BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (III)
Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi.
I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.
I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.
Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.
Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008
II
II brigandaggio sotto Giuseppe Bonaparte e sotto Murat – Come si formasse – Antonelli e % suoi due ingressi a Chieti – Tacconi – Bizzarro e sua moglie – Parafante – Gli ufficiali fucilati dai loro soldati – Gli eccidii di Parenti – II generale Manhès – Una città interdetta – Santo Manhès.
Anzi tutto ecco una pagina curiosa e quasi ignota di Pietro Colletta. Essa fa scritta or sono trent’anni rispetto ad eventi compiutisi già da mezzo secolo: la si direbbe scritta oggi intorno ad una storia d’ieri.
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«Cos’era dunque il brigandaggio? – si chiede Pietro Colletta.1 – Esaminiamolo in fatto e in diritto, ossia in coloro che lo «componevano, e nello scopo che si erano prefisso. Nel 1806 e nel 1807 vi si dedicarono gli antichi campioni del 1799, Fra Diavolo, i Pizza, i Gueriglia, i Furia, gli Stoduti e altri ancora di pessima fama. Ma in quelli anni istessi furono uccisi, presi o intimiditi, dacché le facili manovre del 99 non erano più bastevoli nel 1806, occorrendo altri tentativi e altri uomini. Era un mestiere difficile e fatale, cui soltanto la disperazione potea indurre. Ecco perché in Sicilia si vuotavano le prigioni e le galere, e si reclutavano i malfattori napoletani, i quali aveano fuggito la loro patria.
Orde numerose ne irruppero entro il regno durante i due primi anni, sia per ritardare l’assedio di Gaeta (appunto come avviene ai nostri tempi) sia per secondare le spedizioni di Maida e di Mileto. Ma dopo quell’epoca le imprese del brigandaggio furono più ristrette. Si sbarcavano pochi uomini in una spiaggia deserta, e bene spesso durante la notte: essi si gettavano nell’interno delle provincie. Se erano bene avventurati, uccidevano, rubavano, distruggevano case, mèssi, armenti: se erano perseguitati, si imbarcavano di nuovo, e ritraendosi in Sicilia o a Ponza (allora occupata dal principe di Canosa), più ricchi erano di spoglie e di misfatti, meglio venivano rimeritati e con lodi e con danaro. Soldati francesi presi all’improvviso e uccisi, un piccolo corpo di guardia sorpreso,
1. I generali Mariano d’Ayala e Enrico Cosenz, il duca di Cirella, U barone G. Marsico, il cavaliere Del Giudice, i signori Filippo Agresti e Giuseppe Del Re hanno riunito i manoscritti postumi del generale, che saranno pubblicati dalla Tipografìa nazionale, sotto il titolo:
Opere inedite o rare di Pietro Colletta.
Il primo volume, già stampato, non è per anco in vendita. Per caso ne posseggo un esemplare, dal quale estraggo il brano che cito.
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un corriere assassinato, una valigia postale rubata, erano allori quali non ne furon colti mai ne1 campi di Austerlitz e di Waterloo. Gli atti perdendo così la loro natura, il delitto divenendo sorgente di industria, questa lebbra infestò tutto il reame: i malfattori, gli oziosi, gli uomini avidi dell’altrui proprietà si univano ai briganti, ingrossavano le bande della Sicilia o si formavano in bande da loro medesimi. Tutti aveano per scopo e per trofeo il furto e la càrnificina.»
Vediamo ora quali fossero i capi di questi banditi. Parlo di tempi assai lontani da noi, di interessi che non sono i nostri. Oggi si possono esaminare senza passione i regni di Giuseppe Bonaparte e di Murat: non verrò dunque accusato di far servire gli uomini e i fatti a benefizio di un principio qualsiasi. E le verità del passato costringeranno a prestar fede alle inverosimiglianze del presente.
Durante questi due monarcati vi furono briganti per tutta quanta la estensione del regno. 1
In Basilicata v’erano Taccone e Quagliarella.
