Vedremo, per sommi capi, quali furono gli interventi di Carlo III in favore dell’agricoltura, del commercio e della diminuzione dei carichi tributari e i suoi interventi contro lo strapotere dei Baroni isolani nei confronti del popolo. Verificheremo quindi il parere di uno dei massimi storici a livello mondiale, Denis Mack Smith che, nel suo celebre ‘Storia della Sicilia medievale e moderna’, giunto alla diciassettesima edizione, pur non disdegnando durissime critiche ad alcuni aspetti dell’operato dei sovrani del tempo, ci fornisce alcuni spunti di non poco conto attraverso i quali è possibile meglio comprendere quale fosse la difficile realtà di quel periodo storico.
In questa puntata raccontiamo il Regno di Carlo III, periodo storico di pace, di sviluppo, di grandi opere pubbliche e di un sistema pensionistico che, all’epoca, primeggiava in Europa per attenzione e solidarietà verso i lavoratori. Pensate un po’: l’Italia e la UE di oggi hanno ‘partorito’ la legge Fornero per massacrare i lavoratori, mentre allora ci si preoccupava dei pensionati, degli invalidi, delle vedove e dei figli delle vedove nel caso in cui queste ultime si risposavano. Oggi si chiamerebbe Stato sociale: quello che in Italia stanno smantellando. di Giovanni Maduli vice presidente del Parlamento delle Due Sicilie-Parlamento del Sud® (Associazione culturale), e componente della Confederazione Siculo-Napolitana Nelle prime dieci puntate di questa rubrica abbiamo appurato, seppure in maniera estremamente concisa e certamente insufficiente, alcune innegabili verità relative alle violenze, alle torture, agli stupri, alle illegalità attraverso le quali furono aggredite e annesse la Sicilia ed il Sud. Verità che, come abbiamo scritto in precedenza, non possono andare soggette ad “interpretazioni” di sorta. Verità che testimoniano inequivocabilmente cosa veramente fu quello che ancora, con un falso e subdolo eufemismo, viene indicato come “risorgimento”. Nelle successive sei abbiamo visto “chi” volle, quando e perché, mettere fine ad un Regno che, contrariamente a quanto ci si è voluto far credere, con le sue equilibrate politiche sociali ed economiche caratterizzate da uno spiccato senso di solidarietà, rappresentava certamente un ostacolo all’affermarsi di quella borghesia di stampo capitalistico che, attraverso quelle atroci violenze, si impadronì del potere politico ed economico mortificando mortalmente le naturali e legittime aspirazioni del suo popolo. Dalla diciassettesima puntata stiamo infine verificando “cosa” sia stato in realtà quel Regno tanto vituperato dai mass media del tempo e fino a poco tempo addietro. In questa puntata tratteremo, ancorché sommariamente, del fiorire delle arti, dell’architerrura e della cultura in Sicilia e in tutto il Sud; della realizzazione del porto di Girgenti (Porto Empedocle) e delle positive ripercussioni economiche che tale importante opera ebbe per tutta la Sicilia; tratteremo infine dell’alleviamento delle tasse e, soprattutto, dell’istituto pensionistico, primo al mondo, con il quale si veniva incontro alle necessità degli anziani o delle loro vedove. Il regno di Carlo III fu un raro periodo di pace che assicurò a tutti i siciliani una vita tranquilla e prospera. Innumerevoli provvedimenti furono presi in tutti i settori. Nel 1748 fu indetto il censimento della popolazione. Grande incremento ebbero i cantieri navali per la costruzione specialmente di legni commerciali. In agricoltura fu proprio la Sicilia che additò all’Italia ed all’Europa la maniera di coltivare i gelsi, di governare i bachi, di estrarne la seta e di tessere i drappi. La pastorizia, allora estremamente diffusa, venne difesa. La diligenza del governo riuscì a mantenere lontana la malattia della vescica detta “cancro volante” da cui erano stati colpiti i buoi e le vacche nel Piemonte e nel Veneto nel 1757. Nel campo sanitario Carlo III promulgò il 9 agosto 1749 una prammatica che permetteva il taglio cesareo e prescriveva il modo come dovesse eseguirsi. Per