Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Cronaca del saccheggio francese di Piedimonte d’Alife del 1799

Posted by on Apr 18, 2020

Cronaca del saccheggio francese di Piedimonte d’Alife del 1799

La mattina del giorno 8 Gennajo 1799 ritornandomi dal Carmi(ne) m’incontrai non lungi di mia casa col Canonico della Cattedrale D. Vincenzo Meola, che di galoppo venendo da Alife, mi chiamò, e disse in segreto; amico è fatto il caso, la vanguardia Francese è in Alife, per cui me ne son di fretta scappato.

Io svagato all’avviso, riflettei ad alcune precedenti disposizioni; ed erano che il nostro Principe Onorato Gaetani scrisse una lettera al suo Aggente D. Eugenio Sarrubbi, in cui con sentimenti estensivi la manifestarsi in publico, facea sentire, che dal popoli si fossero accolt’i Francesi con buona ospitalità, perche non ci sarebbe stato di che temere, ed in tanto scrisse il Principe, perche il Padre Duca D. Niccola Gaetani aveva con simulato contratto, pochi giorni prima refutati li feodi ad esso Principe, con politico accorgimento, cioè, che quindi lui avrebbe seguito il destino del Re, ed il figlio sariasi accostato a Francesi, acciò dopo la guerra, si foss’egli il Duca ritrovato lodevole, comeche pose a’ cimento di sacrificare il dissaccorto giovine.

Si credette dunque un po’ di intelligenza tra ‘l Principe, ed i Francesi, e per questo verso vi era motivo di freno al timore; all’incontro sul detto del Kambs, si bassarono le Campane, o se ne tolsero li martelli, disposta la gente alla quiete, ed a’ sofferir questo passaggio alla meglio che si poteva. Sebben fummo noi avvisati dal Vescovo dell’Aquila, e da altri Sacerdoti Abruzzesi, che non ci fossimo fidati delle quiete apparenze, e de proclami del Nimico, perche sapeva esso trovar il pretesto di dar il Sacco alle Città Ospiti. In fatti sospettai, e giudicai della rea intenzione la mattina del dì 7 quando giunse qui al Sindico D. Andrea Imperadore l’ordine del Generale Le Moen, da S. Angiolo spiccato, e che io lessi sulla Casa della Corte, concepito così “La municipalità di Piedimonte provegga del pane, vino, carni, olio, avena, fieno, ed orzo per l’armata Francese, e contravvenendo si minacciava l’esecuzione militare”. Io feci avvertire, che quest’ordine era preludio di qualche tragedia, perche non si diceva il luogo dove volevasi il vitto, e foraggi, ne il numero de’ Soldati, ne il quantitativo della roba; poiche, io diceva, costoro avran sempre in favore un motivo di doglianza per assassinarci. Ora stando tutta la Città in allarme, ed irresoluta, verso le ore 19 fuvvi un pispiglio, e corsi alla fenestra di mia casa corrispondente diri(m)petto la così detta Porta Vallata a’ dirittura della strada de’ Fossi, e vidi giunger il mentovato Generale, due ajutanti, e cinque soldati, tutti cavalcando Cavalle grascissime, e grandi ed avendomi tratto il berrettino, tutti gli otto mi corrisposero col cappello, dal che presi alquanta lena: Essi si condussero nell’Episcopio non volendo star nel Palazzo Ducale, dove furono istradati. Sortii, curioso, di casa, ed andiedi al Mercato, dove appena giunto, sentii toccar il tamburro, credendo, com’era, che veniva la Truppa, ritornai, e mi postai alla foce del Mercato, e tosto cominciò a passar la soldatesca in fila quattro a’ quattro, onde ebbi l’agio di numerar che gente entrava, e terminato che fù il passaggio, trovai che non erano più di 276 oltre l’ufficialità, che in tutto completavano il numero di 305 oltre di 50 Dragoni, che eran tutti Polacchi, ma gli Ufficiali Francesi.
Stando, come fù detto la Truppa al Mercato, tutte le botteghe, e Fondachi di quella piazza furon chiuse, e cominciarono a trattar con essi un Religioso giovine Carmelitano il P. F. Tommaso Duracci, il quale fino a’ quel tempo avea celato di saper il Francese, ma fù allora, che ‘l vidi affratellato con gli ufficiali, e mi era amico, l’altro fù il D.r Fisico Medico D. Antonio di Amore, che da ragazzo fù mio discepolo.

