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BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VIII)

Posted by on Ago 31, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (VIII)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008


VII.

La luogotenenza del general Cialdini (luglio-novembre 1861) – La reazione repressa – Riguardi al partito di azione – Popolarità del generale – TI brigantaggio diminuisce – Storie di cannibali – Pontelandol/o e Casalduni – Loro delitti e loro gastighi – Le repressioni ne’ tempi passati, e il generale Manhès – La pacificazione delle provincie meridionali.

Il mio assunto d’ora innanzi è più facile, e procederò con celerità. I lettori, che ebbero la pazienza di seguirmi fin qui, sanno ornai ciò che fosse il brigantaggio. Non stancherò quindi la loro attenzione con una sequela di aneddoti, che ripeterebbero fatti già narrati, sotto nomi diversi. Furti, rapine, proprietari assaliti, rapiti, trascinati, riscattati, uccisi, se non pagavano il riscatto, borghi invasi, posti disarmati, gigli sostituiti alle croci di Savoia, case derubate e spesso incendiate, archivi bruciati, prigioni aperte, e, all’avvicinarsi delle truppe, fughe precipitose con un rinforzo di detenuti evasi, e di contadini saccheggiatori, tutto ciò al grido di Viva Francesco II.

Tali sono le spedizioni de’ briganti, sempre eguali. Non mi fermerò dunque che sopra due o tre fatti importanti.

Domando scusa alle numerose Comuni delle quali non narrerò i combattimenti, ne le sconfitte, né i trionfi: ma io non faccio qui la storia del brigantaggio. Si tratta ora di affrettare il passo: noi marciamo dietro al general Cialdini.

Egli è un condottiero pieno di ardore, e a mala pena si può seguirlo. A quarantasette anni ha percorso tutta la carriera che un soldato può battere in Italia. È generale d’armata, cioè ha il grado più elevato nella gerarchia militare; è luogotenente del Re, prima autorità del paese; più in alto non può elevarsi.

A 16 anni egli combatteva nella insurrezione delle Romagne,

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poi è stato in Spagna, a Milano, in Crimea, nel Tirolo; ha sbaragliato Lamoricière, preso Ancona, Gaeta e Messina, e, lo ripeto, non ha 50 anni.

Al suo ritorno in Napoli aveva poche truppe e un nome impopolare a causa dei suoi dissensi con Garibaldi. Pure egli doveva distruggere il brigantaggio in due terzi delle provincie, la cospirazione nella capitale, la diffidenza e il malcontento ovunque, nani, mare lo spirito pubblico, affezionarsi il paese, ricondurlo alla causa italiana, rialzare o almeno sostenere la fede vacillante dell’Europa.

Evidentemente se il mezzogiorno rimaneva agitato, tormentato, travagliato, se il brigantaggio si volgeva, in guerra civile e il Piemonte continuava ad occupare queste provincie senza possederle, l’Italia non era ancor fatta.

– Voi avete Napoli, diceva egregiamente un generale francese, ma bisogna provare che l’avete.

Cialdini accettò la sua missione e si pose all’opera. Riuscì fin dal primo giorno. Il suo proclama ai Napoletani era ben pensato, li mise a parte nella sua impresa; disse loro che senza di essi nulla poteva. Poi annunzio che voleva colpire non solo gli assassini, mar anche i cospiratori, dicendo: «Quando il Vesuvio rugge, Portici trema.»

Era un’ immagine ed un’allusione. Portici piccola città alle falde del Vulcano, le eruzioni del quale la scuotono, era un ricettacolo di cospiratori borbonici.

Tosto il gran partito della paura divenne favorevole a Cialdini. L’opposizione ritirò i suoi artigli. Alcuni giornalucci d’un soldo abbaiavano ancora; furono sequestrati, strappati e soppressi dalla popolazione: gli scrittori vennero sottoposti a giudizio. Più tardi, aumentando il successo, la cospirazione fu colpita nel cuore e nella testa: fu sorpreso un conciliabolo a Posilippo: vennero arrestate delle

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Altezze a Portici: in un sol colpo caddero nelle mani della polizia una ventina di generali, senza contare i prelati: zuavi pontificii e legittimisti francesi che eran qui a far propaganda furono esiliati; De Cristen posto in prigione. Infine si osò prendere un gran partito: il dignitario della Chiesa napoletana fu posto a bordo di una nave, e il popolo che, tredici anni or sono, avea pianto a calde lacrime, vedendo partire i Gesuiti, fischiò senza misericordia la carrozza, che. conduceva al porto il cardinale.

