressore. Basta che le campane suonino a stormo perché i montanari, convocati a parlamento, prendano le armi e ogni villaggio si trasformi in un centro d’insurrezione. I nemici provano a spezzare tutte le campane, ma la mobilitazione contro di essi continua al suono dei grandi corni da pastore. La resistenza è vivificata dal proclama che re Ferdinando IV aveva rivolto «ai suoi fedeli, bravi ed amati popoli degli Abruzzi» (38) in occasione della festa dell’Immacolata Concezione, l’8 dicembre 1798, invitandoli a difendere quello che avevano di più caro: «[…] la Religione, l’onore delle vostre mogli delle vostre figlie e delle vostre sorelle, la vostra vita e la vostra roba. […] Accorrete con tutte le vostre armi. Invocate Dio, combattete e siete certi di vincere!» (39).
Teramo è la prima città del Regno di Napoli dove viene innalzato l’albero della libertà, è la prima a subire le requisizioni e le violenze di una rapace e feroce soldatesca, ed è anche la prima a essere «realizzata», cioè restituita all’autorità regia, dalle «masse» degli insorgenti, guidati negli Abruzzi da Giuseppe Costantini, detto «Sciabolone» (1758-1808), e da Giuseppe Pronio (1760-1804). Questa resistenza si collega, e in parte ne è la continuazione, a quella condotta nel dipartimento pontificio del Tronto da parte dei contadini marchigiani. Analogamente, dal Circeo – dove la Madonna della Vittoria era stata invocata come liberatrice dall’aggressore e la cui immagine era stata dipinta sui vessilli degli insorgenti – la scintilla si propaga a Terracina e quindi alla Terra di Lavoro – fra le odierne province di Latina, Frosinone e Caserta -, dove al posto dell’albero della libertà viene innalzata la Croce. La scarsa propensione delle «masse» ad allontanarsi dal proprio villaggio e dal proprio territorio è una caratteristica iniziale di queste sollevazioni, destinate a esaurirsi non appena veniva restaurato formalmente l’ordine e, dunque, esposte più facilmente alla rappresaglia del nemico. Il governo borbonico ha, comunque, un ruolo importante nell’acquisizione, da parte delle insorgenze, di un carattere esteso e uniforme, che le avrebbe differenziate dalle sporadiche e locali reazioni che si manifestavano nella penisola contro i rivoluzionari francesi e i collaborazionisti giacobini.
Questi reagiscono con ferocia: Alatri, Narni, Sezze, Ferentino e Anagni nello Stato Pontificio; L’Aquila, Popoli, Petina, Pratola, Fondi, Sessa, Cassino, Itri, San Germano e Isernia nel Regno di Napoli sono messi a ferro e a fuoco e i paesani vengono passati per le armi. «Crudeli, spietati, inumani, non ammettono i francesi che alcuno possa opporsi alla loro avanzata verso Napoli. Chi osa impugnare le armi in difesa del proprio paese è un brigante e, come tale, non merita il perdono» (40). E’ emblematico l’esempio di Isernia, dove vengono massacrati circa millecinquecento abitanti, rei di aver resistito ai rivoluzionari. Analoga sorte subiscono i paesi disseminati sui monti Aurunci, in Terra di Lavoro, dove la resistenza sarà guidata da un capobanda di notevole talento, Michele Pezza (1771-1806), che sarebbe passato alla storia e alla leggenda con il soprannome di fra Diavolo (41). Ma più che le stragi restano nella memoria popolare i sacrilegi, il comportamento empio e le espressioni blasfeme con cui la truppa occupante mostrava i risultati di dieci anni di rivoluzione in Francia. Tale violenza non scoraggia la resistenza e presto le deboli autorità rivoluzionarie imposte nelle città dall’esercito invasore sono rovesciate da artigiani e da contadini uniti.
Il modificarsi della situazione e le sue potenzialità favorevoli non sono colte a Napoli, dove la corte sembra paralizzata dalla paura di essere presa in trappola dentro la capitale e non scorge il carattere lealistico delle manifestazioni con cui il popolo, furente per la sconfitta militare, chiede al re di restare nella capitale per difenderla dai francesi. Invece, il 21 dicembre 1798, il sovrano lascia la città per rifugiarsi a Palermo, nominando vicario generale del regno il generale Francesco Pignatelli (1734-1812), conte di Acerra e marchese di Laino. La base morale dell’autorità del vicario è assai debole: il disfacimento dell’esercito, guidato dall’inetto generale austriaco Carl Mack von Leiberich (1752-1828), lo priva della forza per imporsi, mentre la partenza del sovrano lede il prestigio della monarchia presso la nobiltà malcontenta e presso il ceto medio, schierato su posizioni neutrali.
Al vicario si oppone anche la magistratura cittadina, detta Corpo di Città o più semplicemente Città, che rappresenta al tempo stesso la municipalità di Napoli e l’intero reame ed è depositaria dei privilegi della nazione. Sulla base del diritto tradizionale il giovane principe di Canosa, elemento di spicco della nobiltà, rivendica alla Città il diritto e il dovere di rappresentare la nazione in assenza del re, come era già accaduto altre volte nel passato (42). Il vicario – il quale incarnava le tendenze assolutistiche, che miravano a rompere il rapporto organico fra monarca e società a svantaggio della seconda, ridotta così a una indifferenziata massa di sudditi – si oppone alle richieste avanzate dal Corpo di Città e avvia trattative con i francesi. Seguono il vergognoso armistizio di Sparanise, presso Caserta, il 12 gennaio 1799, la resa di Capua, le successive violazioni, la fuga dell’imbelle vicario e la ripresa dell’offensiva francese.
I napoletani, allarmati, fanno rifornimento di armi e s’impadroniscono dei castelli della città perché non vengano consegnati al nemico. «E sul principio – scrive lo storico tedesco, barone Joseph Alexander von Helfert (1820-1910) – la cosa andò bene. La gente faceva chiasso per le strade, tirava fucilate in aria, si compiaceva di fare pompa delle armi carpite, ma senza recar danno a nessuno; giravano per la strada pattuglie di lazzaroni, che avevano un contegno tranquillo e conveniente» (43). Il controllo della situazione da parte della popolazione, in particolare dei lazzari, è denominato «anarchia», ma si tratta inizialmente di una condizione pacifica, che avrebbe potuto essere trasformata in un ordine composto se qualcuno, dotato di autorità e di capacità, si fosse posto a capo di quanti chiedevano di essere organizzati e guidati. La rarità di figure autorevoli e consapevoli di quanto stava avvenendo conferma il successo della rivoluzione culturale che precede ogni rivoluzione nei fatti.
Gerolamo Pignatelli, principe di Moliterno (1774-1848), eroe della guerra del 1796 contro i francesi, e il generale Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana (1771-1836), sono acclamati «generali del popolo», ma passano quasi subito nel campo avverso, occupando insieme ai giacobini il castello di Sant’Elmo, da cui si domina l’intero abitato di Napoli. I lazzari scelgono allora capi provenienti dalle loro file e si uniscono a circa quattromila soldati, dispersi dalla viltà dei comandanti ma ancora desiderosi di battersi, mentre i giacobini, le cui schiere erano state rinsanguate dalla liberazione dei detenuti politici, cannoneggiano dall’alto i concittadini che difendevano la capitale.
I popolani mostrano una notevole capacità organizzativa, grazie anche a momenti di coordinamento che fanno riferimento a forme di organizzazione interne alla società bassa di Napoli nonché alle strutture corporative e ad altre forme di aggregazione religiosa dei laici. I francesi devono impegnarsi a fondo per domare la resistenza e soltanto dopo tre sanguinose giornate il generale Jean-Etiénne Championnet (1762-1800) può annunciare la vittoria al Direttorio, elogiando il comportamento valoroso dei napoletani: «[…] nessun combattimento fu mai così ostinato, nessun quadro così orribile. I lazzaroni, questi uomini meravigliosi, quei reggimenti stranieri e napoletani scampati dall’esercito, che era fuggito innanzi a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il terreno è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il forte di Sant’Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano in ordine, tornano alla carica» (44).
3.2 La nascita della Repubblica
Il 21 gennaio 1799, mentre ancora si combatteva per le vie della capitale, in Sant’Elmo viene proclamata la Repubblica Napoletana. Due giorni dopo, Championnet costituisce un governo provvisorio e ne affida la presidenza a Carlo Lauberg (1752-1834), ex frate scolopio e massone, che negli anni 1790 aveva fatto della sua accademia di chimica un centro di diffusione delle idee rivoluzionarie e di cospirazione politica. Il generale nomina pure i membri del governo, che esercitano sia il potere esecutivo sia quello legislativo, anche se tutta l’attività statale si svolge sotto il vigile controllo del comandante dell’armata francese, la cui sanzione è richiesta per rendere esecutivo qualsiasi provvedimento. Segretario generale del governo è inizialmente Marc-Antoine Jullien de la Drôme (1775-1848), commissario di guerra dell’esercito rivoluzionario, mentre ministri delle finanze e della guerra sono rispettivamente i francesi Jean Bassal (1752-1802) e Jacques-Philippe Arcambal (1765-1843). «Più che di repubblica – secondo Valentino Sani -, sarebbe dunque lecito parlare di governo di occupazione militare a tutti gli effetti» (45). Ancora più severo è lo storico francese Jean-Louis Harouel, che definisce le «repubbliche sorelle», cioè le repubbliche giacobine create dai francesi nei paesi occupati, come «copertura di Stati satelliti, dominati politicamente e militarmente, e sfruttati economicamente» (46) dalla Francia rivoluzionaria, allo stesso modo «degli Stati satelliti delle democrazie popolari, dominati e sfruttati per circa mezzo secolo» (47) dall’Unione Sovietica.