quanto riguarda le scuole furono potenziate le scuole pubbliche tenute dai Gesuiti e dai padri Scolopii e in quelle dei Seminari Vescovili fu consentito l’accesso a tutti, anche a coloro che non intendevano intraprendere la carriera ecclesiastica. Nel 1760 la Biblioteca di Casa Professa a Palermo ebbe accordata la rendita di onze settanta per salario dei custodi e per mantenerla ed arricchirla. Vennero pubblicati un vocabolario etimologico italiano e latino ed un dizionario siciliano-italiano-latino. Fiorirono le Arti. Nella scultura a Palermo vennero fuse le statue dell’imperatore austriaco Carlo VI e della sua consorte e col loro bronzo ne furono fatte altre due raffiguranti Carlo III e l’augusta sua sposa. Carlo III era sposato con la principessa Amalia Walburga di Sassonia, figlia del re di Polonia Federico Augusto III. Tra gli architetti siciliani emerse il sommo Filippo Juvara, che tra le tante sue opere costruì anche la Chiesa di Superga a Torino ed il Palazzo Reale a Madrid. Ma il motivo per cui Carlo III non doveva essere e non dovrà mai essere dimenticato dai girgentani e soprattutto dai “marinisi” è quello di avere deciso ed attuato, su sollecitazione del vescovo Lorenzo Gioeni, la costruzione del nostro porto (Porto Empedocle n.d.a.)… La nostra rada che per secoli aveva rappresentato uno dei punti di imbarco più importanti di tutta la Sicilia, pur senza alcuna struttura portuale se non un modestissimo pontile in legno, divenne un vero e proprio porto con strutture in muratura possenti e con un molo della lunghezza di 400 metri. Quest’opera che rappresentò una delle massime realizzazioni nel campo dei lavori pubblici del regno borbonico doveva determinare l’affrancazione del nostro centro marinaro dallo status di borgata di Agrigento. Nel 1853 infatti un altro re borbonico, Ferdinando II, decretava l’erezione a Comune autonomo della nostra borgata e gli dava il nome di Molo Girgenti. … Il nuovo porto, intanto, incominciava ad assolvere i compiti per i quali era stato costruito. Le esportazioni di grano e cereali superarono ogni precedente. Il raccolto granario del 1765 fu così straordinario per quantità che oltre ad essere sufficiente per tutto il regno se ne poté esportare una grande quantità nei paesi stranieri. Era però necessario che il re aprisse le tratte che fino allora, per non affamare il regno, erano state chiuse. Non mancavano taluni, incaricati di provvedere di grani le potenze straniere, di dare ad intendere a Napoli questo affinché le tratte restassero chiuse e loro così avessero la possibilità di acquistare il grano a prezzo vile, perché i produttori, non potendolo esportare erano costretti a venderlo a qualsiasi prezzo. Questo danneggiava soprattutto i baroni che erano i maggiori proprietari ed allora essi decisero di mandare a Napoli il cav. Ferdinando Gravina, fratello del principe di Ramacca, per spiegare alla Corte la reale situazione. Ferdinando Gravina riuscì a persuadere il monarca ed i suoi ministri ed ottenne la libertà delle tratte. Ottenuta questa libertà, si calcola che siano stati esportati in paesi stranieri 557.000 salme di frumento da tutta la Sicilia per cui cominciò ad abbondare il denaro, rifiorì il commercio e migliorarono le condizioni generali di vita per tutti. – Giovanni Gibilaro, I Borboni e il Molo di Girgenti, Edizioni Centro Culturale Pirandello – Agrigento, pag. 19, 20, 23, 24, 53, 54, 189. Ma queste stesse nuove tasse (1) furono di breve durata; i francesi stessi abolirono la prima; e la restaurazione nel 1815 soppresse le altre due. Se non fossero storie viete, ed in uggia ai riformatori del tempo, noi raccomanderemmo ai nostri legislatori ed a tutt’i cultori delle scienze economiche e sociali, di studiare il riordinamento finanziario del Regno di Napoli, fatto nell’anno 1815. I primi atti di quel governo esprimono tutti un principio, che non potrebbe essere giammai abbastanza rammentato ai rettori dei popoli, cioè: che le risorse finanziarie dello Stato non bisogna cercarle né nel debito, né nei nuovi tributi, ma esclusivamente nell’ordine e nella economia. Perché veramente il miglior governo è quello che costa meno. Il cav. dei Medici, che in quel tempo reggeva lo Stato, benché costretto a contrarre meglio di venti milioni di ducati di debito, non esitò un istante ad abolire la tassa delle patenti, che rendeva oltre ducati 500 mila annui; quella del registro graduale, che fruttava altrettanto, ed a scemare benanche il contributo fondiario; riforme tutte che fruttarono ai contribuenti un alleviamento di tributi di ducati 2.487.923 annui. 