Ne’due Principati, Laurenziello.
Nel distretto di Castrovillari, Campotanese e nelle Montagne di Polino, Cannine Antonio e Mascia.
Nelle montagne delle Calabrie, Parafante, Benincasa, Nierello, il Giurato e il Boia: i quali occupavano anche la foresta di Sant’Eufemio.
1 Sul brigandaggio di que1 tempi, oltre le istorie del Botta e del Colletta, esistono due volumi interessanti dedicati al generale Manhès, uno assai curioso e assai raro, intitolato:
Notizia storica del Conte Ani. Manhès ec. ec, scritta da un antico ufficiale dello Stato maggiore del predetto generale Manhès, nelle Calabrie.
Napoli, Ranucci, 1846. – L’ altro abilmente elaborato comparve nel mese scorso sotto questo titolo:
Memorie autografe del generale Manhès intorno ai Briganti compilate da Francesco Montefredini.
Napoli, Stamperia de1 fratelli Morano, 1861.
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Ne’ boschi e nelle montagne di Mongiana, nell’Aspromonte e nelle foreste lungo il Rosarno, Paonese, Mazziotti e il Bizzarro.
Negli Abruzzi, Antonelli, Fulvio Quici, Basso Torneo, il quale facevasi chiamare il Re delle campagne. Ora una parola sopra taluni di questi capi.
Antonelli (nome celebre) originario di Fossaceca, non lungi da Lamiano, occupava tutto il territorio di Chieti. Giuseppe Bonaparte avea dovuto trattar con esso da potenza a potenza: gli avea inviato due plenipotenziari, il generale francese Merlin e il Barone Nólli, abruzzese, il quale divenne poi ministro delle finanze. Antonelli volle esser considerato come colonnello e gli fu promesso: anzi gli furono inviate perfino l’uniforme e le spallette di quel grado. I due plenipotenziarii andarono incontro a lui alla distanza di qualche miglio da Chieti, e con lui rientrarono quasi trionfalmente nella città, dinanzi al popolo stupefatto per questa ovazione.
Quando Murat salì sul trono, il colonnello Antonelli si pose nuovamente a batter la campagna, forse per diventar generale. Fu preso e ricondotto a Chieti, ove fece un ingresso ben diverso dal primo, cavalcando a rovescio un asino, di cui teneva, invece della briglia, la coda in mano. Sulle spalle gli avevano affissa la seguente iscrizione: Ecco L’ASSASSINO ANTONELLI.
Taccone, il quale devastava la Basilicata, entra un giorno in Potenza, capoluogo della provincia. Tutte le autorità erangli corse incontro in processione. Si reca con esse alla cattedrale, e fa cantare un
Te Deum
per glorificare i successi delle sue armi. Dopo di che, sceglie una fanciulla di una delle prime famiglie del luogo, e a viva forza la conduce seco.
Lasciando Potenza, corse ad assediare nel suo castello il barone Labriola Federici. Dopo averlo tenuto
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bloccato per diversi giorni, lo costrinse a rendersi insieme con la famiglia, promettendo che non sarebbe ad alcuno fatto male di sorta. Appena entrati i briganti, stuprarono la moglie e le figlie del barone: poi soddisfatte le loro voglie brutali, misero il fuoco alle porte del castello e gettarono nelle fiamme un fanciullo, che per miracolo fu salvato: venti anni or sono, egli viveva tuttora.
Un altro capo, soprannominato
Bizzarro,
aveva istruito alcuni grossi cani & fare la caccia agli uomini. Dopo essersi battuto, lanciava i cani sopra i fuggitivi. In tal guisa un officiale della guardia civica, addetto allo stato maggiore del generale Partoneaux, fu divorato. Dopo l’arrivo di Manhès, Bizzarro abbandonato dalla sua banda, non seguito che da due soli uomini, fu ridotto a tale disperazione, che per non farsi tradire dai vagiti di un fanciullo che eragli nato in quei giorni, lo sfragellò contro un albero. Allora la donna coraggiosa, che avea seguito là il bandito e che era la madre di quella creatura, risolvè di farsi giustizia da sé medesima. Aspettò che il brigante dormisse; prese il fucile di lui e lo uccise. Dopo di che osò presentarsi alle autorità di Mileto e richiedere il danaro promesso a chi avrebbe dato morte al Bizzarro. La somma le fu scrupolosamente pagata, ed essa si maritò e divenne una donna onesta.