Il pensando alla Sicurtà domestica, dacche non credeva opportuno con mia moglie abbandonar la Casa, mi accostai al Duracci, perche, se la truppa dovea distribuirsi in alloggio, mi avesse procurato un Onesto Officiale: l’Amico adunque, prima dissemi, che tutti sarebbono stati in Quartiere al Carmine, e in S. Domenico, ma da lì a poco mi disse la mutazion di quello stabilimento, e mi ottenne per alloggio in mia Casa un Capitan di Granatieri, Tedesco di origine, di cognome Wolff, uomo di circa cinquantacinque anni, fumatore, e bevitor della vita, ma onestissimo, ed umano. Io me ‘l condussi, e li fei sceglier il quarto di suo gradimento, sulla credenza che non vi sarebbe rimasto che per due notti, e due giorni. Egli si scelse quello che corrispondeva alla Porta Vallata, in cui situò un Corpo di guardia a’ sua vista. Subbito tornò a sortire, ma da lì ad un’ora ritornò, e volle tabacco per fumo, e vino, di cui bevette abbondantemente, essendo ottimo. La truppa si acquartierò ne cennati due conventi, li Generali nell’Episcopio, ed altri Capitani in casa di D. Vincenzo di Amore, di Agnese, e Ragucci, e Pitò, ed altri ritornarono in Alife.

Furono la stessa sera situate le guardie per tutte le uscite e capi strada della Città, essendo venuta altra Truppa dal Campo di Alife.

All’una della sera, venne in casa un altro Officiale di nome Albout, tenente della stessa brigata 17ma di Granatieri, ma di discendenza Ebreo, e perche io non avea apparecchiato altro letto, costui verso le quattro ore della notte, mi cercò due materazzi, io che poco l’intendeva, non sapea che dirli, onde s’infuriò, dimandando il letto come quello del Capitano con queste parole “subbito, e pensateci voi”. Qui cominciò il mio sospetto: Io non avea che un’ altro materasso, egli ne volea due, li dissi, che a quell’ora non poteva servirlo, che li avrei accomodato un letto al meglio che si poteva; si calmò: fù gittato un materasso sù di un’altra lettiera, egli vi stie’ un poco, e sortì a montar la guardia. La notte io, e mia moglie ci adaggiammo vestiti, al meglio che potemmo, e stammo quietissimi nel fatto, ma inquietissimi di fantasia. Il Capitano si empì una tasca di vino, si chiuse al riposo ancor esso verso le ore quattro della notte.

Intanto una partita di soldati la stessa notte assalì la Casa de’ signori Meola, e vi fecero un grosso sacco, di là passarono al Convento de Cappuccini. Un’altra partita insultà la Casa di D. Gioacchino Butani, e la Truppa in Campagna si diede a depredar per le massarie di quanto vi esisteva, insulto che produsse gli effetti del dì dieci, come or’ora diremo.

Il Mercoledì mattina vennero in Casa altri quattro Ufficiali, che vollero colizionare, gli offersi caciocavallo, e priggiotto, ma non ne vollero, ma si contentarono del cacio fresco, e vino. La mattina desinammo il Capitano, Albout, ed io, e notai, che non mi astrinsero a farli sicurtà col ber’io prima, né la sera, né più in appresso, mangiarono le molte cose, ma bevettero