1. Tasse introdotte dai francesi: tassa personale, tassa delle patenti e tassa del registro graduale. – Giacomo Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, pag. 9. Il delicato problema degli anziani fu affrontato e risolto con una vera propria riforma del sistema pensionistico varata con il decreto del primo luglio 1816 che unificò i precedenti sistemi ed istituì il “Monte delle vedove e dei Ritirati” che erogava una pensione agli impiegati civili e militari dello Stato. Gli oneri previdenziali che gravavano sul dipendente comportavano una trattenuta del 2,5% sullo stipendio, determinando il diritto alla pensione dopo venti anni. La pensione che lo Stato erogava era pari al 25% dello stipendio dopo venti anni di lavoro; al 50% dopo i venticinque anni; al 75% dopo i trenta anni; all’80% dopo i trentacinque anni; al 100% dello stipendio dopo i quaranta anni. La pensione veniva calcolata sulla base dello stipendio percepito nell’ultimo biennio. Non vi era limite di età per il pensionamento, ma semplicemente il “ritiro”. Questo tipo di pensione veniva definita di “giustizia”. Se ne affiancava un’altra, detta di “grazia”, concessa personalmente dal re per particolari benemerenza. Ai grandi invalidi per cause militari (chi era divenuto cieco o storpio in due arti) riceveva il massimo della pensione prescindendo dagli anni di servizio, mentre chi perdeva l’uso di un arto e subiva altre invalidità riceveva il mino della pensione se non aveva compiuto i venti anni di servizio, altrimenti venivano aggiunti cinque anni di anzianità, mentre per le ferite con pericolo di vita venivano conteggiati sei mesi di anzianità. Alle vedove veniva erogata una pensione pari a due terzi dello stipendio, se il marito aveva maturato venti anni di servizio ma, nella quasi totalità dei casi veniva aggiunta una pensione di “grazia”. Nel caso in cui la vedova moriva o si risposava, la pensione veniva ripartita tra i figli maschi sino al diciottesimo anno di età e alle femmine finché restavano allo stato nubile. – Francesco Maurizio di Giovine, La dinastia Borbonica – La vita politica e amministrativa nel Regno delle Due Sicilie (1734 – 1861), Ripostes Edizioni, pag. 91, 92.
Chi volesse approfondire di molto questi argomenti, può farlo anche consultando il sito www.regnodelleduesicilie.eu alle sezioni “Notizie dal Regno – Storia” e “Schegge di Storia”, quest’ultima sulla sinistra della home page.
Il
10 maggio 1734
Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna, entrò trionfante a nella città
di Napoli
rendendola capitale di uno Stato indipendente.
Dopo
varie vicende che riguardavano la lotta per la successione alla corona spagnola
tra i Borbone di Francia e gli Asburgo d’Austria, alla morte precoce e senza
eredi di un Carlo II deforme e malaticcio fin dalla nascita (a causa dei
matrimoni tra consanguinei), nel 1707 gli Austriaci invasero il
Regno di Napoli, mentre il Regno di Sicilia, che dal 1713 fu
dato a Vittorio Amedeo II di Savoia, nel 1720 passò ancora agli Austriaci, che
riuscirono dunque a riunire sotto un’unica corona il territori del Mezzogiorno
d’Italia. Gli Asburgo, che avevano promesso al
popolo e alla nobiltà napoletani che sarebbero stati governati in un regno
indipendente, senza essere una semplice provincia austriaca, smentirono
tale proposito deludendo gran parte di coloro che speravano nell’indipendenza
stessa, creando un certo smembramento all’interno del Regno di Napoli.