Non parlerò di Basso Torneo, il
Re delle campagne,
che bruciò una caserma di gendarmeria, gettando nel fuoco i figli e le mogli de9 gendarmi assenti. Sono stanco di narrare questi orrori: pure voglio dirvi una parola di Parafante, che almeno avea potenza e audacia. Egli prese un giorno nel bosco di Sant’Eufemia un francese per nome Astruc, impiegato nell’amministrazione de’ Reali possedimenti. Gli impose per riscattarsi le seguenti condizioni: che tutte le famiglie de’ briganti detenute nelle prigioni dovessero esser
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poste in libertà; né bastava: dovessero anche esser fornite di viveri e di vesti. – Ora il governo disponeva di 60 mila baionette: vi erano 25 mila soldati nel campo di Piale sull’Aspromonte, riuniti per respingere qualunque sbarco si preparasse in Sicilia: e di que’ 25 mila uomini avea il comando il re medesimo. Pure le condizioni imposte da Parafante furono accettate ed osservate.
Altro aneddoto. Da Cosenza dovéa partire un battaglione, completo, comandato da un ufficiale superiore, esecrato in particolar modo dai briganti. Parafante ebbe l’audacia di fargli sapere per una specie» di araldo d’armi, che lo avrebbe raggiunto e circondato nella strada principale che da Cosenza conduce a Rogliano, e precisamente nel luogo chiamato Lago. L’ufficiale disprezzò l’avvertimento e si mise in marcia. Appunto nel luogo indicato, i briganti si gettarono sopra di lui ad un tratto; tagliarono a pezzi e sbaragliarono il battaglione. Due luogotenenti, Filangieri e Guarasci furono presi con venticinque soldati. I briganti adunarono un consiglio di guerra con tutti i formidabili accessorii propri di questi sinistri giudizi. Fu deciso che i due luogotenenti sarebbero fucilati dai loro propri soldati. A tale condizione questi avrebbero salva la vita.
Rifiutarono tutti; ma i due uffiziali ordinarono loro di obbedire, sperando per tal guisa impedire la morte di venticinque uomini. Dopo lunghe resistenze, col cuore straziato, i soldati eseguirono infine ciò che loro era imposto. Filangieri e Guarasci comandarono il fuoco e caddero. Dopo di che i venticinque soldati furono trucidati.
Ho un ultimo aneddoto, fra tanti che potrei citarne, da narrare: non si riferisce però a Parafante.
Una compagnia di volteggiatori era partita da Cosenza per recarsi a raggiungere il suo reggimento
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(il 29°) a Monteleone. Fece una tappa sotto folti castagneti che costeggiavano la via non lungi da Eogliano. Sopraggiunse in gran fretta una deputazione: il sindaco e i notabili di Parenti, villaggio scavato a breve distanza da quel luogo nelle montagne della Sila. Tutti portavano coccarde tricolori sui loro cappelli a punta; il sindaco avea la sua fascia. Invitarono i volteggiatori ad allontanarsi un po’ dalla loro strada per venire a riposarsi nel loro villaggio. Queste licenze aveano giustificazione nelle strade, dove i briganti retrocedevano e sviavano spesso le truppe. I volteggiatori accettarono quindi la cortese offerta dei deputati e li seguirono a Parenti, dove furono ricevuti a braccia aperte alle grida di
Viva i Francesi! viva i bravi!
si sparsero nelle case del villaggio, e ogni famiglia avrebbe voluto accogliere almeno uno di essi. Gli ufficiali dormirono nel palazzo municipale, e tutta la compagnia così disseminata si addormentò profondamente, dopo una faticosa giornata di marcia sotto la sferza del sole.