Un secondo governo sarà costituito il 14 aprile dal commissario organizzativo André-Joseph Abrial (1750-1828), che istituisce un Comitato esecutivo, di cui sarà presidente il professore di diritto Ercole D’Agnese (1745-1799), e una Commissione legislativa, presieduta prima dal giurista Mario Pagano (1748-1799) e poi dallo scienziato Domenico Cirillo (1739-1799).
Secondo Anna Maria Rao «[…] appare difficile continuare a parlare di un astratto e generico “ceto intellettuale” che avrebbe fatto la rivoluzione a Napoli» (48). In effetti, aderiscono alla repubblica intellettuali illuministi, chierici e prelati di simpatie giansenistiche o legati all’antica tradizione giurisdizionalistica del regno, non pochi nobili – appartenenti soprattutto a famiglie che portarono «sempre avversione ai re Borboni, e al loro antifeudalismo, e alle loro tendenze livellatrici» (49) -, rappresentanti del foro e delle professioni, provenienti in buona parte da circoli massonici o portatori di interessi che si andavano affermando in quei decenni. Presso questi ceti la rottura generazionale sarà uno degli elementi fondamentali del processo di sviluppo dello spirito rivoluzionario, come è stato evidenziato da Galasso, secondo cui «[…] l’irruzione giovanile sulla scena politica in quegli anni di sviluppi drammatici e originali inaugura anche a Napoli la connessione fra “giovinezza” e “rivoluzione” che sarà poi una costante dell’epoca contemporanea» (50) e «[…] l’appassionamento giovanile alla politica nella Napoli alla fine del secolo XVIII si espresse anch’esso nella rottura con la monarchia. Per la prima volta la sacralità del trono fu l’oggetto di un violento e pregiudiziale rifiuto giovanile; e quella sacralità, rotta allora, non si sarebbe mai più del tutto ricomposta» (51).
Il popolo, invece, dopo la sconfitta rifluisce in un atteggiamento di attesa, mantenendo sempre desta la fronda antifrancese, nonostante il repentino voltafaccia di alcuni suoi capi, come Michele Marino (1753-1799) e Francesco Antonio Avella, detto «Pagliucchella» (1771-1799), attirati dalle lusinghe dell’abile generale Championnet. La «plebe» – annota il diarista Carlo de Nicola, testimone degli eventi – «[…] continua ad essere avversa, e si tiene a freno pel timore non già per amore» (52); prende parte alle manifestazioni della repubblica solo «[…] un tal Michele detto il Pazzo, che fa da capo popolo, ma è malveduto dai suoi stessi popolari compagni» (53). Il 9 maggio, la letterata Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), animatrice del giornale repubblicano Il Monitore Napolitano, osserva: «Il Popolo Napolitano, il quale allorchè insorse alla resistenza, se mostrò accecamento di ragione, svelò insieme un vigor di carattere, che ignoravano in lui gli stessi suoi connazionali, serbava tuttavia nell’animo pel nuovo sistema quel non so che di acerbezza, che è figlia del dolore della sconfitta» (54). Il marinaio di Santa Lucia, fucilato per aver gridato «Viva il re!» davanti ai soldati francesi che gli ingiungevano di inneggiare alla «Libertà», bene impersona il popolo genuino, che non si piegava alla Rivoluzione. «Non ostante i tentativi fatti […] per conquistarlo alle nuove idee, e non ostante qualche sua fugace favorevole manifestazione nella capitale, esso fu e si conservò sempre decisamente avverso. […] così nella sua grande maggioranza il popolo napoletano restò fedele al re lontano e ne auspicò il ritorno» (55).
3.3 La «democratizzazione» forzata
«L’Uguaglianza e la Libertà sono le basi della nuova Repubblica» (56), annuncia il nuovo governo, ma poiché alcuni sono più uguali degli altri viene altresì disposto: «Gli uomini generosi, che avranno preceduto i loro concittadini nella carriera gloriosa della Libertà saranno i primi chiamati a sostenere i diritti del popolo, ed a servire la patria nella rappresentazione e ne’ tribunali, negl’impieghi civili e militari; dovendo la Repubblica esser riconoscente verso i Repubblicani» (57). L’instaurazione del nuovo regime dovrebbe coincidere con l’avvento di una nuova era, caratterizzata dal superamento delle secolari tradizioni del regno, perché per essere buon patriota «[…] bisogna essere ancora nemico irreconciliabile del passato» (58). Pertanto, viene introdotta una nuova monetazione e si propone di cambiare il nome delle strade, trasformando radicalmente la toponomastica e adeguandola ai canoni della virtù repubblicana e dell’amore per la patria. Il territorio della Repubblica viene diviso in dipartimenti e in cantoni che sconvolgono la ripartizione amministrativa esistente, tanto da indurre i governanti a ritirare il provvedimento e da suscitare il biasimo anche di Pietro Colletta: «[…] scambiati i nomi, creduto città un monte e fatto capo di cantone, il territorio di una comunità spartito in due cantoni, certi fiumi addoppiati, scordate certe terre; insomma, tanti errori che si restò all’antico; e solo effetto della legge fu il mal credito de’ legislatori» (59). Inoltre, viene introdotto il Decadario, cioè il calendario rivoluzionario francese, che sostituiva la decade alla settimana e mutava i nomi dei mesi e dei giorni: «La nuova scansione temporale, volendo sovvertire ritmi secolari, è il segnale reale dell’utopia: un nuovo tempo è la metafora della palingenesi che si fa concreta, coinvolgendo ogni sfera dell’attività quotidiana» (60). Infine, viene rimosso sistematicamente ogni emblema regio e ogni simbolo «feudale», assegnando a questa furia iconoclastica – che porta alla distruzione incontrollata di monumenti storici – un significato esemplare e pedagogico nei confronti del popolo: «[…] la monarchia e la feudalità, i pilastri cioè dell’abbattuto regime politico, debbono perdere il carattere di sacralità e di immutabilità cristallizzato e pietrificato in un passato da cancellare; è il momento fondativo della repubblica a giustificare una capillare distruzione, anche di oggetti di proprietà di “particolari”, di private famiglie» (61).
Per ottenere il consenso popolare sono istituite numerose feste civiche, prima fra tutte quella dell’albero della libertà, caratterizzata dal «piantamento» di un albero adornato di nastri e della bandiera repubblicana e sormontato dal berretto frigio, cui generalmente fanno seguito la lettura pubblica dei proclami governativi, il rogo delle bandiere reali e un Te Deum di ringraziamento. Le feste proseguiranno anche negli ultimi giorni della Repubblica: «Si crederebbe? – annota Carlo de Nicola l’1 giugno – mentre si annunziano tali feste, e si fa illuminazione, Napoli è stretta dagl’insorgenti, è vicina ad una rivoluzione, e se non altro, ad essere affamata» (62). E il 2 giugno: «Ieri sera entrando alcuni soldati che fuggivano dagl’insorgenti, domandarono se quella illuminazione facevasi per le mazzate che avevano ricevute, o per la loro fuga» (63).
Il 5 febbraio, Eleonora Fonseca Pimentel sprona il governo «[…] a stabilire delle missioni civiche, siccome ve n’erano prima delle semplicemente religiose; ed invitiamo il gran numero de’ nostri non men dotti, che civici, e zelanti ecclesiastici, i quali han già la pratica della persuasiva popolare, a prestarsi a quest’opera anche senza l’ordine, ed invito del Governo» (64). Questa sollecitazione probabilmente è poco ascoltata, perché il 12 e il 15 marzo il ministro dell’Interno, l’abate Francesco Conforti (1743-1799), già teologo di corte, deve rivolgersi ai vescovi e al clero napoletani per invitarli a «illuminare gli ignoranti» (65) sul nuovo governo, chiarendo che esso «[…] è il più conforme alla mente del Vangelo» (66), e accompagna le sue circolari con istruzioni minuziosissime, contenenti quasi la traccia dei discorsi che i sacerdoti avrebbero dovuto tenere. Grande cura è dedicata al linguaggio, «nella consapevolezza, anche, della necessità di usare in politica, a fini divulgativi e propagandistici, categorie culturali e materiali linguistici – quelli religiosi, appunto – noti e rassicuranti» (67). Nello stesso tempo si procede a una svalutazione del linguaggio religioso tradizionale, sostituendo le denominazioni tradizionali con parole e locuzioni dal significato negativo, come denunciato dal Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico, stampato a Venezia nel 1799, secondo cui il termine «superstizione» «[…] dinota ogni culto religioso, ed antonomasticamente la Religione Cattolica Romana» (68), mentre la parola «religione» indica «espressamente in Lingua Democratica l’Ateismo. […] Proteggere la Religione e distruggere la superstizione, in lingua Democratica vuol dire introdurre l’Ateismo e distruggere la Religione» (69). Non mancano ecclesiastici che «[…] tirando dal Vangelo le dottrine di eguaglianza politica, e volgarizzando in dialetto napoletano alcuni motti di Gesù Cristo, incitavano e rafforzavano l’odio a’ re, l’amore a’ liberi governi, l’obbedienza all’autorità del presente» (70). In definitiva, il «[…] ricorso al Vangelo per combattere il sistema monarchico ed affermare quello repubblicano – scrive Renzo De Felice (1929-1996) – non deve trarre in inganno, esso fu comune in quel momento a numerosissimi esponenti democratici nostrani e non significa una reale adesione al cristianesimo, ma fu solo un espediente tattico per convogliare le simpatie popolari verso i nuovi regimi presentandoli come i più conformi alla legge divina» (71).