il moltissimo vino. Il giorno dopo desinato sortimmo, e giungemmo col Capitano al Carmine, dove ci era sotto la bottega di Rosolii, e Cafè, e ‘l Capitano fe’ complimento di rosolio a’ quanti vi erano, e dopo egli ne gustò pochettino. Il lasciai nella bottega, e salii sul Convento, dove trovai una orribile confusione, e dissi perciò al Priore P. Michele della Corte, che avesse tolto il Santissimo dalla Costodia, ei mi rispose, che non era più tempo di farlo, perche la chiesa era piena di Soldati, li dissi che avesse almeno sunte le Particole Consacrate, ma non ebbe tal Coraggio. Intanto il Capitano era tornato in Casa, ma mia moglie non volle aprirli sin che non il fe’ accompagnar da un’altra persona,e salito dimandò del filo, ed achi, per rattopparsi, o un sarto, essa che nulla il Capiva ci fe’ una lunga diceria, in mezzo alla quale giunsi io, e li fei chiamar il Sarto. Si fe’ notte, ed il Capitano cenò, ed indi andié egli a montar la guardia, lasciando in riposo Albout, con un’ altro ufficiale che dormì seco insieme, ed allora Capii, che il Capitano soffriva al Scabia, per cui Albout non volle dormirci la notte antecedente. Ma già alle ore 24 venne il Casa il Sindico D. Andrea Imperatore sbigottito, e in minaccia, dicendomi presto, presto la vostra rata di contribuzione in trenta ducati in oro, perche n’è messa la Contribuzione di ducati undicimila per tutto dimani mattina, altrimenti io sarò fucilato, e la Città anderà a sacco. Io non avea tal danaro, presi licenza, da’ miei Ospiti, e sul momento andiedi dal Dr. D. Tommaso Paterno, che m’improntò dieci once, e corsi a’ Casa Agnese dove si facea la Cassa, e mi riscossi il Certificato: e tornato in casa raccontai agli Ospiti il cimento, e se ne mostrarono addolorati nel sentir la tanna tassatami, e quindi mi dimandò Albout dello Stato della Città, e delli seguenti Cittadini, cioè di D. Niccola Pitò, Niccola Pasquale, D. Domenico del Giudice, del P. Abate de Celestini D. Rodesindo Cutinelli, di D. Giuseppe d’Agnese, di D. Gioacchino Bojani, di D. Vincenzo di Amore, e di altri. A questo interrogatorio mi posi in attenzione, e li dissi, che la Città era povera in generale, fra l’altro perche il Re si avea ritirati tutti gli Ori ed Argenti; che il Traffico Mercantile si era da due anni interrotto, e che li Cittadini Nominati erano ricchi in opinion della plebe, ma non in realtà, poiche industriando qualche poco di vittuaglie, le stesse non le aveano ancora smerciate, appunto pel corso della guerra, che impedito ne avea il traffico, ma già capii la rea intenzione che scoppiò il seguente giorno.

Erano venuti co’ Francesi qui molti Regnicoli Giacobini, fra quali un tale D. Andrea Valiante di Ielzi, in Contado di Molise. Costui subbito si portò al Monistero di Monache di Vallata, dove dimandò della Badessa ch’era D. Eleonora Pecci del Vinchiaturo, e se le manifestò parente, e l’assicurò, me presente, /dacche l’abbatessa mi mandò a chiamare, per esser’io avvocato del Monistero/ che sarebbe il tutto passato con tranquillità, anzi, che ci avrebbe portato il Generale, e che in tale occasione li avessero fatto un Complimento: il Valiante era parente ancora di D. Nicola Meola, perche Zio Cugino della moglie D. Carmela Martorelli, onde alloggiò in Casa di esso Meola.

Al presente giorno nove mercoledì, fin dalla mattina li Francesi cominciarono a tentar la plebe paesana, perche avessero detto, che veniva la Cavalleria Napoletana, per assalirli, e ciò per far succedere qualche sollevazione, e prender’occasione di saccheggiar la Città. Sicche, prevalse a segno questa diceria, che già vi fù chi lo credette e fra gli altri D. Valenzio Missere Speziale di Medicina, il quale pose in speranza di tal impossibile soccorso molti Contabili Vallatani già

