CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (VI)
Ordine di ritirata
Il reFrancesco, preoccupato, ha chiesto ai suoi consiglieri militari il motivo per cui le tre colonne di Girgenti, Alcamo e Trapani non si sono mosse in marcia convergente verso gli sbarcati. Non riesce a capire le difficoltà di sbaragliare mille uomini con un’armata di venticinquemila.
Egli ha riunito il Consiglio di Stato per affrontare il problema dello sbarco in Sicilia dei filibustieri. Ha invitato l’anziano e glorioso maresciallo Filangieri per proporgli la carica di luogotenente. È l’unico tra i generali e i ministri di Francesco ad avere il coraggio, la capacità e il curriculum per ricoprire quella carica in un momento così delicato. E gode anche della stima e della simpatia della giovane regina bavarese. Filangieri ha titubato, ma alla fine ha accettato, dettando però delle condizioni: al comando dell’esercito in Sicilia deve esserci personalmente il Re; lui accetterebbe la carica di capo di stato maggiore. Inoltre deve essere compiuto un gesto politico fondamentale per salvare la dinastia: proclamare la costituzione. I ministri hanno rifiutato la proposta, soprattutto perché contrari all’assenza del Re dalla capitale, dato che si teme lo scoppio di una rivolta. Ma chi mandare allora in Sicilia? Alessandro Nunziante[1]? Francesco Pinto Y Mendoza d’Ischitella[2]? No, si sono defilati con stile. Filangieri ha proposto il generale Ferdinando Lanza, settantacinquenne palermitano, che gode della sua stima, poiché è stato alle sue dipendenze nella spedizione in Sicilia del 1849. Poco importa che Lanza, ispettore della cavalleria di linea, è tanto obeso da non poter salire sul cavallo. Castelcicala è esonerato e sostituito da Lanza che deve partire immediatamente per Palermo.
[1] Nunziante, appartenente a una famiglia di militari devotissimi ai Borbone, era uno dei più giovani generali borbonici, era nato a Messina nel 1815 e da colonnello si era occupato dell’organizzazione e dell’addestramento del Corpo dei Cacciatori, diventato, per l’efficienza e la manovrabilità, il vanto della fanteria napoletana; divenuto aiutante generale di Francesco II, godeva della sua totale fiducia.
[2] Ischitella, napoletano di 72 anni, appartenente a una nobile famiglia di origine pugliese, era un vecchio ufficiale murattiano ed aveva partecipato alle campagne di Calabria del 1809, di Russia del 1812 (durante la quale fu nominato aiutante di campo di Murat), di Germania del 1813, d’Italia del 1814 e del 1815. Finite le guerre napoleoniche, aveva raggiunto il grado di maresciallo di campo ad appena 27 anni. Entrò nell’Esercito Borbonico nel 1818; poi, fu espulso per i moti del 1821. Reintegrato nel grado nel 1848, fu nominato aiutante del Re e, dopo, ministro della guerra. Fu durissimo nella repressione degli insorti, ma nel 1860, visto il cambio di direzione del vento degli avvenimenti, rifiutò l’incarico di Luogotenente del Re in Sicilia e si defilò.
C’è un altro problema: i battaglioni di rinforzo che avrebbero dovuto sbarcare a Marsala il 13, in realtà sono sbarcati il 14 a Palermo, così non possono più partecipare al piano con azione a tenaglia progettato da Castelcicala. Le linee telegrafiche non sono state riparate, e dei corrieri inviati, nessuno è rientrato a Palermo. Castelcicala ha riunito il consiglio dei generali, dove si deve sviluppare il nuovo piano di battaglia. Anziché spingere in avanti le colonne mobili per attaccare i filibustieri, si decide di concentrare le forze attorno a Palermo. Landi, ricevuto il battaglione del 10° di linea del ten. col. Giuseppe Pini, deve ripiegare con tutta la colonna su Partinico, schierarsi a difesa, dichiarare lo stato d’assedio e respingere qualunque attacco dei ribelli. Castelcicala invia l’ordine per corriere, ma arriverà o sarà bloccato dagli insorti?