L’arcivescovo di Napoli, il teatino card. Giuseppe Maria Capece Zurlo (1711-1801), reso debole anche dall’età, non riesce a tenere una condotta coerente e si lascia trascinare dagli eventi. Ai rinnovati ordini del generale Championnet risponde pubblicando una pastorale in favore della Repubblica; tenta di opporsi alla politica del ministro Conforti ma poi, sia che si sorprendesse la sua buona fede sia che effettivamente avesse dato il suo consenso, tace quando vede pubblicata con il suo nome una scomunica contro il cardinale Fabrizio Ruffo, accusato di essersi proclamato Pontefice con il nome di Urbano IX.
Tuttavia, la politica religiosa del nuovo governo non lascia adito a dubbi. Il 14 febbraio, «[…] considerando che un popolo, il quale passa in un tratto dalla schiavitù alla libertà, non possa dirsi compitamente rinato ad uno stato così felice, se istruzioni uniformi di dura morale, e di vero patriottismo non formino ugualmente in tutti gli Individui lo spirito, e ‘l costume publico, vero sostegno delle buone leggi» (72), viene disposta la formazione di una commissione ecclesiastica per sottoporre al controllo governativo l’attività del clero. A Napoli, fra i mesi di marzo e di aprile, vengono requisiti nove conventi, con la motivazione di dover dare alloggio alle truppe. «La verità – commenta de Nicola – è che si vuole togliere […] al publico il commodo spirituale che i medesimi li danno. Perché non pigliarsi le case di Monteoliveto, s.Pietro a Majella e Montevergine, che predicano e non confessano, ed inquietare chi predica, confessa e fa missioni?» (73).
Gli occupanti non fanno niente per attirarsi simpatie. Nelle province fanno strage di innocui monaci, abusano di donne e di religiose, incendiano edifici sacri, fanno scempio delle spoglie dei santi e organizzano mascherate con sacri arredi, mentre i giacobini lasciano spazio a manifestazioni di pubblica irreligiosità che offendevano la coscienza degli abitanti. Scandalosa è per questi la festa svoltasi nel convento napoletano di San Martino in occasione dell’istituzione della repubblica; scandaloso è il modo in cui alcuni frati, gettata la tonaca, si erano sposati «repubblicanamente»; scandalosi sono i proclami e gli opuscoli d’incitamento ai religiosi perché abbandonassero i conventi e dessero «cittadini alla patria» (74).
I francesi, inoltre, tramite il commissario Guillaume Charles Faypoult (1752-1817), chiedono un contributo di quindici milioni di franchi – al cui pagamento collabora il governo provvisorio, imponendo un prestito forzoso agli abitanti di Napoli e dei casali circostanti – e si fanno consegnare preziose opere d’arte conservate nei musei napoletani, così che, se «[…] nei giorni dello scompiglio i Lazzaroni avevano rubato secondo il loro talento, nei giorni dell’ordine rubarono i francesi secondo la legge» (75).
I rivoluzionari si fanno chiamare «patrioti», ma il termine non deve trarre in inganno. Nel Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico viene data di «Patriotta» la seguente definizione: «Significa uomo conveniente alla Patria Repubblicana. Per essere buon Patriotta in tal senso, bisogna essere un uomo a cui non faccia ribrezzo alcuna iniquità. […] Non si può dunque essere un buon Patriotta senza essere un Ateo, un traditore de1 proprio legittimo Sovrano, della vera sua Patria, del proprio Padre, de’ Concittadini, di Dio, della Religione, dei Costumi e sane massime, e con tali prove di Patriottismo uno è poi sicuro delle prime cariche nella Patria Repubblicana» (76).
I «patrioti» si accorgono ben presto di essere estranei alla grandissima parte del popolo, isolati anche dalle cerchie borghesi neutrali e tenuti in pugno dai francesi. Essi, «[…] che, dopo un decennio di segrete elaborazioni, proclamavano la nascita della Repubblica Napoletana, [avevano] calcolato ogni dettaglio tranne quello essenziale: l’interesse della popolazione. Errore inconcepibile per menti finissime ma troppo ingenue» (77).
I giacobini, che credevano alla magica virtù della «Libertà» e veneravano il regime repubblicano come una forma eterna e infallibile, avente quasi carattere religioso, ritengono che basti promulgare certe leggi fondamentali per attuare automaticamente la felicità dei popoli. La legge del 25 gennaio, modificata il 10 febbraio, che abolisce i diritti di primogenitura e i fidecommessi – smantellando così la struttura della famiglia, soprattutto di quella nobiliare, fondata sulla trasmissione integrale dei beni fondiari al primogenito – e il progetto di Costituzione repubblicana, redatto sotto la direzione di Mario Pagano e mai approvato, sono frutto di questa mentalità illuministica. La società è concepita come il risultato di un contratto e dipendente dalla libera volontà degli «individui» così riuniti; da ciò deriva l’idea del popolo sovrano, non più inteso come l’insieme delle famiglie e di altri gruppi sociali, ma come massa amorfa di «cittadini». La Dichiarazione dei Dritti, e Doveri dell’Uomo, del Cittadino, del Popolo, e de’ suoi Rappresentanti, posta a preambolo della Costituzione, ha presente questo uomo astratto e slegato dai suoi rapporti concreti con le diverse società alle quali appartiene: «Il principio de’ doveri civili si è, che la società vien composta dall’aggregato delle volontà individuali. Quindi la volontà generale, o sia la legge deve diriggere le volontà individuali» (78). «Ma – viene precisato – quando diciamo Popolo, intendiamo parlare di quel Popolo, che sia rischiarato ne’ suoi veri interessi, e non già d’una plebe assopita nell’ignoranza, e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica» (79).
«Questa parte del popolo – scrive Fonseca Pimentel, il 9 febbraio -, la quale per fintanto che una migliore istruzione non l’innalzi alla vera dignità di Popolo, bisognerà continuare a chiamar plebe» (80), finché essa «[…] mercè lo stabilimento di una educazione Nazionale non si riduca a pensar come Popolo» (81). Il 7 febbraio sono costituite le così dette sale d’istruzione, allo scopo «[…] di spargere e di propagare i principii della rivoluzione Repubblicana e della morale pubblica» (82). Secondo una disposizione del 17 febbraio anche i teatri dei burattini e i cantastorie devono trattare «soggetti democratici» (83). Inoltre, commissari «democratizzatori», regolarmente patentati da una commissione centrale, sono inviati nei dipartimenti della repubblica «per organizzarvi tutte le autorità costituite e consolidare la rivoluzione» (84), ma incontreranno grandi ostilità: «[…] ciascuno di loro operò secondo il proprio giudizio, generalmente assai scarso, e quale si rese ridicolo per l’ignoranza e per la vacuità dell’enfatico dire, quale distruggendo antichi usi e costumi offese ed eccitò le popolazioni» (85).
Molti commissari non arriveranno neanche a destinazione. I rivoluzionari, infatti, hanno intorno a sé un mare di insorgenze e le loro colonne si muovono sporadicamente dalla capitale verso il resto del paese per taglieggiare e per reprimere. Alla fine si rassegnano a chiudersi nelle piazzeforti, lasciando alla guida delle nuove municipalità gli esponenti della borghesia e qualche nobile, mentre il popolo suscita quasi ovunque un vasto e vigoroso moto realista.
4. La Contro-Rivoluzione
4.1 «In hoc signo vinces»
Il proposito di dare una guida capace e autorevole alla reazione popolare per ricondurre il regno sotto l’autorità legittima era nato quasi subito alla corte di Palermo. Gli Abruzzi sono in rivolta dal dicembre 1798, cioè prima della proclamazione della repubblica, mentre il Molise, l’Irpinia e il Cilento non hanno mai aderito al nuovo regime. In Puglia, nei primi giorni di febbraio, in molte città e comuni viene innalzato l’albero della libertà, ma addirittura a distanza di poche ore gli abitanti insorgono; solo alcune municipalità resistono più a lungo, come quelle di Altamura e di Martina Franca, che si fanno promotrici di una federazione delle città repubblicane contro quelle realiste. A Potenza, il 24 febbraio, viene rovesciata la nuova municipalità ed è ucciso il vescovo giansenista Giovanni Andrea Serrao (1731-1799), che aveva aderito al movimento rivoluzionario. Le Calabrie, dove pure vi sono forti centri rivoluzionari, sembrano disposte a essere riconquistate facilmente, come sosteneva don Biagio Rinaldi, curato di Scalea, che fin dal 13 gennaio aveva scritto al re, dicendosi pronto a liberare il regno con i soli calabresi: «L’anima di quel curato era allora l’anima della Calabria. Si trattava di dargli una guida» (86).
Questa viene trovata in Fabrizio Ruffo dei duchi di Baranello, cardinale dell’ordine dei diaconi, fedele sostenitore della Corona, che non aveva esitato a lasciare Napoli repubblicana per seguire il sovrano in Sicilia. Nato a San Lucido, nella Calabria Citeriore, l’odierna provincia di Cosenza, il 16 settembre 1744 da una famiglia di antica nobiltà, Ruffo viene chiamato a Roma dallo zio, il cardinale Tommaso (1663-1753), decano del Sacro Collegio. Studia presso il Collegio Clementino e all’Università della Sapienza, addottorandosi in diritto civile a ventidue anni; al Clementino è ordinato diacono e tale resterà per tutta la vita. Il suo precettore, mons. Giovanni Angelo Braschi (1717-1799), divenuto Papa con il nome di Pio VI, lo nomina chierico di camera nel 1781 e, appena quarantenne, nel 1785, Tesoriere generale della Camera apostolica, quindi, sei anni dopo, lo crea cardinale. Nel 1794 Ruffo viene chiamato a Napoli, dove non diventa cortigiano del re, ma accetta la nomina a Intendente di Caserta, occupandosi anche delle Manifatture e Industrie di San Leucio, ed è poi investito dal sovrano della cura dell’abbazia di Santa Sofia, a Benevento (87).