Il partito borbonico fu quindi abbattuto senza remissione. Restava il partito di azione, più pericoloso, perché più popolare. Messo da parte, disprezzato, perseguitato anche con un eccesso di rigore dalla consorteria ministeriale, continuava a vivere e cresceva ogni giorno in grazia degli errori del potere e del popolare malcontento. Nelle ultime elezioni i candidati radicali erano stati nominati, a malgrado gli sforzi e i mezzi adoperati da altri. Gli uomini di azione erano influenti, sopra tutto perché si dicevano legati con Garibaldi: rimasti infatti in corrispondenza coll’eremita di Caprera, pretendevano proseguire l’opera di lui. Per questo motivo, e per le loro idee ostili all’autocrazia militare, dovevano esser gli avversari naturali del generale Cialdini.

Furono invece i suoi fautori più risoluti. Cialdini avea loro steso la mano, fin dal suo arrivo in Napoli. Anzi che sognare una conciliazione impossibile fra i liberali e i retrogradi, decretò (è la vera parola) una coalizione necessaria fra tutti gli Italiani contro i borbonici. Chiamò a sé gli uomini più avanzati, i garibaldini, i repubblicani stessi e lì spinse insieme uniti contro il nemico comune. Usò ad essi anche qualche condiscendenza. Lasciò cadere il segretario Spaventa, loro capro emissario, a malgrado de’ servigii prestati da questo funzionario, e a malgrado dei suoi dieci anni di galera sotto Ferdinando IL

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Alcuni mascalzoni, di quella setta, vollero fischiare i deputati ministeriali che tornavano da Torino; Cialdini li lasciò fare e non punì la mariuoleria. Ma quando più tardi si crederono assai potenti per imporsi al padrone e, per esempio, armar delle bande di quattro mila uomini per conto loro, Cialdini li fece imprigionare. Egli voleva trovare in essi un sostegno, ma a patto di tenerli nelle sue mani.

Non già che ei rifiutasse il concorso delle milizie nazionali: anzi lo richiese nella sua pienezza fin dal primo momento. In ogni distretto ordinò la formazione di due compagnie di guardie nazionali mobili. quest’arruolamento riuscì a meraviglia, e molti distretti fornirono %tre o quattro compagnie invece di due. In tal guisa vennero riuniti 14 mila uomini. Cialdini aveva bisogno di questi rinforzi? Ne dubito. I soldati bastavano contro i briganti. Ma era utile interessare il paese in questa campagna, e importava sovra ogni altra cosa mostrare all’Europa che l’armata non marciava sola, che essa combatteva per il popolo e col popolo, e che non era venuta a reprimere i moti spontanei delle popolazioni.

Infine l’abilità suprema di Cialdini consistè nel riconoscere e acclamare l’eroe popolare. Quando il municipio organizzò la festa del 7 settembre, anniversario dell’ingresso di Garibaldi, il luogotenente dichiarò che gli era stata tolta la sua idea. Ne felicitò il municipio per conto proprio e in nome del re: disse che «l’ingresso in Napoli del celebre dittatore, innanzi al quale fuggirono un’armata e una dinastia, era l’atto il più ammirabile, che la sagacia e la temerità abbiano compiuto, il fatto più fecondò di risultamenti che la storia ricordi e racconti.»

La sagacia e la temerità:  queste due parole significano molto. Si ammirano volentieri in altri le qualità che si riconoscono in se medesimi, senza pensarvi.

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Cialdini tesseva il proprio elogio. Molta arte e molta audacia, con un aria di franchezza e di buonomia; ecco qual era tal uomo.

Ei piacque a Napoli e, per piacere ancora di più, passò la Guardia nazionale in rivista, a malgrado del caldo, tutte le domeniche. Fu acclamato come Garibaldi.