La parentesi austriaca tuttavia durò
poco, perché il figlio del Re di Spagna prese il Regno di Napoli, come abbiamo
detto, nel 1734, entrando a Napoli il 10 Maggio. Il pretesto dello scontro armato tra
Spagna e Austria fu ancora una volta la successione a una
corona, stavolta quella polacca, che all’epoca non si trasmetteva
ereditariamente, bensì era elettiva. Una prima elezione fu resa nulla a
causa della mobilitazione delle truppe armate da parte della Russia, alleata
dell’Austria, e così alla seconda fu scelto come Re Federico Augusto II,
sostenuto proprio da queste due potenze. La Francia e il Regno di Sardegna,
allora, mossero guerra all’Austria, e in seguito a difficili
trattative nell’alleanza rientrò pure la Spagna, grazie soprattutto a Elisabetta
Farnese, la madre di Carlo, che desiderava per il figlio quella
che definì “la più bella corona
d’Italia”. In seguito i rapporti tra la Spagna e gli alleati
si incrinarono, e Carlo partì per Napoli da Parma, dando contestuale ordine di trasferire
l’imponente collezione Farnese, di sua proprietà, e
che ancora
oggi possiamo ammirare tra Capodimonte e il Museo Archeologico di Napoli,
prevedendo un possibile tradimento dei Francesi e dei Piemontesi.
Dopo
la discesa dello stivale, il passaggio autorizzato dal Papa attraverso lo Stato
della Chiesa e le prime conquiste, don Carlo entrò a Napoli il 10 Maggio 1734, festeggiato
dal popolo stanco della dominazione austriaca e dai nobili, i
quali vedevano rinnovate le speranze di indipendenza. Le resinstenze
austriache, tuttavia, erano tutt’altro che domate, e gli Spagnoli dovettero
conquistare le roccaforti una ad una: il 26 maggio ci fu la storica
battaglia di Bitonto, vicino Bari, dove ancora si svolge la rievocazione
degli avvenimenti dell’epoca, in ricordo del punto di avvio di una nuova
prosperità per il Mezzogiorno, fino al 24 Novembre, con la caduta di Capua. Nel 1735
Carlo scacciò gli Austriaci anche dalla Sicilia,
venendo incoronato Re di Sicilia il 1735, a Palermo. I due Regni saranno poi
uniti anche formalmente nel 1816 dal figlio di Carlo, Ferdinando, dando vita al Regno delle Due Sicilie.
A Napoli, secondo l’investitura papale, fu Carlo VII, in Sicilia Carlo III,
però egli scelse di non usare nessuna titolatura perché i
sovrani precedenti regnarono da un trono straniero: il Re identificò
se stesso, a questo punto, semplicemente come “Carlo”.
Don
Carlo, il buon Re, fu un sovrano amato dal popolo e
che amò il popolo,
tanto che, dovendo abbandonare Napoli perché la corona spagnola nel 1759 era
rimasta senza eredi, se ne andò palesemente controvoglia; in Spagna divenne
Carlo III, non essendoci, questa volta, alcuna diatriba circa la numerazione.
Nel frattempo Carlo aveva avviato una serie di interventi
che
faranno prosperi i suoi regni, e di Napoli una delle principali capitali
d’Europa.
Inaugurò gli Scavi Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, oltre alle
costruzioni del Teatro di San Carlo, le Regge di Portici e Capodimonte, il Foro
Carolino (l’attuale Piazza Dante a Napoli), la Reggia di Caserta, gli Alberghi
dei Poveri a Napoli e Palermo, oltre ad altri diversi interventi in tutti
i suoi territori, in particolar modo di tipo amministrativo e politico. Il riportare
alla luce le città sepolte dal Vesuvio creò grande entusiasmo in tutta
l’Europa, vale a dire in tutto il mondo, e Napoli divenne la meta finale e più preziosa del Gran
Tour; lo stesso Re Carlo si recava spessissimo a
controllare lo stato degli scavi, e portava sempre al dito un anello che aveva
trovato a Pompei, l’anello che poi restituirà in quanto di proprietà del popolo
napoletano, quando se ne partì per la Spagna. Imparò la Lingua Napoletana
per essere in grado di capire e comunicare con il suo popolo e, secondo una
leggenda, in Spagna portò con sé anche un po’ del sangue di San Gennaro.