L’8 febbraio 1799, soltanto due settimane dopo la conquista francese della capitale, il cardinale sbarca in Calabria – a Pezzo, a poche miglia da Reggio, città che non aveva aderito alla causa repubblicana -, con il titolo di vicario generale del regno e alter ego del sovrano, e con il compito di organizzare la resistenza sul continente. Ha con sé soltanto pochi compagni e una grande bandiera di seta bianca, con lo stemma reale da una parte e una croce dall’altra, su cui stava scritto il famoso motto costantiniano «In hoc signo vinces».
Uomo di molte capacità e amministratore sagace, egli non ha esperienza militare, ma possiede le qualità del condottiero: è risoluto e ponderato, e ha un innato senso del limite e della opportunità. Fin dall’inizio la sua azione è molto energica. In particolare risultano efficaci le lettere e l’enciclica spedite nei paesi vicini, nonché il proclama ai «bravi e coraggiosi Calabresi» con il quale denuncia l’opera dei rivoluzionari «[…] per involarci (se fosse possibile) il dono più prezioso del Cielo, la nostra Santa Religione, per distruggere la divina morale del Vangelo, per depredare le nostre sostanze, per insidiare la pudicizia delle nostre donne» (88), e invita tutti i sudditi a riunirsi «[…] sotto lo stendardo della Santa Croce e del nostro amato Sovrano. Non aspettiamo che il nemico venga a contaminare queste nostre contrade; marciamo ad affrontarlo, a respingerlo, a scacciarlo dal nostro Regno e dall’Italia, ed a rompere le barbare catene del nostro santo Pontefice.
Il vessillo della S. Croce ci assicura una completa vittoria» (89).
Aderiscono inizialmente in ottanta; altri centocinquanta armigeri sopraggiungono nei giorni seguenti da Santa Eufemia, primo nucleo dell’Armata Cristiana e Reale, con la bianca croce della Santa Fede cucita sul lato destro del berretto. La notizia si sparge rapidamente e a Rosarno il cardinale può contare su millecinquecento uomini. A Mileto, il 24 febbraio, costituisce otto compagnie di regolari, il Reggimento di Reali Calabresi, che affianca alle truppe di «massa». Ha ai suoi ordini il più composito assortimento di gente che si possa immaginare: ricchi possidenti, ecclesiastici di ogni ordine e grado, commercianti e artigiani, contadini, armigeri baronali e militi delle disciolte corti di giustizia. Questi ultimi, insieme con alcuni ufficiali e soldati dell’esercito reale, sono i più esperti e disciplinati in mezzo a una moltitudine di uomini tratti sotto le bandiere della Santa Fede dal sentimento del diritto o dalla devozione alla monarchia, ma talvolta dal desiderio di bottino o di vendetta contro nemici personali. Ruffo, soprattutto nella prima fase dell’arruolamento, non può essere severo nella scelta, ma presto la sua mano organizzatrice si fa sentire. Appena sbarcato si preoccupa di far preparare delle divise e di organizzare le truppe secondo criteri che ne riducessero il numero e ne migliorassero la disciplina. Durante l’avanzata concede alleggerimenti fiscali ai contadini e mostra un volto austero di giustizia, confiscando le rendite di quei nobili, fra i quali il fratello Vincenzo (1734-1802), che erano rimasti a Napoli. D’altro canto, è inflessibile nel reprimere gli attacchi alla legittima proprietà e fa fucilare i predatori e i violenti. Si presta a ricevere personalmente tutti coloro che hanno problemi e controversie da risolvere, «[…] onde le popolazioni tutte del Regno fossero servite nel miglior modo che si dovea e poteano permetterlo le circostanze del tempo» (90).
I liberatori sono accolti con processioni, canti e spari festosi. «I1 procedere dell’armata cristiana, fra i canti che sonavano in mezzo alle file, fra i concerti di cornamuse, zampogne, chitarre e viole, che li accompagnavano, fra le danze che alcuni mossi da quelle gioconde arie intessevano, rendeva immagine di un lieto corteggio festivo» (91). Questo carattere «gioioso» della guerra popolare non impedisce che essa sia condotta secondo i classici ed energici canoni della guerriglia contadina, mentre l’andamento cronicamente localistico delle insorgenze rallenta la marcia dell’Armata, molto più della blanda resistenza offerta dai rivoluzionari. Le tre repubbliche nella piana di Gioia Tauro si dissolvono senza combattere e la reazione diventa operante in tutti gli abitati posti fra Rosarno e Monteleone, dove si manifesta il fenomeno tipico della «realizzazione» spontanea delle municipalità ribelli.
Nelle città liberate gli abitanti procedono allo «spiantamento» dell’albero della libertà con rituali solenni e scenografici, che prevedono la distruzione di coccarde e di bandiere repubblicane, l’innalzamento delle insegne regie e la celebrazione di un Te Deum in onore della monarchia. A Crotone – denominata Cotrone fino al 1928 -, prima di riprendere la marcia, «[…] Sua Eminenza, con religiosa edificante pompa, di porpora vestito, tra le lagrime di tenerezza, ed applausi festosi della gente divota, piantò colle proprie mani la Croce, ove era sito l’albero superstizioso della chimerica libertà» (92). Poiché all’ingresso nella città avevano fatto seguito anche saccheggi e violenze – «in assenza del Ruffo e senza suo ordine le masse saccheggiarono allora Cotrone, peraltro non commettendo gravissimi eccessi» (93) -, il 27 marzo il cardinale emana un bando che minaccia pene severe per tutti coloro che si fossero macchiati di altre nefandezze. In quella occasione si unisce ai sanfedisti Giambattista Rodio (1777-1806), che con il grado di brigadiere contribuirà efficacemente alle operazioni militari fino alla liberazione di Roma.
Dopo la presa di Crotone gran parte dei combattenti cristiani torna nei campi per riprendere il lavoro interrotto, così che il cardinale deve letteralmente rifondare l’esercito. In una lettera al ministro degli Esteri John Francis Edward Acton (1736-1811), del 14 marzo, egli descrive così la sua avanzata: «E’ sempre però un miracolo della Provvidenza, giacché non sono sempre gl’istessi, ma quelli che sono nei contorni del paese che vuole assediarsi, i quali per un malumore potrebbero non venire o lasciarci, ma non sono la Dio grazia mai mancanti» (94). In quei frangenti rifulgono in Fabrizio Ruffo, «di rari talenti dotato dalla natura, e di straordinario coraggio fornito dal Cielo» (95), la forza d’animo, le capacità organizzative, la familiarità con i soldati e l’intensa opera di animazione e di direzione, tutti elementi determinanti ai fini della riuscita vittoriosa dell’impresa.
Scopo primario del cardinale è la pacificazione del regno: restaurare la monarchia deve significare innanzitutto riconciliare, ove possibile, gli opposti schieramenti. In una lettera ad Acton, del 30 aprile scrive: «[…] amerei la severità, se fussimo nel principio della ribellione […]; ma nel caso nostro il rigore deve mettere nella disperazione tutti costoro e farli sostenere il cattivo per necessità, per non trovare altro scampo, dove all’incontro quando il rigore non minaccia che pochi capi veramente distinti, questi verranno ben presto abbandonati dalla maggior quantità di quei rei che credono potersi redimere con una multa o con qualche tempo di prigionia» (96). E in un’altra lettera del 30 aprile : «Arte ci vuole, giacché la forza ci manca, arte, perché è ridotta per nostra disgrazia a guerra civile; arte perché distruggendo si distrugge la nostra patria, ed è molto difficile il restorarla» (97).
Sa bene che una restaurazione duratura non può essere superficiale. Lo scontro con la Corte si avrà soprattutto sulla valutazione del ruolo e dell’importanza da assegnare al ceto dirigente nella ricostruzione del regno. Ruffo ritiene che occorra fare affidamento su uomini dottrinalmente preparati e su una nobiltà reintegrata nelle sue funzioni, mentre il re vuole accentuare il dispotismo proprio dell’«assolutismo illuminato», «terrorizzando» nobili e borghesi e portando all’esasperazione il suo paternalismo filo-popolare. Ferdinando IV perde l’occasione storica di una restaurazione integrale e il cardinale, falsamente accusato di simpatie filo-giacobine, viene emarginato appena possibile.
4.2 «Un miracolo della Provvidenza»
Le notizie dei successi dell’Armata Reale e Cristiana ingrossano a Napoli le file dei neutrali, che si aggiungono ai vinti di gennaio, i quali aspettano il momento della rivincita. I giacobini sono divisi fra loro e si disputano i posti, moltiplicando sospetti e accuse, incoraggiando calunnie e delazioni. La mancanza di omogeneità e di compattezza fra loro emerge soprattutto dalla tormentata vicenda della legge soppressiva della feudalità, che mise in luce non poche contraddizioni e fratture (98). Il gruppo dei «puri» si astrae sempre più nel sogno di una repubblica ideale, negando la forza delle insorgenze e illudendosi davanti alle parate e alle cerimonie, durante le quali si bruciavano con enfasi le bandiere tolte ai resistenti. Ma già il 16 febbraio, poche settimane dopo l’instaurazione del nuovo regime, Eleonora Fonseca Pimentel ammette: «Continuano ad essere disgustosissime le notizie di varie parti dell’interno della Repubblica» (99); esprime quindi il suo stupore per quegli episodi imprevisti: «[…] ond’è poi surto un tanto subitaneo furore che la plebe insurga da per tutto, atterri gli alberi di libertà, e si scagli accanita contro tutti Civili?» (100). Il 9 marzo esclama: «[…] perché pugnate, e per chi?» (101), ammonendo: «[…] cadrà in fine su voi alta e terribile la Vendetta Nazionale. La Repubblica perdona a’ ravveduti; è inesorabile co’ pertinaci» (102).