Landi ha ancora in possesso i vecchi ordini: riunire i tre battaglioni e attaccare verso Salemi. La sua situazione, però, non è semplice, poiché le colonne di vettovaglie vengono bloccate e razziate lungo il tragitto; le vie di comunicazione con Alcamo e Palermo sono in pericolo; il numero degli insorti aumenta di ora in ora. Cosa farà il vecchio Landi, sofferente di reumatismi e di guallera[1]? Egli esprime così il suo stato d’animo e le sue intenzioni al Luogotenente:
Le masse degli insorti crescono sempre di più, e vanno a stanziarsi tutte in Salemi, dove sembra che abbiano fissato quartiere generale. Ivi trovansi pure gli emigrati sbarcati a Marsala. Sarebbe grande imprudenza muovere su Salemi, perché il paese è circondato da folte boscaglie di uliveti, ed è naturalmente favorevole ad una imboscata.
Valutata la situazione, Landi decide di attendere il nemico sulle forti posizioni di Calatafimi.
Al vespro l’8a compagnia dei cacciatori riempie la grande chiesa di San Michele Arcangelo, sita nel centro del paese vicino al municipio. Il cappellano militare don Raffaele Vozza sta celebrando Messa. Nell’omelia incoraggia i soldati ad essere pronti al combattimento come gli arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele, pronti al martirio come San Sebastiano. Dagli undici altari le statue e i dipinti dei santi sembrano guardare paternamente e incoraggiare quei soldati che hanno il compito di difendere il trono e l’altare, un re figlio di una santa e il suo regno. Un brutto segno sta nel fatto che da un paio di giorni è scomparso il parroco, don Antonino Pampalone[2]. Forse non gradisce i borbonici?
La Messa è finita, ma i giovani napolitani non possono andare in pace. I loro pesanti scarponi calcano rumorosamente il pavimento in terracotta, poi escono all’aperto segnandosi con devozione. È spiovuto e nel cielo una timida luna cerca di affacciarsi tra le nuvole. Francesco si inquadra pensoso, nella speranza che la Vergine Maria lo guardi da ogni male e, soprattutto, dalle pallottole rivoluzionarie. Si marcia sulla via principale e poi su quella intitolata al beato Arcangelo, fino a giungere alla casa dei gesuiti, temporaneo alloggio per il battaglione. Il tenente Di Napoli aduna il plotone e invita i suoi soldati a pulire e verificare le carabine, controllare le munizioni e le baionette. Domani il battaglione uscirà in esplorazione e si potrebbe incontrare il nemico. Ma chi è il nemico? Gli insorti? I filibustieri? Ambedue?
Francesco e Rucchitto hanno eseguito l’ordine, sotto gli occhi attenti del caporale e del sergente. Le armi, le buffetterie, la divisa sono pronte e poste lì vicino. Ora, spogliatisi, i due amici si sono gettati stanchi sui pagliericci buttati sul pavimento. Francesco ha mille pensieri. Vorrebbe pregare, ma il pensiero di Anna, di sua madre, di suo padre, del suo borgo, lo distrae e ricomincia più volte da capo l’Ave Maria. Egli, titubante, si gira verso Rucchitto, poi lo strattona, tirandolo fuori dal quel mondo dei sogni in cui è già precipitato. Rucchitto, con voce bassa e impastata, chiede cosa vuole.
«Ce la faremo? Torneremo a casa, Rucchitto?»
È questa la domanda cruciale. Rucchitto ha sonno e vuol togliersi dai piedi l’amico pauroso, così lo rassicura subito.
«Certo che torneremo a casa. Quei pochi briganti non riusciranno a sconfiggere noi cacciatori del Re e le nostre moderne carabine. Appena ci rimanderanno su, t’inviterò nella mia masseria, dove, per festeggiare, mangeremo a crepapelle mozzarella e prosciutto. Ora dormi».
Il buio ha invaso lo stanzone e il silenzio della notte è spezzato a tratti dal russare dei suoi camerati, mentre Francesco, con gli occhi sbarrati, pensa, pensa, pensa…
Nel frattempo sono giunti in paese l’ambulanza e il battaglione del 10° di linea «Abruzzo», comandato dal tenente colonnello Giuseppe Pini, quello stesso reggimento che nel 1848 ha fatto meraviglie di valore accanto ai toscani, ritardando la manovra d’aggiramento degli austriaci usciti da Mantova e salvando lo schieramento piemontese. Ora il generale Landi ha la brigata al completo: tre battaglioni di fanteria, uno squadrone di cavalleria e mezza batteria, per oltre tremila uomini ben armati ed equipaggiati. Non ha più scuse, deve uscir fuori ad affrontare il nemico.
[1] Ernia.
[2] Antonino Pampalone (1810-1866), prete e fervente liberale, deputato per Calatafimi al Parlamento Siciliano del 1848.
Domenico Anfora
tratto da