13 Aprile 2019 giornata importante per il mondo Napolitano e per San Giorgio a Cremano che per volontà del Comune è stato cambiato il nome ad una delle piazze più importanti dei paesi Vesuviani. Cancellato il Re Infame Savoiardo, non merita nemmeno di essere nominato, è stato rimesso sul Trono il legittimo proprietario del Sacro Regno Napoletano, Carlo di Borbone. L’Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie, fondato dal Comm. Giovanni Salemi, ha dimostrato la sua fedeltà alla Casa Reale Borbonica di Napoli facendo istallare un busto dedicato al nostro amato Re. Enzo de Maio ci ha inviato delle foto in anteprima che abbiamo il piacere di pubblicare.
Ormai il fiume carsico è venuto fuori e travolge tutto quello che trova al suo passaggio e presto arriverà alla Capitale e travolgerà gli ultimi Giacobini, asserragliati tra Castel Sant’Elmo e palazzo San Giacomo, che tengono in ostaggio la città. Presto vedremo cancellare strade e istituti dedicati ai traditori del 1799 e a quelli del 1860 che infangano Napoli come le due foto di seguito ci dimostrano.
La grande bellezza degli archi di
Vanvitelli da ieri sono degnamente riqualificati ed illuminati.
Dopo lustri di oblio e trascuratezza
torna la luce sul sito simbolo dell’ingegneria borbonica, dal 1997 patrimonio UNESCO
insieme alla Reggia di Caserta e al Complesso Monumentale di San Leucio.
Folto il pubblico presente che
sin dal tardo pomeriggio si è assiepato ai piedi del monumento in attesa
dell’inizio dell’evento, dimostrazione concreta che l’appuntamento era molto
sentito e da tutto il circondario in molti hanno preferito non perdersi questa
importante e significativa cerimonia inaugurale.
Tutto ciò è stato possibile grazie
ai Fondi Por Fesr Campania 2007-2013 ed all’amministrazione comunale di Valle di Maddaloni che con caparbietà e
tenacia ha a portato a compimento questo prestigioso traguardo.
L’obiettivo da oggi è far si che
l’opera diventi sin da subito attrattore turistico-culturale per il piccolo
centro della provincia di Caserta.
La cerimonia inaugurale è stata
allietata dall’Associazione Musicale “Cantori Città Valle di Maddaloni” diretta
dal Maestro Antonio Barchetta, da uno spettacolo dall’Associazione Culturale
Teatrale “Actory Art” di Caserta (nella foto) e da una video-presentazione del
progetto realizzato dalla Soprintendenza Belle arti e paesaggio per le province
di Caserta e Benevento.
Hanno portato il loro saluto, oltre
al primo cittadino di Valle di Maddaloni, Giovanni Pascarella, l’assessore
regionale con delega allo sviluppo e promozione del turismo Corrado Matera, il
Sottosegretario di Stato al Mibact Antimo Casaro e il Direttore della Reggia di
Caserta, Mauro Felicori.
La serata si è conclusa con
l’accensione dell’impianto di illuminazione e successivo spettacolo pirotecnico.
L’ACQUEDOTTO CAROLINO
L’Acquedotto Carolino fornisce
l’apporto idrico alla Reggia di Caserta (Parco, Giardino Inglese e Bosco di San
Silvestro), prelevando l’acqua alle falde del monte Taburno, dalle sorgenti del
Fizzo, nel territorio di Bucciano (BN), e trasportandola lungo un tracciato che
si snoda, per lo più interrato, per una lunghezza di 38 km. e che alimenta anche
il Complesso Monumentale di San Leucio. Il condotto, largo mt. 1,2 ed alto mt.
1,3, è segnalato da 67 torrini, costruzioni a pianta quadrata e copertura
piramidale destinate a sfiatatoi e ad accessi per l’ispezione.
I lavori dell’acquedotto, progettato
dall’arch. Luigi Vanvitelli su commissione di re Carlo di Borbone (da cui
l’appellativo di Carolino), presero il via nel marzo del 1753. L’opera compiuta fu
inaugurata il 7 maggio 1763.
Grande è il contributo di Domenico Scarlatti alla formazione di un “idioma musicale” spagnolo e i riflessi della sua lunga permanenza alla corte di Madrid sono ben leggibili in molte sonate che utilizzano temi e ritmi di canzoni e di danze popolari iberiche.