I «patrioti», come era già accaduto ai loro colleghi francesi, scoprono che il popolo reale non era il «Popolo» da essi idealizzato e, dunque, paralizzati fra il seducente miraggio di un popolo mitico e il terrore di una «plebe» concreta, decretano che questa è corrotta e occorre costringerla alla «virtù». Già il 29 gennaio Championnet aveva stabilito che si condannasse a morte chi diffondeva notizie allarmanti. Ma le leggi «[…] terroristiche – osserva Cuoco – […] non poteano produrre e non produssero alcuno effetto; imperocchè, come eseguite voi la legge, come l’applicate, quando tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti e salvare i rei?» (103). La Commissione Legislativa prende provvedimenti sempre più severi. Viene ordinata la coscrizione di tutti i cittadini fra i sedici e i sessant’anni, compresi preti e monaci, si stabiliscono dure pene per le autorità che non provvedono a fare arrestare gli allarmisti e tutti i cittadini sono obbligati a portare la coccarda nazionale. E’ facile essere sospettati e condannati, dal momento che «[…] ci si rimetteva alla coscienza del giudice per l’estimazione della prova, senza richiedersi il criterio legale» (104). Il generale Jacques-Etiénne-Joseph-Alexandre Mac Donald (1765-1840), che aveva sostituito Championnet, dichiara responsabili delle rivolte i ministri del culto, dispone l’immediata esecuzione di chiunque venga sorpreso in armi e stabilisce che i comuni siano considerati collettivamente responsabili della morte di «patrioti» e di francesi.
Una brutale ma fallimentare spedizione in Puglia e in Basilicata, guidata nel mese di marzo dal repubblicano Ettore Carafa, conte di Ruvo (1767-1799), semina il terrore. Le municipalità realiste sono letteralmente devastate, come Carbonara, che rappresentava in Terra di Bari il centro della resistenza lealista: «[…] 800 persone sono state passate a fil di spada» (105), annuncia trionfante Il Monitore Napolitano; la città è messa «[…] a sacco, ferro e fuoco, durando il saccheggio per lo spazio di dieci giorni, talché non vi lasciarono né porte né finestre delle case, fin anche li chiodi alle mura […] non perdonando le Chiese» (106). I sopravvissuti si rifugiano a Ceglie, ma i francesi «[…] massacrarono tutti i rivoltosi che vi erano, e ‘l villaggio fu similmente bruciato» (107). A Montrone «[…] 200 de’ rivoltosi furono uccisi, e ‘l resto sbaragliato, dopo di che fu dato alle fiamme» (108). Ad Andria, dopo la distruzione della città, alcune migliaia di abitanti vengono passati a fil di spada: «Dopo due ore di fuoco dentro la città – riferisce lo stesso Carafa -, ne fummo gli assoluti padroni; e cominciò il saccheggio e ‘l massacro. Il generale ordinò che la città fosse abbandonata alla licenza militare. Il sangue, il fuoco, e tutti gli orrori, che io tralascio di trascrivervi, formarono de’ quadri terribili ai nemici della patria e trasgressori delle leggi. La città era tutta infiammata, ed i morti possono ascendere a quattromila» (109).
Il 5 aprile è scoperta nella capitale una vasta cospirazione, organizzata da ufficiali borbonici e dai membri di alcune nobili famiglie realiste. Scoperti per la delazione di Luisa de Molino (1764-1800), moglie di uno dei congiurati, Andrea Sanfelice (1763-1808) dei duchi di Lauriano, i cospiratori sono arrestati e cinque di loro – fra i quali Gennaro (1767-1799) e Gerardo Baccher (1769-1799), fratelli maggiori del servo di Dio don Placido (1781-1851), anch’egli arrestato – saranno fucilati poche ore prima della liberazione della città.
Il 1° maggio la Commissione Legislativa, «[…] considerando che nelle urgenze della repubblica fanno di bisogno energiche leggi, e che non si deve, per serbare le troppo scrupolose forme, esporre la salvezza della patria e la pubblica libertà; considerando che le leggi promulgate dal governo provvisorio sono riuscite quasi inutili; […] considerando che l’ostinazione degli scellerati nemici della patria e dei perfidi agenti della tirannia divenne sempre maggiore nell’ingannare e sedurre il popolo naturalmente buono, ma soverchiamente credulo» (110), dispone che contro i nemici della Repubblica si proceda «con la forma estemporanea militare, per vedere la verità del fatto e persuadere la propria coscienza» (111). Le fucilazioni diventano un avvenimento ordinario.
In aprile i rivoluzionari francesi – dopo le sconfitte contro gli austro-russi sull’Adige e sull’Adda – abbandonano la Repubblica Cisalpina e iniziano la ritirata dal Regno di Napoli, lasciandosi dietro una scia sanguinosa di sopraffazioni e di violenze: «Non vi è rimasta una casa intatta, depredandosi del più prezioso, il dippiù si consegnava alle fiamme. Le donne violentate, le chiese spogliate, per terra le ostie sacrosante. Le monache fuggite furono raggiunte e fatte preda della sfrenatezza militare; quelle che resistevano erano crudelmente ammazzate» (112). La popolazione reagisce con vigore e con determinazione: le colonne nemiche che abbandonano gli Abruzzi sono affrontate dai montanari alla Madonna delle Grotte, nei pressi del passo di Antrodoco, vicino Rieti, e letteralmente annientate. Lo stesso accade in Terra di Lavoro, nel Lazio e in Toscana: «[…] dappertutto dietro le spalle loro il popolo si sollevava, abbatteva gli alberi della libertà, imprecava a coloro che lo avevano fino allora governato, per la vittoria delle armi imperiali facea voti al cielo. In Arezzo e nel territorio senese, in Valdarno e Valdichiana, risonavano da per ogni dove le grida: Viva Maria! Viva Ferdinando! Viva l’Imperatore!» (113).
Anche l’avanzata della Santa Fede suscita entusiasmi. Quando il vescovo di Policastro, monsignor Ludovico Ludovici (1747-1819), riprende in una sua pastorale il proclama con il quale il cardinale Ruffo chiamava alle armi, l’intera riviera del Cilento insorge: «[…] il popolo, gridando viva la Santa Fede, aveva abbattuto alberi ed emblemi repubblicani, rialzato la croce, richiamato i magistrati del re, e masse di armati s’erano unite sotto i loro capi» (114). Nella notte fra il 9 e il 10 maggio, diecimila sanfedisti espugnano Altamura, roccaforte della repubblica, giudicata da Fabrizio Ruffo «[…] la più fiera, e ribellante città, che s’era incontrata nel viaggio» (115). «Fra le tante empietà praticate da que’ Giacobini» – ricorda Petromasi – «[…] fecero fucilare tutta quella gente, che teneano detenuta in quelle oscure prigioni, per solo motivo d’esser stata attaccata, e fedele al Sovrano. Fra essa v’erano parecchi Ecclesiastici […]; i quali tutti confusamente legati tra morti, ed ancor semivivi, furono gittati in orrida sepoltura: e fu fortuna di que’ pochi ancor viventi, l’essere entrato a tempo l’Esercito Reale, perché così poterono evitare la più disgraziata morte che si potesse» (116). I conquistatori, inferociti anche per quell’efferato massacro, compiuto poche ore prima, si abbandonano a un brutale saccheggio, che mieterà poche vittime ma alimenterà nel tempo la polemica contro di loro (117). Grande pubblicità verrà data a questo episodio e al sacco di Crotone, ma non una parola viene spesa tuttora per le decine di centri, grandi e piccoli, che conobbero la crudeltà rivoluzionaria. La storiografia egemone ha tramandato solo i primi, ingigantiti dal tempo, così che il cardinale e la Santa Fede hanno finito con il soffrire da parte dei posteri giudizi più ingiusti che dai loro contemporanei.
Nonostante la condotta prudente e conciliante seguita dal cardinale Ruffo, le calunnie ne hanno degradato fin da allora la nobile figura, creando il mito del «Cardinal mostro» (118), generale predone al comando di orde di briganti e di galeotti. Fabrizio Ruffo si terrà sempre al di sopra delle polemiche, sfogandosi soltanto in una lettera privata: «Brigante, come se non fosse questo nome facile ad accordarsi ad ogni soldato, quando il di lui partito va a soccombere, od avesse rubato qualcosa ad alcuno! Chi difende il suo Paese, che ha l’autorità e la legittima missione, non è stato mai avuto dalle nazioni civilizzate come un miserabile, né ha avuto niente da vergognarsi, né l’avrà presso gli uomini sensati. Che più? E pure quattro falliti democratici di nome, perché non ne hanno le virtù e il disinteresse, mi perseguitano perché li ho difesi e risparmiati» (119).