disgustati per le ruberie, e per non esser intesi ne’ ricorsi. Si era inoltre per mezzo del Valiante mischiato nell’affare della Contribuzione D. Giacomo Pietrosimone voluto Giacobino di S. Potito e si disse che avea ottenuta la transazione per tremila, e cinquecento ducati, cioè tremila pel Generale, e Cinquecento pel secretario, ma siccome si era stabilito, che si sarebbero pagati la mattina del Giovedì, per mezzo del Pietrosimone, costui non si sa perche non venne, che verso le ore 19 del giovedì giorno 10 dopo che il Generale era andato a Caccia con D. Marcellino Greco, e D. Pietro di Amore creduti Giacobini, sebben vi fù chi sospettò, che il ritardo del Pietrosimone, fusse stato di concerto per dar causa al sacco, che in questo dì 10 in fatti avvenne. Poiche dimorando la Generalizia piana nell’Episcopio, il Generale /presenti D. Salvatore Caso/ Maestro di Casa del Vescovo/, il Suddiacono D. Ottavio Scappaticci, e il nostro Governatore D. Gaetano Lombardi, diede ordine che si fossero proccurate 24 libre di Cera; la quale certo che non serviva di voto a’ Santi, né di necessità in Casa, che di tutto era in abbondanza, e proprietà proveduta, ma sibben per il Sacco che si meditava per la vegnente sera, se non generale, almeno particolare, dacche il Generale se ne partì prima dell’ora stabilita pel pagamento della Contribuzione, e non ritornò, che alle ore 24. E perciò que’ paesani sospettando di quel che si machinava ne avvisarono molti amici, che si allontanarono dalla Città, fra quali il D. Medico Rev. D. Marcellino De Lellis, che fù con doppia providenza preservato, e perche io non sortii quel giorno di Casa nissun sentore ebbi di queste trame, ne della trama della Congiura de’ Vallatani, manovrata dalli stessi Francesi, per l’avidità del Saccheggio.

Or nella mattina de’ 10 vennero a far le di loro lagnanze al Capitan Wolff molti contadini di Vallata, fra quali Pietro Panella, che li portò a regalare quattro galline per salvarsi li bovi, e Tommaso di Muccio, ed altri, e li vidi in aria minaccevole, dicendomi, che se non ne avevano giustizia, se l’avrebbero fatta colle proprie mani, asseverandomi con queste parole la intenzione “Vì ca non ce ve’ bona … la cosa fete, e nui simmo risoluti a chello che ne vene vene …”. Procurai calmarli perche prevedeva il disastro che ne sarebbe derivato, tanto più, che non ci erano armi, né munizioni, né prevenzione. E se ne andiedero via. In conchiusion della giornata del dì 9 dico, che la Truppa si mantenne in rubar per le Massarie tutto ciò che le veniva innanzi agli occhi, spogliandone la gente da loro più lusingata con li proclami, che promettevano difesa, e sicurtà delle Capanne.

Siccome più sù fù detto, si era sparsa la notizia dalle stessi Francesi, che il giorno del giovedì sarebbe venuta la Cavalleria Napoletana ad attaccarli, e si disse il malcontento de’ Contabili di Vallata. Li Francesi che giravano a grosse compagnie di Dragoni, spuntarono per la via de’ pioppi, D. Valenzio del Giudice prese o la occasione, o abaglio che fosse, e diede la voce alli Vallatani, dicendo allegramente: “paesani, ecco la Cavalleria del Re, all’armi, all’armi, uscite tutti date sopra a questa canaglia, all’armi …” e così dicendo mandò a scassinar il Campanile dell’annunziata SS.ma per un certo contadino Sisto della Minanca, il quale fu il primo a toccar la Campana mezzana coll’occhio della scure, perche non vi era martello, altri toccarono la Campana di S. Filippo, e D. Filippo Giacomo Burgo toccò colla sciabla la Campana dei PP. Celestini. Ecco dunque in un momento tutto il quartiere in arme alle ore 22 di questo giorno 10, giorno memorabile per noi.

