“ C’ERA UNA VOLTA … “ – MEMORIA E IDENTITA’ DI LUCIO CASTRESE SCHIANO
C’era una volta …”. Chi di noi non si è imbattuto in questo incipit ogni qualvolta che, per motivi di studio o per doverla raccontare ad un nipote, ha avuto occasione di leggere una favola o una fiaba?
Quest’incipit, però, non riguarda solo le favole e le fiabe, ma anche l’arco di tempo relativo alla nostra vita, con un distinguo, però; nel senso che, mentre il “ c’era una volta … “ delle favole e delle fiabe serve ad introdurre il lettore in luoghi ed atmosfere in cui la fantasia del narratore può sbizzarrirsi senza la minima preoccupazione, facendo parlare animali, piante e perfino le pietre, cioè il più inanimato elemento presente in natura, l’incipit che si riferisce alla nostra esperienza personale ha poco o niente in comune con quello fiabesco e favolistico, e il tempo del suo svolgimento non indulge a voli fantastici o ad atmosfere e paesaggi irreali, in quanto non deve solleticare l’immaginazione, ma stimolare e ridestare la memoria, facendo riemergere e portando allo stato cosciente cose, persone e fatti concreti che, o per azione del tempo o per colpevole opera di persone interessate, sono stati relegati in dimensioni così lontane e dimenticati per così tanto tempo da venire quasi rimossi del tutto nonostante facciano parte di noi, essendo le nostre radici. Ovviamente, volendo riportare alla coscienza o alla memoria i nostri ricordi, l’unico serbatoio da cui attingere è rappresentato dalle circostanze e dalle persone che hanno fatto parte del nostro vissuto. Per cui, nel tentativo di operare un recupero di esperienze svanite o addirittura rimosse, dobbiamo prendere necessariamente in considerazione momenti della nostra vita racchiusi nell’arco di tempo che comprende – al massimo – oltre la nostra, la generazione dei nostri genitori e dei nostri nonni. E’ pur vero che, volendo risalire alle origini, è restrittivo limitare la ricerca a due sole generazioni precedenti, perché lungo la catena di tutte le generazioni che si sono succedute ognuna di esse ha lasciato qualcosa di sé alla successiva. Sicché potremmo tranquillamente far risalire le nostre origini addirittura alla prima coppia apparsa sulla terra. Questa constatazione, però, potrebbe anche non coinvolgerci emotivamente, perché le persone e le circostanze sono collocate in una dimensione molto lontana dalla nostra esperienza. Allora, pur dando per scontato lo scarso coinvolgimento emotivo, non possiamo non convenire che, per quanto lontane, quelle radici, nel secolare ciclo riproduttivo, hanno dato origine anche alla nostra pianta. Relativamente a quest’ultima, abbiamo modo di constatare che alberi del tutto identici al nostro portano frutti che, oltre ad essere commestibili, hanno anche un grande valore di mercato, mentre il nostro ne porta appena qualcuno rinsecchito o non ne porta affatto. E’ umano, a questo punto, che la curiosità di conoscere la causa della nostra sterilità ci induca a ricercare una spiegazione. Ed allora cosa facciamo? Cominciamo da ciò che ci sta più vicino: la terra nella quale affondano le nostre radici. Ma, stranamente, abbiamo modo di verificare che essa è ricca di nutrienti, per cui la constatata sterilità non può essere imputata al terreno. E allora come mai il nostro albero non produce frutti? Il tronco, nel suo insieme, si presenta in buone condizioni sia nella parte della corteccia che in quella interna delegata al trasporto della linfa. In buona salute appaiono anche i rami ed il folto fogliame. Sicché ci convinciamo che il male sia veramente in noi, e finiamo per dare ragione ai vari “esperti”, i quali da lungo tempo ci ammonivano sulla nostra inferiorità. Rassegnati alla nostra condizione, decidiamo di abbandonare le ricerche, rimproverandoci addirittura di non aver dato credito ai giudizi degli “esperti”, quando, per un caso fortuito, scopriamo che la nostra sterilità dipende da una banalissima causa naturale: la mancanza d’acqua, il cui corso è stato dolosamente deviato da mani rapaci. La scoperta ci spinge a questo punto a non interrompere le ricerche, ma a portarle avanti con più lena e prestando maggiore attenzione anche a dettagli che in altre occasioni non avremmo preso in considerazione. Ci cominciamo così a domandare chi e perché abbia deciso di modificare il percorso della nostra vita e con esso il corso della nostra storia. Per trovare una risposta non si rivelano sufficienti le nozioni accumulate durante la nostra esperienza. E’ necessario intraprendere una ricerca che vada oltre i dati della nostra esperienza personale, per cui dobbiamo necessariamente avvalerci delle testimonianze lasciate da quanti ci hanno preceduto, attraverso le quali, analizzando il contesto sociale e storico del tempo, possiamo farci un’idea precisa e non falsata da interessi di sorta di quelle che erano le generali condizioni di vita delle varie epoche che hanno preceduto anche quella dei nostri nonni, bisnonni e trisavoli. La prima fase di questo viaggio a ritroso non può che prendere le mosse dallo spaccato di società rappresentato da quelle figure e quei mestieri di cui ognuno di noi può conservare una traccia, anche se molto sbiadita, nelle profondità del proprio io.