In tal guisa egli divenne padrone nel tempo stesso de’ borbonici repressi, de’ patriotti accarezzati, e del popolo.

Restavano i briganti. In Francia ha recato sorpresa che egli non li distruggesse completamente in due mesi: pare che siensi dimenticate le guerre di Algeria e del Caucaso. E come prendere un nemico sempre nascosto, sempre fuggiasco, che si chiude ne’ boschi, si ferma sulle alture, e vi sparisce dalle mani quando credete di averlo afferrato?

L’uomo che meglio di ogni altro ha fatto questa guerra di montagne, il generale Manhès, annientò alcune bande in pochi giorni, ma aspettò l’inverno per attaccarle. La neve caccia i lupi dalle alture, le foreste cui cadono le foglie non li nascondono più, il freddo e la fame li uccidono. Dovevasi imitare il rigoroso esempio, e attendendo le brezze lasciare le messi e le vendemmie in balia di queste tribù di banditi?

Cialdini cominciò dal dividere le bande. Prima occupò il territorio fra Avellino e Foggia, ristabilì le comunicazioni con l’Adriatico, e isolò i briganti del mezzogiorno. Quindi in Calabria e segnatamente nel distretto di Cotrone, ove eransi rifugiati, fu facile distruggerli. I proprietarii stessi si posero alla testa dei loro contadini e delle loro guardie armate, dacché là specialmente la guerra civile era un pretesto alla guerra sociale, era una sollevazione de’ poveri contro i ricchi.

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Tutti quelli che sono vestiti con un po’ di decenza si chiamano in quelle provincie galantuomini: e da ciò ne resultava una confusione d’idee favorevolissima ai ladri. Il galantuomo, Vittorio Emanuele, era il re delle classi ben vestite: Francesco, il re de’ proletarii e degli indigenti. Dunque Viva Francesco II, e si rubava senza scrupolo.

I briganti delle Calabrie furono battuti dai proprietari e chiusi ne’ boschi impenetrabili della Sila, ove rimarranno forse fino all’inverno. Ma nel centro e a settentrione il brigantaggio politico era più pericoloso, a causa della vicinanza di Roma. I ladri di Avellino eransi gettati nella provincia di Benevento, ove caddero un giorno su una quindicina di borgate derelitte. Il colonnello Negri si adoperò a tutt’uomo per sottometterli. Fuggirono finalmente verso il settentrione, nelle montagne del Matese. Il generale Pinelli spazzava nel medesimo tempo le pianure intorno a Nola, cacciando i falsi Vandeesi, che tiravano sui convogli e toglievano le guide delle strade ferrate.

Poi un giorno imbarcandosi, senza dir cosa alcuna, fece il giro della penisola, e cadde a un tratto in Puglia, a Viesti. Là con pochi bersaglieri mise in fuga quattrocento briganti, i quali avevano commesso ogni sorta di orrori, scannando, fucilando, bruciando senza pietà. «Furono uccisi nella mischia Tropiccioni e suo figlio, Giovannicola Spina, e di quest’ultimo mangiarono un pezzo di carne!» È un prete che ha scritto tali parole: ho letto la sua lettera, e altre testimonianze hanno confermato il fatto, aggiungendovi ragguagli mostruosi.

Volete ancora udire una istoria atroce? Ascoltatela, e sarà l’ultima: giova narrarla per giustificare le punizioni.

II 7 agosto i briganti chiamati da cinque canonici e da un arciprete, invasero Pontelandolfo, Comune

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sulla destra di Cerreto, nelle montagne. Accolti con gridi di gioia dalla plebe, al ritorno di una processione, saccheggiarono l’ufficio municipale, la polizia, il corpo di guardia, le botteghe, e ferirono Filippo Lombardi, settuagenario, che fu strappato dalle loro mani da sua moglie: entrarono di viva forza in casa del percettore Michelangelo Perugino, e dopo averlo ucciso, mutilato, spogliato, bruciarono la casa di lui e gettarono il suo cadavere nudo nelle fiamme.

Ma questo è nulla. Pontelandolfo rimase nelle mani della plebe; 3000 mascalzoni costituirono il governo: due villaggi vicini, Casalduni e Campolettere, insorsero.