Dopo la conquista di Altamura, l’Armata Reale e Cristiana deve affrontare nuovi e imprevisti ostacoli; infatti, «[…] le donne Altamurane (facendo le dovute eccezioni) produssero all’armata Cristiana quegli stessi effetti, che un tempo cagionarono ai soldati di Annibale le donne Capuane. […] al tempo della partenza tutt’i Comandanti, ed anche l’Ispettore della Guerra, furono costretti andar personalmente da casa in casa per distaccare quella gente» (120). Un altro problema riguarda l’eventuale utilizzazione dei rinforzi turchi. L’esercito ha uno spiccato carattere cristiano, la croce è il suo simbolo, «Viva la Santa Fede!» il grido di guerra e tutto ciò non ammette la presenza di infedeli, messi dalle vicende rivoluzionarie al fianco di cattolici contro altri cattolici. Si decide di condurre via mare i turchi, non più di un centinaio, nel golfo di Napoli, dove resteranno a disposizione.
Alla periferia della capitale il clero va con il Santissimo Sacramento incontro al cardinale, che «[…] smontò da cavallo, ricevette la benedizione, fece riaccompagnare il Santissimo alla chiesa e pregare il Dio degli eserciti» (121). Il 13 giugno 1799, dopo l’ultima battaglia, l’Armata fa il suo ingresso nella città, già infiorata di candidi panni gigliati e di coccarde scarlatte. La vittoria al ponte della Maddalena, avvenuta proprio il giorno di sant’Antonio da Padova (1195-1232), uno dei santi più venerati dai sanfedisti durante la loro avanzata, viene considerata miracolosa. «Dissero che S. Antonio accompagnava il cardinale e volava sulle sue schiere. Il re ottenne dal Papa di poter includere S. Antonio fra i protettori del regno di Napoli, e il 13 giugno tra le feste di doppio precetto» (122).
Ma la festa dura poco. Il popolo minuto, che non aveva dimenticato i tradimenti, la sconfitta, le brutalità e i saccheggi, si vendica ferocemente dei suoi nemici. Ruffo cerca invano di arginare la guerra civile e protesta vibratamente contro la proditoria violazione, da parte dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson (1758-1805), inviato a sostegno del re di Napoli, della convenzione conclusa con i vinti: «Nelson – scrive il cardinale al sovrano, il 28 giugno – voleva che distruggessi il Trattato fatto, firmato ed a metà eseguito, in tempo del suo apparire. Io non volli mancare costantemente, e tuttavia sono determinato, per parte mia, a non mancare di fede. Un Uomo, Signore, del mio carattere, professione e che ha conquistato il Regno nel nome di Dio e colla di Lui possente assistenza, non può mancare di fede ad alcuno, senza disonorare sè stesso e la eccellente causa che ha nelle mani» (123).
Nei mesi seguenti un centinaio di giacobini – cifra irrisoria rispetto alle decine di migliaia di vittime dell’utopia rivoluzionaria (124) – subisce la pena capitale. La restaurazione è ridotta a un’operazione di polizia e la monarchia ripropone il suo dominio assoluto, trascurando la necessità di una vasta opera di formazione contro-rivoluzionaria della classe dirigente e di animazione e di messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria. Nel 1806, quando il re, di fronte alla seconda invasione francese, si rivolge al cardinale perché rinnovi la sua crociata, Fabrizio Ruffo «[…] rispose che quelle imprese si potevano fare una volta sola» (125).
Restano, tuttavia, l’esempio e il sacrificio di tanti eroici figli della nazione italiana. A distanza di due secoli occorre dunque «[…] restituire al sanfedismo originale ed autentico l’innegabile merito di avere rappresentato, nell’Italia meridionale, la spontanea resistenza di popolazioni autenticamente cattoliche e devote alle autorità legittime contro gli abusi, le violenze e l’opera scristianizzatrice di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero, in dispregio di tutte le tradizioni politiche e religiose locali» (126).
(1) Per un primo accostamento al tema cfr. FRANCESCO MARIO ÀGNOLI, Guida introduttiva alle insorgenze contro-rivoluzionarie in Italia durante il dominio napoleonico (1796-1815), Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1996. Di intenti più celebrativi che scientifici è l’opera collettanea Le insorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino (1796-1799), APES, Roma 1992, mentre hanno un carattere descrittivo MASSIMO VIGLIONE, La «Vandea Italiana». Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814, Effedieffe, Milano 1995, e IDEM, Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Città Nuova, Roma 1999; dello stesso autore cfr. anche Le insorgenze. Rivoluzione & Controrivoluzione in Italia. 1792-1815, Ares, Milano 1999, che vuole essere «una introduzione generale a tale storia» (p. 8). D’ispirazione post-gramsciana e con una discreta attenzione anche ai fenomeni non economici è la raccolta di saggi Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, numero monografico, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998 (su di essa cfr. OSCAR SANGUINETTI, «Studi storici» sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, in Cristianità, anno XXVI, n. 282, ottobre 1998, pp. 9-19).
(2) Itinerario di tutto ciò ch’è avvenuto nella spedizione dell’eminentissimo signor D. Fabrizio Cardinal Ruffo Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli per sottomettere i ribellanti Popoli di alcune Provincie di esso, Manfredi, Napoli 1799 (reprint: La lunga marcia del Cardinale Ruffo alla riconquista del Regno di Napoli, a cura di Mario Battaglini, Borzi, Roma 1967, da cui sono tratte le citazioni).
(3) Ibid., p.13.
(4) Storia della spedizione dell’Eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo allora Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli e degli avvenimenti e fatti d’armi accaduti nel riacquisto del medesimo compilata da D. Domenico Petromasi commissario di guerra e tenente colonnello de’ Reali Eserciti di S. M. Siciliana, Manfredi, Napoli 1801 (reprint: Alla riconquista del regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, con una introduzione di Silvio Vitale, Editoriale il giglio, Napoli 1994, da cui sono tratte le citazioni; cfr. la mia recensione, in Cristianità, anno XXIV, n. 250-251, febbraio-marzo 1996, pp. 21-22).
(5) Ibid., p. XIX.
(6) Ibidem.
(7) VINCENZO CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, edizione critica a cura di Antonino De Francesco, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 1998 (Cfr. anche Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di Nino Cortese (1896-1972), Vallecchi, Firenze 1926, da cui sono tratte le citazioni). Cfr. anche A. DE FRANCESCO, Vincenzo Cuoco. Una vita politica, Laterza, Bari-Roma 1997, che sottolinea la sostanziale fedeltà di Cuoco al giacobinismo e respinge la tesi che ne fa il «precursore del moderatismo politico e del conservatorismo sociale» (p. IX).
(8) Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, con osservazioni sulle opere di Coco, di Botta e di Colletta. Edizione seconda, Tip. Poliglotta, Roma 1895 (1a ed.: Cattaneo, Napoli 1836).
(9) Ora in SILVIO VITALE, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969, pp. 73-249. Il riferimento è all’opera di PIETRO COLLETTA (1775-1831), Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, a cura di N. Cortese, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957 (1a ed.: Tip. Elvetica, Capolago 1834), sulla quale lo stesso curatore esprime il seguente giudizio: «Quella del Colletta è una delle opere che maggiormente hanno bisogno di chiarimenti e di delucidazioni per esser ricca di errori, o voluti dall’autore per motivi di ordine politico o personale, o da attribuire alle fonti da lui usate» (Ibid., vol. I, p. XII).
(10) BENEDETTO CROCE, Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1980, p. 200. La tesi è sviluppata nei saggi raccolti in IDEM, La rivoluzione napoletana del 1799, con una nota di Fulvio Tessitore, Bibliopolis, Napoli 1998 (1a ed.: Loescher, Roma 1897). Della presunta astrattezza dei giacobini italiani costituisce un’ulteriore smentita LUCIANO GUERCI,
(11) ANTONIO GRAMSCI, La rivoluzione italiana, Newton Compton, Roma 1976, p. 252.
(12) GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, vol. I, Le origini del Risorgimento 1700-1815, Feltrinelli, Milano 1956, p. 286.
(13) Ibid., p. 287.
(14) Ibid., p. 288.
(15) Rientrano in questa corrente storiografica ANTONIO MANES (1891-1950), Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica Partenopea, Vecchioni, L’Aquila 1929 (reprint: Jouvence, Roma 1996); GIACOMO LUMBROSO (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), Le Monnier, Firenze 1932 (2a ed. rivista, a cura di O. Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; su cui cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26); ALBERTO CONSIGLIO (1902-1973), Lazzari e Santa Fede (Rivoluzione Napoletana del 1799), Ceschina, Milano 1936 (reprint: La Rivoluzione Napoletana del 1799. Fine di un Reame, Rusconi, Milano 1998); e MASSIMO LELJ (1888-1962), La Santa Fede. La spedizione del Cardinale Ruffo (1799), Mondadori, Milano 1936.
(16) ANNA MARIA RAO, La Repubblica napoletana del 1799, Newton Compton, Roma 1997, p. 7. Cfr. anche EADEM, L’expérience révolutionnaire italienne, in Annales Historiques de la Revolution Française, anno LXIX, n. 313, luglio-settembre 1998, numero monografico (L’Italie du triennio révolutionnaire. 1796-1799), pp. 387-407, e GIUSEPPE GALASSO, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia. Lineamenti di storia meridionale e due momenti di storia regionale, Le Monnier, Firenze 1992, pp. 299-325.
(17) A. M. RAO, Mezzogiorno e Rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 (pp. 990-991).
(18) Cfr. IDEM, La repubblica napoletana del 1799, in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso e Rosario Romeo (1924-1987), vol. IV, tomo II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Napoli 1986, pp. 469-539, ora in A. M. RAO-PASQUALE VILLANI, Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Edizioni del Sole, Napoli 1995, pp. ???-???; e JOHN A. DAVIS, Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, cit., pp. 603-622, che va oltre le spiegazioni di ordine economico e individua un legame fra Insorgenza, trasformazioni, spesso forzate, dell’Antico Regime e crisi della monarchia napoletana. Una ricostruzione recente delle vicende della Repubblica Napoletana è in FRANCESCO MAURIZIO DI GIOVINE, 1799. Rivoluzione contro Napoli, con una Introduzione di Silvio Vitale, Editoriale il giglio, Napoli 1998.