Si spartirono gli aggressori paesani per tre vie, per sorprendere li tre corpi di guardia, uno al cimitero, un’ altro si diresse al Vallone, e ‘l terzo attruppamento discese per mezzo la Città avanti mia Casa, in atto che scherzando con il Capitan Wolff a farli tirar una spada dal fodero, che io teneva, e si era arruginita. Sul punto che la trasse, il mio servente Romualdo Scala mi avvisò che sentissi, e tutto sbigottito fe’ cenno che già si toccavano le Campane ad arme: restai sul fatto, se ne accorse il Capitano, che si levò subbito, e ci affacciammo dirimpetto alla Guardia, che già era stata dispersa, ed egli, per quanto lo avessi pregato a non sortire, stralunò gli occhi, e dicendo il mio onore! Bevette un gran bicchiere di vin bianco, e pipando colla sciabla in mano sortì in mezzo al forte della mischia, ed imprudentemente mi tornai ad affacciare per veder che gente vi era, e mentre fischiavan le palle vidi venir dal Carmine in ordine di battaglia con tamburo battente la truppa Francese, che faceva fuoco, ma li nostri li rovesciarono, e li ferono rinculare, dacche si andiedero a chiudere in quel convento, in atto, che vidi un solo de nostri in mezzo a Porta Vallata, che con una destrezza indicibile sparava al picchetto, che di qui fuggiva per la via detta dei fossi, egli stava in camiciola con padrona, e senza cappello in testa. Mia moglie unita colla serva, ed un’altra vicina avevan fatto un mucchio di pietre per lanciarle contro il nimico, dacche nella gente sollevata vi eran donne armate ciascuna di qualche istrumento da offendere. Io veggendo questo, sul momento la fei ritirare per timor delle fucilate, e le dissi, che bisognava fuggire, dacche a questa imprudente mossa ne sarebbe seguito foco, sacco, e sangue. In fatti li Francesi accortisi dopo un’ora, e mezza, che fù in punto all’ore 24 che la insurrezione era finita, ed essendo anche giunto il Generale dalla caccia, e trovato il terribil seguito fatto, mentre la truppa pensava di rit(ir)arsi in Alife, perche stava già in mossa colle mucciglie in spalla, con aversi fatte restituir la mutande anche bagnate dalle lavandaje, egli fe’ batter la generale al sacco, che cominciò con una furia inesprimibile.

Ritorno un po’ indietro. Sicche scendemmo con mia moglie D. Angiola Cavicchia nella Cantina, cercai qualche nascondiglio, ma niuno opportuno ve n’era, essa risalì, rimasi solo, durante l’attacco, e cominciai a sentire dalla via de’ giardini grandinar le palle nella Cantina, scappai di là per risalirmene anch’io, ma a’ mezza grada la incontro con appresso D. Nicola Pasquale, il quale avendo trovato il portone aperto, per essersi trovato per strada, salì in casa, e dopo aver così corso ogni angolo per nascondersi, si era messo appresso la mia serva, che se n’era scappata pel tetto, ond’egli gridava “misericordia, siam morti, avessivo una sepoltura, o un suffitto alto per ripararci!”. Io il quale, quando cominciai a pensar la fuga mi trovai un una saletta di casa, per la quale passà Albut con cinque comuni l’ultimo de’ quali mi arrestò con uno scapezzone, cercando del capitano, ed io dicendo ch’era sortito, m’inseguì nella Cucina, per ammazzarmi, se non che frappostasi mia moglie, dopo avermi tirato un secondo scapezzone se ne andò via, onde era rimasto stordito; ma il Pasquale insistendo per la salvezza, mia moglie ci condusse su di un un’ultima casa, in cui essa portò una scaletta, e standoci mosse due tavole, ci chiuse lì, portò altrove la scaletta, e si rifugiò sul tetto per una via, e modo miracoloso, dove stié sino alle ore cinque della notte, fra ‘l quale spazio di tempo salirono li saccheggiatori ben due volte, ma non trovandovi cosa, dopo un due minuti se ne tornarono: Intanto col Pasquale sentimmo leggiermente caminar sul tetto del soffitto corrispondente alle nostre teste: ma stando in agitazion dell’evento, mi sentii con voce

convulsa chiamar da mia moglie, con dir “io moro”. La invitai a toglier i tetti, che io avrei levate le tavole per farla ricoverar con noi, detto fatto: entrata ci disse, “siam perduti perche li francesi anno già cominciato a dar fuoco alla Città”, onde avendo io tratta la testa dall’aperto, vidi più grandissimi fuochi, ma subbito ci sgombrammo di timore, perche mi accorsi, che vi si brugiavano li cadaveri degli estinti, come in fatti così fù, dacche in un sol fuoco un Gregoriano dalla Casa di D. Marcellino, sotto la quale ne brugiava uno grandissimo nel Mercato ne’ contò tirati a’ corda non meno di 27. Erano giusto le ore cinque della notte, e soffiava un Aquilone così orribile con polverino di neve, che si gelava per un momento che vi si fosse stato a scoverto: perciò mia moglie assiderò, ed io m’intorpidii in tutti gli estremi, con pericolo di vita ma continuai a star nel soffitto scoverto di tutto, benche il Pasquale in miglior sito perche trovossi più in fondo. Alle ore sei venne nella stanza di sotto a noi, un’altra, ed ultima visita, di due soldati, che statisi a fiutar per circa un quattro minuti, dicendo “andiamo qui non vi è gente”, se ne partirono con chiudendo dietro la porta.