Nella notte, a un segnale prestabilito, gli abitanti di Parenti si gettarono sui volteggiatori francesi e li scannarono. Era un tranello teso da lungo tempo. Un sol uomo sfuggi da questo eccidio, e si recò a narrarlo al generale Manhès.
Il villaggio fu posto in fiamme. Manhès conosceva questa specie di guerra, ne la faceva co’ guanti bianchi. Egli fu l’istrumento di una giustizia inesorabile; non indietreggiò di fronte a qualsiasi violenza, ma in breve tempo pacificò il regno: Sacrificando un uomo, bruciando un villaggio, ne salvava dieci; egli infine prese sopra di se la responsabilità terribile degli atti di rigore, che furono poi causa di salvezza del paese. «Io non vorrei esser stato il generale Manhès, dice il Colletta a lui nemico, in uno de’ suoi scritti postumi; ma nemmeno vorrei che il generale Manhès noi
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fosse stato nel regno nel 1809 e nel 1810. Fu per opera sua, se questa pianta venefica del brigandaggio venne alla perfino sradicata.»
Più sotto avrò agio di narrare le punizioni di Manhès. Ora mi contento di accennare un solo atto, un atto di genio.
Nelle gole dell’Aspromonte stanno nascoste le comuni di Serra e di Mongiana, circondate di foreste interminabili e impenetrabili. Ivi imperavano i briganti più terribili: Calabresi senza paura, che attaccavano i battaglioni, i quali servivano di scorta agli ufficiali generali, quando essi recavansi a visitare le ferriere della Mongiana.
Un giorno questi briganti annunziarono alla autorità di Serra che essi erano pronti a sottomettersi: soltanto i capi non volevano presentarsi che di notte, e in una certa casa che designarono. All’ora stabilita, il sindaco, il comandante della Guardia Civica e il luogotenente francese Gerard della Gendarmeria reale, si recarono in questa casa. I quattro o cinque capi de’ briganti furono esatti all’appuntamento e, per guadagnar tempo, presero a discutere lungamente le condizioni, che erano state loro imposte. La casa frattanto fu circondata dai banditi, poi ad un tratto invasa; e il sindaco, il comandante della Guardia e l’ufficiale francese brutalmente scannati.
Pochi mesi innanzi la moglie del luogotenente Gerard era stata uccisa sulle montagne del Galdo fra Lauria e Castelluccio in uno scontro, in cui i briganti aveano sorpreso un convoglio di uniformi destinato al 20° di Infanteria francese. La scorta fu battuta, il convoglio involato, e i vincitori trionfalmente indossarono le uniformi rubate e decorate di spallette francesi.
Torniamo a Serra. Questo colpo di mano non era stato prevenuto, né contrastato, né punito; lo spavento avea paralizzato tutti gli abitanti della città.
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Non appena Manhès fu consapevole del fatto, ordinò che fosse distrutta la casa, ove i briganti erano stati accolti: non si obbedì. Manhès domandò al re qual castigo dovesse infliggere alla città. Murat gli rispose: – Fate ciò che volete, ma fate da voi stesso. Correte a Serra, correte in persona, esaminate e punite. –
Manhès corse a Serra a spron battuto prendendo per le foreste onde giungervi più presto. Lo annunziarono soltanto le trombe della sua scorta, le quali suonarono ad un tratto, all’ingresso della città, minacciose come le trombe del giudizio finale. La popolazione fu esterrefatta. Agli alberi, che abbellivano la piazza di quel villaggio, pendevano alcune teste mozzate, rosse di sangue rappreso. Manhès chiese cosa fossero; gli venne replicato, esser una vendetta delle famiglie in lutto, che aveano decapitato i proprietarii della casa ove il delitto era stato commesso. Manhès volse la testa, e si recò in una camera dove si chiuse, e dove non volle vedere alcuno. Durante una notte intiera meditò la punizione.