(19) N. RODOLICO, Il Popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale. 1798-1801, Le Monnier, Firenze 1926, p. XIII.
(20) ANDREA MELPIGNANO S.J. (1923-1990), L’anticurialismo napoletano sotto Carlo III, Herder, Roma 1965, p. 41. Sulle fasi salienti del contrasto fra Stato e Chiesa cfr. ELVIRA CHIOSI, Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’illuminismo, Giannini, Napoli 1992.
(21) R. DE MAIO, Dal Sinodo del 1726 alla prima Restaurazione borbonica del 1799, in Storia di Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1972, vol. VII, pp. 791-960 (p. 797).
(22) Cit. in GIUSEPPE CACCIATORE C.SS.R (1907-1977), S. Alfonso De’ Liguori e il giansenismo. Le ultime fortune del moto giansenistico e la restituzione del pensiero cattolico nel secolo XVIII, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1944, p. 220.
(23) GAETANO CINGARI, Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799, D’Anna, Messina-Firenze 1957, reprint 1978, p. 30.
(24) AUGUSTO PLACANICA, Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria. La privatizzazione delle terre ecclesiastiche (1784-1815), Società Editrice Meridionale, Salerno 1979, p. 363.
(25) Cfr. BERNARD FAŸ (1893-1978), La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, trad. it., Einaudi, Torino 1945, in particolare pp. 271-274.
(26) GIUSEPPE GIARRIZZO, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Marsilio, Venezia 1994, p. 395. Sul complotto rivoluzionario, scoperto grazie a una delazione e conclusosi con tre condanne capitali, cfr. TOMMASO PEDÌO (1918-2000), La congiura giacobina del 1794 nel regno di Napoli, Levante, Bari 1986.
(27) Sulla questione feudale cfr. A. M. RAO, L’«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ‘700, Guida, Napoli 1984, e, più in generale, ROMUALDO TRIFONE (1879-1963), Feudi e Demani. Eversione della feudalità nelle province napoletane, Società Editrice Libraria, Milano 1909.
(28) G. GALASSO, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari 1978, p. 131. Cfr. anche RUGGERO MOSCATI (1908-1981), I Borboni d’Italia, Newton Compton, Roma 1973, p. 87.
(29) A. PLACANICA, op. cit., p. 410. Cfr. anche G. CINGARI, op. cit., p. 20.
(30) G. CACCIATORE, op. cit., p. 17. Sul santo napoletano cfr. anche THÉODULE REY-MERMET, Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de’ Liguori (1696-1787), Città Nuova, Roma 1983, e GIOVANNI VELOCCI, Sant’Alfonso de’ Liguori. Un maestro di vita cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994.
(31) ERNST BÖMINGHAUS S.J. (1882-1942), Storia del culto di Maria dopo il Concilio di Trento, in Mariologia, a cura di Paul Sträter S.J. (1878-1971), vol. I, Maria nella Rivelazione, Marietti, Torino 1952, p. 257, cit. in ANTONIO MUCCINO, La regalità di Maria SS. nella Dottrina di S. Alfonso de’ Liguori, Libreria Editrice Redenzione, Napoli 1966, p. 151.
(32) G. CACCIATORE, op. cit., p. 295.
(33) Così CLEMENS HENZE C.SS.R (1880-1965), voce Alfonso Maria de’ Liguori, in Bibliotheca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1961, vol. I, coll. 837-861 (col. 851).
(34) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50 (p. 13). Fra coloro che prepararono e accompagnarono la reazione nel Regno di Napoli va ricordato l’abate Mattia De Paoli (1770-1831), uomo di lettere, membro dell’Arcadia di Roma e parroco per venticinque anni di Cellole – un tempo piccolo casale di Sessa Aurunca, oggi comune del litorale tirrenico, posto fra Campania e Lazio -, autore di un Incitamento al Popolo Sessano, del 16 maggio 1799, e della dissertazione La Rivelazione Difesa, del 1804. Su di lui cfr. VITO CICALE – GIACOMO VERRENGIA, L’abate Mattia De Paoli da Cellole. Le opere della controrivoluzione del 1799, Caramanica Editore, Marina di Minturno (Latina) 1997, e IDEM, L’abate Mattia De Paoli da Cellole. L’opera teologica: La Rivelazione Difesa, Luciano Editore, Napoli 1999.
(35) LUIGI BLANCH, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in IDEM, Scritti storici, a cura di B. Croce, 3 voll., Laterza, Bari 1945, vol. I, pp. 3-292 (p. 46).
(36) Ibid., p. 47.
(37) B. CROCE, Storia del regno di Napoli, cit., p. 206.
(38) Cit. in Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana. 1798-1799, 3 voll, Società Editrice meridionale, Napoli 1983, a cura di M. Battaglini, vol. I, p. 183. Sull’Insorgenza abruzzese, cfr. LUIGI COPPA ZUCCARI (1874-1960), L’invasione francese negli Abruzzi (1798-1815), 4 voll., Vecchioni, L’Aquila 1928-1939, e, per la stessa area, RAFFAELE COLAPIETRA, Per una rilettura socio-antropologica dell’Abruzzo giacobino e sanfedista, La Città del Sole, Napoli 1995.
(39) Ibid., pp. 183-184. Per una rilettura non stereotipata della figura e dell’opera di Ferdinando IV, cfr. GIUSEPPE CAMPOLIETI, Il «re lazzarone». Ferdinando IV di Borbone amato dal popolo e condannato dalla storia, Mondadori, Milano 1999.
(40) T. PEDÌO, La Repubblica Napoletana del 1799, Levante, Bari 1986, p. 16.
(41) Su di lui cfr. ROBERTO GIARDINA, La leggenda di Fra Diavolo. L’avventurosa storia del brigante buono (1796-1806), Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, e FRANCESCO BARRA, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo. Vita, avventure e morte di un guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Avagliano, Napoli 2000, che ha il pregio di pubblicare le memorie inedite di Fra Diavolo.
(42) Dopo la parentesi rivoluzionaria il Corpo di Città viene accusato di insubordinazione al vicario e di aver voluto costituire una «repubblica aristocratica». E’ il pretesto per sciogliere i Sedili di Napoli, privando la nobiltà di ogni residua influenza e la nazione della sua rappresentanza; un atto che, nel giudizio di Walter Maturi (1902-1961), è il «più rivoluzionario compiuto dal dispotismo illuminato borbonico» (Il Principe di Canosa, Le Monnier, Firenze 1944, p. 317). Sul principe di Canosa cfr. anche S. VITALE, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, cit., pp. 7-72 e NICOLA DEL CORNO, Gli «scritti sani». Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 31-51.
(43) JOSEPH ALEXANDER VON HELFERT, Fabrizio Ruffo. Rivoluzione e controrivoluzione di Napoli dal novembre 1798 all’agosto 1799, trad. it., Loescher, Firenze 1885, p. 41.
(44) Cit. in S. VITALE, Il Principe di Canosa e l’epistola contro Pietro Colletta, cit., p. 30.
(45) VALENTINO SANI, La Repubblica Napoletana del 1799, Giunti, Firenze 1997, p. 18. Anche Luigi Blanch, nel 1841, dopo aver giudicato la «condotta della corte nel 99 […] come crudele e inintelligente» (Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, cit., vol. I, p. 5), osserva che i cospiratori rappresentavano «[…] una minoranza quasi impercettibile aspirante a stabilire, per mezzo della conquista, una forma di governo non voluta dal paese […]. Onde si perdè l’indipendenza e si ebbe il dominio d’una minoranza, appoggiata a stranieri, contro la maggioranza» (ibidem).
(46) JEAN-LOUIS HAROUEL, Les républiques soeurs, Presses Universitaire de France, Paris 1997, p. 124.
(47) Ibidem.
(48) A. M. RAO, Sociologia e politica del giacobinismo: il caso napoletano, in Prospettive Settanta, nuova serie, anno I, 1979, pp. 212-239 (p. 228).
(49) B. CROCE, Storia del regno di Napoli, cit., p. 124.
(50) G. GALASSO, I giacobini meridionali, in Rivista Storica Italiana, anno XCVI, fasc. I, gennaio 1984, pp. 69-104, ora in IDEM, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, pp. 509-548 (p. 523). Cfr. anche l’acuta osservazione di Blanch, secondo cui «[…] le massime nuove offrivano meno ostacoli alle passioni della gioventù» (op. cit., vol. I, p. 34). Per considerazioni di lungo periodo sulla frattura generazionale nei secoli XVIII e XIX cfr. PHILIPPE ARIE’S (1914-1984), Generazioni, in Enciclopedia, direttore Ruggiero Romano, Einaudi, Torino 1979, vol. VI, pp. 557-563.
(51) Ibid., p. 525.
(52) CARLO DE NICOLA, Diario napoletano (dicembre 1798-dicembre 1800), Giordano, Milano 1963, p. 95.
(53) Ibid., p. 96.
(54) Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, p. 510. Di Battaglini cfr. anche La Repubblica Napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992.
(55) N. CORTESE, in P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, cit., vol. II, p. 11, nota 19.
(56) Istruzioni generali del Governo Provvisorio della Repubblica Napoletana ai Patrioti, in Il Monitore Napoletano 1799, cit., pp. 56-60, (p. 57).
(57) Ibid., p. 60.
(58) NICOLA NERI (1761-1799), Caratteri del patriota, in Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana. 1798-1799, cit., vol. III, pp. 1903-1906 (p. 1905).