Noi eravamo indirizziti. Aggiornò, e pensammo di scappar via, ma non vi era modo di farlo, che con rischio buttandoci nella stanza; onde ne giardini, da cui fatto segno a un Carbonajo che comparve, costui con altre buone donne ci porsero una scala, e ci ricoverammo nella di loro misera Casetta già più volte visitata da saccheggiatori. Rimanemmo lì sino al sabbato mattina ad ore 16. Fra questo spazio di tempo moltissime fiate ci favorirono li soldati a rubarsi lì, que’ stracci che vi erano rimasti, ma non ci offesero nelle persone, benche andavano col terror della mano armata si sola sciabla: eglino giungendo altro non dicevano, che “argiant” ma poi prendevan tutto, onde al Pasquale li tolsero 160 scudi che volle perder così per forza, perche se li lasciava, com’io feci, sul soffitto, non glie li avrebbero tolti colle scarpe, e fibie, ch’io pur salvai togliendomele, e nascondendole con una mostra di oro. Stavamo in quella casetta in numero di circa venti persone, fra le quali alcune ragazze, per le quali fummo avvisati, che li soldati rondavano, avendole adocchiate; onde con mia moglie risolvemmo levarci di quel ricovero, e cercando altrove in casa del di lei zio Can.co D. Arcangelo Angelillis sul supposto, ch’ei fossevi; ma sortiti, trovammo le strade tessute di truppa, e voltatomi vidi venirci dietro quelle ragazze, onde dubitando di qualche insulto, ritornai indietro, credendo esser seguito da mia moglie, e dalla serva; ma rientrato nella Casetta vi trovai il solo Pasquale, ed un zoppo mio pigionante; or veggendomi dispersa la moglie, caddi in un’indicibile angustia, perche non sapevo dove la si fosse rifugiata, dacche mia casa era piena di soldati onde risolsi di mandar il Zoppo in casa a dimandar del Capitan Wolff, dopo preghiera, ci andiede, da me istruito a farli sentire, se ci era, che io desiderava ritirarmi; in fatti, il Zoppo al meglio, lo trovò, li fe’ capir la imbasciata, e ‘l Capitano, per la via de giardini venne di persona a rilevarmi, e quando mi vide, mi abbracciò, e baciò, e mi rimproverò della mia fuga, con dirmi, che io ave(a) patito un terribile saccheggio, perche me n’era fuggito; al che li dissi il fatto de’ Scapezzoni, e che da ciò mi era sgomentato; sicche così parlando venne con me anche il Pasquale preso per mio parente. Giunti in casa mi portò per mano vedendo il disastro del sacco, li conservatoi scassinati, ed una sola porta, ed una finestra, per la quale entrarono li soldati: non mi presero tutto il tabacco, di che mi consolai, ed accortosene il capitano mi restituì un plico di Leccesi. Ma perche si era digiunato dal giovedì mattina, cercai da mangiare, ed il Capitano porseci il pane, e caciocavallo, e quindi tiratosi di tasca de’ salsicci, li buttò sulla bragia, e quindi li

mangiammo, e bevemmo dell’ottimo vino, benche col pensier a mia moglie, in cerca di cui mandai il Zoppo, e la madre della serva, che mi capitò in casa; costei alle ore 21 mi recò la notizia, che stava rifugiata a casa Nicola Tartaglia mio compare, e poco da noi lontano, dove era pervenuta dopo aver sola girato sino a’ casa Pitò, d’onde andiede a casa di un Ortolano, che trovò ucciso a’ pie’ delle grada, avendo lasciato avanti S. Benedetto morto un Offiziale Francese: ed avendo voluto ricoverarsi a Casa Paterno-Onoratelli non vollero affatto aprirle, per cui si portò a’ Casa Tartaglia caminando sempre fra la Truppa, che pattugliava, senza ricever veruno insulto. Quindi subbito la mandai a rilevare, e ritirossi in Casa con circa altre venti persone, per assicurarsi contro li saccheggiatori, ma giunta appena in Casa, toste ne scomparvero li Soldati; ma perche non ci era da mangiare, fuor che un po’ di riso, e quattro fagioli; dissi al Capitano, che avendo distrutto il pollajo di sessanta animali, e consumato quanto ci era di buono conveniva, ch’io fossi soccorso da lui: mi capì, e subito un soldato sortì, e portò cinque grassissime Galline, colle quali fù dal soldato stesso, ch’era un buon Francese fatta una soppa, con carne di bue, e venendo al mezzo giorno molti altri Capitani mangiammo, e mandai a’ mia moglie il pane di monizioni, e Carne di bue, che col riso dispensò alla gente ch’era seco venuta. Così continuammo sino a tutto il Lunedì, fra il qual tempo tutta la Vallata veniva in casa per aver bollettin di franchigia da affiggerli alla porta, onde non farvi più entrar saccheggiatori, li quali non vi finivano di entrarvi cento volte; sicche dové confessar Albout, che il Sacco di Piedimonte non era sacco ma subbisso per peccati di Piedimonte; la particolarità di tal sacco le riserbo al seguente capitolo, per non indurre confusione.