Era difficile. Non potevasi trucidare una popolazione industriosa, occupata alle ferriere che alimentavano le fornaci del paese, tanto più poi quando la maggior parte dell’esercito stava a poca distanza a tutela delle coste minacciate. Bisognava risparmiare gli abitanti e nel tempo stesso dare un esempio terribile.
La gente del paese credeva che la città sarebbe stata distrutta, e passò quindi la notte trasportando nei boschi gli oggetti più preziosi.
Al mattino, Manhès ordinò che tutta la popolazione si riunisse sulla piazza pubblica. L’ assemblea fu innumerevole; neppure uno vi mancò. Manhès entrò in mezzo alla folla e le parlò con veemenza e con una tale autorità di parola, da non potersi immaginare. Tutti tremavano. Ei disse loro che si erano
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condotti come uomini senza coraggio e senza onore, che neppur uno fra essi era innocente e che neppur uno sarebbe stato risparmiato. Immaginatevi lo spavento. Per punirli egli ebbe una luminosa ispirazione; fece ciò che il papa non osa più: mise la città sotto interdetto.
«Io ordino, esclamò, che tutte le chiese di Serra sieno chiuse, che tutti i preti, senza eccezione, abbandonino questi luoghi immediatamente e sieno trasportati a Maida. I vostri fanciulli nasceranno senza battesimo, i vostri vecchi moriranno senza sacramenti, voi sarete racchiusi nella vostra comune abbandonata; ne sfuggirete alla mia giustizia emigrando in un altro paese. Voi sarete per sempre isolati e chiusi nella vostra comune; gli abitanti delle vicine borgate vi faranno buona guardia, e se alcuno di voi tentasse uscire, sarà ucciso come un lupo.»
Bisogna conoscere il paese, per comprendere la desolazione e l’abbattimento onde fa cólto il popolo a tali parole. Manhès lasciò Serra il giorno stesso coi sessanta lancieri, che gli servivano di scorta. Quando partì, la città era deserta; ma appena entrato nella campagna, si imbattè in una processione di fantasmi; era la popolazione intiera in camicie bianche, co’ cilizi al fronte, a piedi nudi, inginocchiata; tutti si colpivano il petto con delle pietre, implorando misericordia: Uccideteci piuttosto, esclamavano essi, meglio è morire.
Manhès spinse il suo cavallo al galoppo con una energia inesorabile: e, strana cosa, a malgrado del clero che se ne affisse molto, in specie nelle alte sfere, la sentenza fu eseguita: tutti i preti, e perfino un vecchio ottuagenario che non potea camminare, emigrarono in massa a Maida.
Il risultato di questo interdetto fa ammirabile. «Ove le leggi umane sono impotenti, ha scritto il
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Vico, l’unico mezzo di infrenare gli uomini è la religione.» Gli abitanti di Serra si levarono in massa all’appello di un proprietario del paese, e diedero la caccia ai briganti, caccia incessante, accanita, feroce, che non ristette se non per acquistar forze maggiori, e non ebbe termine fino a che l’ultimo di que’ malfattori non fu morto di fame: neppur uno potè sfuggire alla loro vendetta.
Questa spedizione durò pochissimi giorni, e «dopo di essa l’interdetto fu tolto. La popolazione tutta intiera si recò in processione a Maida, per riprendervi i suoi preti. E dopo quel tempo per difendersi il paese non ebbe più bisogno di truppe: la guardia nazionale occupò un piccolo forte scavato in una gola della montagna, e vi si mantenne coraggiosamente. Alla loro esclamazione ordinaria
per santo Dia/volo,
i montanari di quella provincia sostituirono quella
per santo Manhès.
Da ottobre a dicembre, 1200 briganti furono racchiusi nelle prigioni delle Calabrie. Coloro che non si erano resi, caddero poco a poco nei boschi. L’ordine era ristabilito ai primi giorni dell’anno 1811.
fonte
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