(59) P. COLLETTA, op. cit., vol. II, p. 40.
(60) RENATO BRUSCHI, Vandalismo ed iconoclastia: rivoluzione e controrivoluzione nella repubblica napoletana del 1799, in Rivista abruzzese. Rassegna trimestrale di cultura, anno XLII, n. 1, gennaio-marzo 1989, pp. 7-22 (p. 17).
(61) Ibid., p. 14. Una parte dei capolavori sfuggiti al vandalismo saranno raccolti nel Museo Nazionale, istituito dal governo provvisorio con l’intenzione di rendere tangibile l’azione di rimozione del patrimonio storico e artistico: «Un museo, quello moderno, che è rivoluzionario proprio per la sua caratteristica di mostrare l’arte separata dal suo contesto architettonico, devozionale, celebrativo delle glorie delle antiche famiglie, per diventare esclusiva esibizione di tecnica e ridursi, in definitiva, solo ad arte per l’arte, un’arte il cui fine diventa sempre meno intelligibile. […] La spoliazione sistematica prodotta dalla Rivoluzione francese ha ragioni profondamente ideologiche, al fine di dimostrare la superiorità della sua pretesa civiltà illuminata dalla ragione, nella contemporanea umiliazione di ogni tradizione sacra e civile delle nazioni sottomesse con la forza» (MARCO ALBERA, «I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre», in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 11-14 [p. 14]).
(62) C. DE NICOLA, op. cit., p. 205.
(63) Ibid., p. 208.
(64) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 40.
(65) Ibid., p. 150, nota 37.
(66) Ibidem.
(67) ERASMO LESO, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1991, p. 139.
(68) Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico indispensabile per chiunque brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, seconda edizione, tip. Campolmi, Firenze 1849, p. 31.
(69) Ibidem.
(70) P. COLLETTA, op. cit., vol. II, p. 24.
(71) RENZO DE FELICE, Italia giacobina, Società Editrice meridionale, Napoli 1965, p. 258, nota 12.
(72) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 152.
(73) C. DE NICOLA, op. cit., p. 105.
(74) N. CORTESE, in V. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, p. 168, nota 2.
(75) J. A. VON HELFERT, Fabrizio Ruffo. Rivoluzione e controrivoluzione di Napoli dal novembre 1798 all’agosto 1799, cit., p. 60.
(76) Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico indispensabile per chiunque brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, cit., p. 18. Sulla formazione dell’homo ideologicus e sul tipo di regime politico e sociale che egli impone quando accede al potere, cfr. AUGUSTIN COCHIN (1876-1916), Meccanica della Rivoluzione, trad. it., Rusconi, Milano 1971; e IDEM, Lo spirito del giacobinismo. Le «società di pensiero» e la democrazia: una interpretazione sociologica della Rivoluzione francese, trad. it., Bompiani, Milano 1989.
(77) GIACOMO DE ANTONELLIS, Il 1799 napoletano, Club di Autori Indipendenti, Milano-Benevento 1998, p. 27. (78) Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana presentato al Governo Provvisorio dal Comitato di legislazione, in FRANCESCO MARIO PAGANO, La coscienza della libertà. Dai Saggi politici al progetto di Costituzione, antologia a cura e con un’introduzione di R. Bruschi, Generoso Procaccini, Napoli 1998, pp. 211-279 (p. 228).
(79) Ibid., p. 216.
(80) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 66. Sulla propaganda giacobina verso il popolo cfr. DOMENICO SCAFOGLIO, Lazzari e Giacobini. Cultura popolare e rivoluzione a Napoli nel 1799, l’ancora, Napoli 1999, e più in generale LUCIANO GUERCI, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), il Mulino, Bologna 1999.
(81) Ibid., p. 67.
(82) Ibid., p. 124.
(83) Ibid., p. 155.
(84) Ibid., p. 59.
(85) J. A. VON HELFERT, op. cit., p. 152.
(86) M. LELJ, La Santa Fede. La spedizione del cardinale Ruffo (1799), cit., p. 67.
(87) Sulla figura del cardinale cfr. VITTORIO EMANUELE GIUNTELLA (1913-1996), Ruffo, Fabrizio, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Roma 1953, vol. X, coll. 1434-1435, e GIOVANNI RUFFO, Il cardinale rosso, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.
(88) Cit. in ANTONIO LUCARELLI (1874-1952), La Puglia nella Rivoluzione Napoletana del 1799 (Storia documentata), a cura di Mario Proto, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 1998, p. 430 (reprint di IDEM, La Puglia nel Risorgimento, vol. II, La Rivoluzione del 1799, Editrice Pugliese, Bari 1934). «[…] tutti codesti motivi – commenta lo storico – infiammano aristocratici e plebei, preti e frati, gentiluomini e briganti – non solo questi ultimi, come vorrebbero le fonti giacobine – sì che molti inclinano per vario tramite alla santa Crociata» (Ibid., p. 431).
(89) Ibid., p. 430.
(90) D. PETROMASI, Alla riconquista del regno. La marcia del Cardinale Ruffo dalle Calabrie a Napoli, cit., p. 9.
(91) J. A. VON HELFERT, op. cit., pp. 178-179.
(92) A. CIMBALO, La lunga marcia del cardinale Ruffo alla riconquista del regno di Napoli, cit., p. 24.
(93) N. CORTESE, in P. COLLETTA, op. cit., vol. II, p. 47, nota 121. «[…] il basso popolo – aggiunge Cingari – seppe imporre il rispetto delle donne» (Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799, cit., p. 214).
(94) La riconquista del regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del re, della regina, del ministro Acton, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1943, p. 67.
(95) D. PETROMASI, op. cit., p. 1.
(96) Cit. in La riconquista del regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del re, della regina e del ministro Acton, cit., p. 144.
(97) Lettera del cardinale Ruffo al ministro Acton, ibid., p. 155.
(98) Sulla legge eversiva della feudalità cfr. G. GALASSO, La legge feudale napoletana del 1799, in Rivista Storica Italiana, anno LXXVI, fasc. II, giugno 1964, pp. 507-529, ora in IDEM, La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, cit., pp. 633-660.
(99) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 113.
(100) Ibid., p. 114.
(101) Ibid., p. 251.
(102) Ibid., p. 252.
(103) V. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, cit., p. 224.
(104) Ibid., p. 226, nota 2.
(105) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 402.
(106) Ibid., nota 13.
(107) Ibid., p. 402.
(108) Ibid., p. 403.
(109) Cit. in Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana. 1798-1799, cit., vol. II, p. 1439.
(110) Cit. in V. CUOCO, op. cit., pp. 225-226, nota 2.
(111) Ibidem. Luigi Blanch così scrive sull’azione repressiva dei giacobini: «Nel senso morale fu una fortuna che divenissero vittime; chè, se avesser trionfato, sarebbero stati carnefici tanto più crudeli quanto più eran pochi» (Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, cit., pp. 5-6).
(112) C. DE NICOLA, op. cit., p. 166. Sul saccheggio dell’abbazia di Casamari, con notizie anche sul sacco dell’abbazia di Montecassino, cfr. BENEDETTO FORNARI, Assassinio nell’abbazia. La rivoluzione francese in Ciociaria, Casamari 1987.
(113) J. A. VON HELFERT, op. cit., p. 195.
(114) M. LELJ, op. cit., p. 112.
(115) A. CIMBALO, op. cit., p. 26.
(116) La lunga marcia del Cardinale Ruffo alla riconquista del Regno di Napoli, cit., p. 25, nota 1.
(117) Sul sacco di Altamura, che causò una trentina di vittime, cfr. OSCAR SANGUINETTI, «Altamura. La strage delle innocenti». Un falso storico contro l’Insorgenza italiana, in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, marzo-aprile 1999, pp. 11-17.
(118) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 118.
(119) Cit. in GIOVANNI MARESCA (m. 1971), I Nobili di sedile, i Patrioti, i Lazzaroni ed il miracolo di San Gennaro nella rivoluzione napoletana del 1799, in Rivista Araldica, anno LVIII, fasc. 619, n. 2, febbraio 1960, pp. 241-248 (p. 248, nota 1).
(120) D. SACCHINELLI, Memorie storiche sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo, cit., p. 161.
(121) M. LELJ, op. cit., p. 174.
(122) Ibid., p. 230.
(123) Cit. in Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana. 1798-1799, cit., vol. II, p. 1499.
(124) Il generale francese Paul-Charles Thiébault (1769-1846), uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, fornisce la cifra di sessantamila morti, una stima per difetto, in quanto limitata ai primi mesi del 1799 (Cfr. Mémoires du Genéral Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Librairie Plon, Parigi 1893-1895, vol. II. 1795-1799, p. 325).
(125) M. LELJ, op. cit., p. 245.
(126) RENZO UBERTO MONTINI (1909-1959), voce Sanfedismo, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Roma 1953, vol. X, coll. 1754-1755 (col. 1755). Non è condivisibile, invece, il giudizio de La Civiltà Cattolica, secondo cui «[…] il movimento controrivoluzionario, anche se spesso fu capitanato e organizzato da ecclesiastici, […] non fu un movimento religioso, né animato da motivazioni propriamente religiose (come invece fu quello della Vandea francese), ma un movimento monarchico-regalista, organizzato in difesa delle istituzioni antiche» (GIOVANNI SALE S.J., Rivoluzione e «insorgenza» a Napoli nel 1799, in La Civiltà Cattolica, anno 150, quaderno 3575, 5-6-1999, pp. 450-463 [p. 460]).
Pubblicato da Associazione legittimista Trono e Altare
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Etichette: Contro-Rivoluzione, Regno delle Due Sicilie, Rivoluzione