Quattro giorni appresso, l’11 agosto, quaranta soldati italiani e quattro carabinieri furono inviati a Pontelandolfo per arrestare i briganti nella loro fuga. Non ebbero la pazienza di attendere, vollero attaccarli. Tutto Pontelandolfo fu sotto le armi. L’ufficiale italiano (Luigi Augusto Bracci, luogotenente del 36°) e i suoi 42 uomini (gli altri due erano rimasti indietro) furono assaliti e doverono rifugiarsi in una torre. Dopo una vigorosa resistenza, ripiegarono sopra Casalduni: un prete avea lor detto che questo villaggio era occupato dalle truppe. Per la via furono stretti e attaccati ai fianchi dalla gente di Pontelandolfo, poi arrestati da quelli di Casalduni, che eransi imboscati per attenderli. Circondati allora, sopraffatti dal numero, furono scannati tutti, eccetto un solo, che ebbe il tempo di gettarsi in una siepe e narrò poi questa orribile istoria. Non fu una carneficina, ma un eccidio. I contadini erano cento contro uno, e volevano tutti il loro pezzo di carne. – Non invento nulla, anzi cerco di attenuare.

La mattina del 13 giunse il colonnello Negri cogli Italiani: chiesero de’ loro compagni; fu loro risposto che avevano cessato di vivere: domandarono i loro cadaveri:

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non furono trovati: essi stessi li cercarono, e sorpresero membra tagliate, brani sanguinosi, trofei orribili appesi alle case, e esposti alla luce del sole. Appresero che avevano impiegato otto ore a dar la morte a poco a poco al luogotenente ferito soltanto nel combattimento. Allora bruciarono i due villaggi.

«Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni.» Tale fu il dispaccio del luogotenente colonnello Negri.

Si è gridato molto contro questi rigori, si è lamentata la fucilazione di alcuni individui a Somma, convinti di aver prestato mano ai briganti. Il partito che glorifica gli assassini commessi dai borbonici, non ammette le punizioni inflitte dalla giustizia militare. Io nulla oppongo a questa generosa pietà.

Soltanto vo’ ricordare le repressioni di Manhès, il quale bruciò anche alcuni villaggi, e le traggo non dal Colletta, l’autorità del quale è stata rifiutata, ma dallo storico Carlo Botta, che al generale francese fu legato di amicizia. È un bel brano che cito e che completerà questo studio.1 «Per arrivare al suo fine quattro mezzi mise (Manhès) in opera: notizia esatta del numero dei facinorosi, comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento de’ buoni, giudizi inflessibili.

Fé’ ritirare bestiami e contadini ai borghi più grossi che erano guardati da truppe regolari, fé’ sospendere tutti i lavori di agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque, che, ai corpi armati da lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori a correrla i corpi dei proprietari armati da lui comune per comune, intimando loro, fossero tenuti a tornarsene co’ facinorosi o vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi,

1 Botta, Storta d’Italia dal 1789 al 1814, Libro XXIV.

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che truppe urbane, che andavano a caccia di briganti, e briganti che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhès ordinato, rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e forse non con quella retta inflessibilità, che egli usava, ma con crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava lavorando» sui campi, fa impiccata.1 Fu crudelmente tormentata una fanciulla, alla quale furon trovate lettere indirette ad uomini sospetti…

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e privo di vettovaglie, perivano, o nei combattimenti che contro gli urbani ferocemente sostenevano, morivano, o preferendo una morte pronta alle lunghe angosce, o da se medesimi si uccidevano, o si davano volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi condotti innanzi a tribunali straordinari, composti d’intendenti delle provincie e di procuratori regii, erano partiti in varie classi; quindi mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhès. Erano o strangolati sui patiboli o soffocati dalla, puzza in orribili  prigioni: gente feroce e barbara che meritava supplizio, non pietà. Né solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi li favoriva, o poveri o ricchi, o quali fossero o con qual nome si chiamassero; perocché, se fu Manhès inesorabile, fu anche incorruttibile.»

Seguono narrazioni atroci di gastighi che renunzio a recare. Invio il lettore al libro del Botta: vi troverà processione di suppliziati, vittime strappate al boia dai contadini che le laceravano vive colle loro

1 Quest’antica storia è stata riprodotta dai giornali clericali, i quali l’hanno narrata come un delitto recente, commesso dai soldati di Cialdini.