Immaginando, perciò, che i vari anni della nostra vita possano raffigurarsi alle pagine di un album, cominciamo a sfogliarle con particolare attenzione. Con nostro stupore cominciamo a renderci conto che basta la comparsa di una persona o di una figura qualunque per far scattare in noi il ricordo di tanti momenti particolari della nostra vita legati ad esse, momenti caratterizzati da situazioni storiche, economiche, sociali e culturali. Continuando a sfogliare il metaforico album, altre figure ed altre persone si pongono alla nostra attenzione, suscitando ognuna un ricordo. Ecco a questo punto che la linfa che aveva rallentata la propria corsa ricomincia a circolare più velocemente, e dalle radici comincia ad irrorare il tronco, i rami e la cima dell’albero che costituisce la nostra persona. E quelle figure non sono più disegni, ritratti o foto indistinte, ma ci parlano di persone con cui abbiamo avuto contatto o che abbiamo visto abitualmente impegnate nelle loro attività: persone che inserite in un determinato contesto ne hanno determinato la storia, di cui anche noi siamo stati o testimoni inconsapevoli o attori. Ecco allora che una breve incursione nel passato ha cominciato a farci prendere coscienza del presente, facendoci capire che i due momenti sono parti di un unico filo su cui, in un continuum ininterrotto, è collocato anche il nostro futuro. Con quel passato si comincia ad instaurare un coinvolgente processo simbiotico di reciproca appartenenza. Avvertiamo, infatti, contemporaneamente di appartenere a quel momento e che quel momento, importante tassello della nostra vita, a sua volta ci appartiene. La scoperta ci fa identificare con quelle persone e quel momento, ci fa riacquistare la memoria e con essa, pian piano, finiamo per identificarci con quel passato rimosso; cominciamo a ricordare il rapporto che avevamo con quelle semplici figure o quelle persone che abbiamo incontrate sfogliando l’album della nostra vita. Ci siamo riappropriati della nostra identità, e, senza volerlo, abbiamo ritrovato anche le nostre coordinate storiche, geografiche, etniche e culturali, che ci fanno acquistare consapevolezza della nostra identità e del mondo e della società cui apparteniamo. Procedendo a ritroso, arriviamo così ad un momento della storia in cui apprendiamo che la nostra terra natia, culla di grandi culture e di grandi sistemi di pensiero, era un regno che si era mantenuto pressoché inalterato per più di sette secoli e che, puntando sul comune sentimento religioso, era stato capace di riunire in un solo popolo siciliani, calabresi, pugliesi, lucani, abruzzesi, campani che si sentivano accomunati dalla stessa lingua e dalle stesse tradizioni, mentre tutto il resto della penisola era diviso nel particolarismo dei comuni e delle signorie. Scopriamo che, volendo parlare di nazione e di unità, forse queste idee si erano già realizzate nella nostra primigenia patria e il sentimento era così fortemente sentito che fino alla proditoria e feroce invasione piemontese del 1860, il termine napolitano (e non napoletano) individuava i regnicoli sparsi in quelle che sono attualmente le regioni di Calabria, Lucania, Abruzzo,Puglia e Campania. Oggi, invece, a parte il fatto che non tutti riescono a cogliere la differenza fra napolitano e “napoletano”, è impensabile chiamare napolitano un abitante di qualunque regione al di fuori della Campania (anche qui – caduti anche noi nel particolarismo appena lamentato – ci sono delle eccezioni). Orma, dimentichi “regnicoli”, siamo diventati “napoletani”, siciliani, calabresi, lucani, pugliesi, abruzzesi e non riusciamo a percepire, invece, che quello che poteva sembrare un errore o un anacronismo è il frutto dell’incessante e finalizzata opera di disgregazione messa in atto dai vincitori del 1860 per rompere la nostra coesione ed indebolirci.
Castrese Lucio Schiano
01.06.2020
Professore, La leggo e ammiro la Sua saggezza e pacatezza… e purtroppo mi rattristo con Lei perché forse non riusciremo a vedere un cambiamento che sia recupero di identità e di valori traditi, che sono il fondamento del nostro essere…e di quanti come noi consapevoli. C’è troppa superficialità in giro e prevalgono arrivismo e ignoranza, che sono il fondamento di chi subdolamente costruisce la base per prevalere secondo propri interessi che ovviamente deve tener nascosti… e la gente ci casca nel gioco senza neanche accorgersene, o per pigrizia…così mafia e massoneria a braccetto fanno il loro gioco, chissà fino a quando! caterina ossi