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unghie, torri spaventose ove i prigionieri erano gettati confusi con i cadaveri, e dove i moribondi rodevano i morti; infine (così chiude lo scrittore il libro XXIV della sua Storia) «le teste e le membra degli appiccati appese sui pali di luogo in luogo rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggio a Napoli. Mostrò il Grati cadaveri mutilati a mucchi; biancheggiarono e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa. Così un terrore maggiore sopravanzò un terrore grande. Dovente la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che ai viandanti; si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori all’agricoltura; vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch’egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie. Manhès la fece: il suo nome saravvi maladetto e benedetto per sempre.»

Ricordo ora che il generale conte Manhès, che erasi battuto per Murat, visse dipoi in Francia, ove gli fu conservato il suo grado e il suo titolo e fa particolarmente tenuto in onore da Luigi XVIII. Il re Ferdinando II, che gli fece più tardi la migliore accoglienza, più volte ha detto di lui: «Dobbiamo a Manhès la presente tranquillità delle Calabrie.»

Per ultimo trascrivo questa frase da un rapporto recente ed officiale di un governatore: «Manhès distrusse il brigantaggio delle Calabrie in pochi giorni. Quando noi leggevamo la storia di quest’uomo, lo chiamavamo tiranno sanguinario, oggi lo sospiriamo.»

Alla pari di quelle di Manhès, le punizioni assai più miti del generale Pinelli riuscirono contro gli insorti dell’anno in cui siamo. Si è esagerato il rigore di questo generale: all’incontro i briganti si lodano della clemenza di lui. Egli non ordina una esecuzione capitale, se non quando la grazia è impossibile. Non lascia fucilare (e non avviene sempre) che i delinquenti

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volgari presi colle armi alla mano. Coloro che si arrendono, hanno salva la vita: coloro che non hanno commesso nè furti, ne assassinii, sono posti in libertà. Così i briganti cacciati dapprima nelle pianure, poi respinti sulle alture del Gargano, del Matese, di Noia, di Somma, del Taburno, della Sila, si son resi in frotte, in specie i soldati sbandati, i disertori, i refrattari, dei quali 30 mila almeno son già partiti alla volta dell’Italia settentrionale.

Ecco dunque repressa la reazione. Essa procedeva a caso, senza un sistema, senza un concetto. Si potè credere un giorno che essa volesse gettarsi sopra Napoli; un colpo di mano sulla capitale sarebbe stata infatti la sola cosa da tentarsi. In questo piccolo stato sormontato da un capo enorme, basta comandare nel forte Sant’Elmo e risiedere nel palazzo reale per dirsi padrone del paese. Alcuni moti simultanei verso la fine di luglio e ai primi giorni di agosto, nelle provincie di Bari, di Foggia, di Salerno, le turbolenze di Gioia, di Viesti, d’Auletta, l’apparizione d’alcune piccolissime bande ne’ dintorni di Napoli, alcune lettere anonime al luogotenente, che lo minacciavano di una pugnalata, una recrudescenza di furfanterie nei borbonici e ne’ fogli clericali, gli imbarchi a Civitavecchia di zuavi pontifici vestiti colle camicie rosse, i conciliaboli di Roma e di Marsiglia, senza contare quelli di Napoli e di Portici, i proclami, gli eccitamenti, le minacce loro, tutto ciò fece credere ad un gran colpo che fortunatamente mancò. Cialdini fece armare i forti, per rassicurar Napoli, non per bombardarla (come dissero certi fogli rabbiosi), ordinò delle crociere sul littorale. raddoppiò di vigilanza e di vigore. Non vi furono sbarchi di zuavi, ne colpi di mano su Napoli, e neppure una dimostrazione in favore di Francesco II. In alcune borgate insorte la reazione fu schiacciata prima che conosciuta.

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E diminuite ogni giorno dalle sconfitte e dalle defezioni scompaiono le bande: l’autorità regolare ha il disopra: gli sbarchi tentati muovono a riso, e l’inverno spazzerà le alte cime e le grandi foreste.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html#Cialdini

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