Or la sera della Domenica, durante il sacco, si unirono in mia Casa circa tredici Capitani, e cominciarono a disegnar come le poste per situazion di artiglieria, nel che il Wolff indicava di salvar la nostra abitazione.

Lettore: confesso, che in questo equivoco, restai senza spirito, il fei saper a mia moglie, e mandai a chiamar il di lei Zio, ed altri, per farceli ricoverare, dacche la minaccia era diretta alla Vallata, dal cui popolo era statta assalita la truppa. Ecco che io ne interrogai in segreto il Wolff, che mi assicurò di star tranquillo, che non era vero che si volea Cannonar la Contrada: acceso io di fantasia stava inconsolabile, mia moglie svenne; il dissi al Capitano, che la venne a rilevare, e volle che assolutamente avesse desinato con loro, e notai, che quando entrò, tutti scostarono alquanto, e la ferono situare accosto a’ me, che la sforzai a fingere; intanto terminata la Cena, il Capitano si alzò di mensa, ed entrò nel quarto dove si erano radunate circa quaranta persone, il che vedutosi dal Capitano, mi cercò due guide, per andar a’ Casa Pasquale, e farsi dar per quella gente pane, e formaggio. Io sul mio equivoco, per le guide mandai a sollecitare il Canonico D. Pietro de Lellis, che predicò per la leva in massa, e cercato da Francesi, e il Can.co Angelillis, colli quali venne una quantità prodigiosa di gente, per salvarsi. Tutta la notte si svegliò a monta di sentinelle. Ma non vi fù cosa. Durossi quindi in questi palpiti sino a l martedì. Non pertanto il sabbato la sera giunse in Città un ajutante, e cinque Dragoni, colla notizia che era stata presa Capua; io li risposi, in mezzo al loro tripudio, che Capua si era resa senza combattere, ed avendomi eglino detto, che ci erano 12000 uomini, e che altrettanti n’erano qui, io così li risposi “Anzi credo, che a vostro bel’agio potete

formarne una mostra pur di cento mila, con marce, e ritirate, e contromarce, moltiplicate la stessa truppa, ed ecco li dodici, e li cento ventimila soldati; io sò che la colonna ch’è qui non è più numerosa di 1775 soldati, ad altri, e non a me direte queste armate” al che un Francese ridendo rispose “Vou set un Diable”. Nel lunedì mattina essendo venuti in casa a pranzo 12 altri Capitani, fra questi ve n’era un Cisalpino di cognome Planì, giovine versato, che attaccò meco un discorso politico in Latino, ma non riuscendoli colla mia facilità proseguirlo, parlò italiano, allora li tenni un ragionamento, posso dir insultante; li dimostrai che Francesi mai furon politici, e che in prattica antipolitica già a’ diportavano, e li predissi, che li saccheggi li abrebbero fra poco cacciati dal Regno, che l’ostare alle massime di Religione li aveano resi odiosissimi anche agli scelerati, in fuor de così detti Giacobini, come gente nullius religionis, li dimostrai, che se Kambs non ci tradiva, noi colla semplice nostra massa avremmo distrutta la Colonna che qui era venuta, e li esposi, con sua somma attenzione, la manovra, e la tattica situazione, ed azione che ci avrebbe assicurati; Tutti mi udirono ma il Planì molte cose li spiegava, e giunsero a’ tale, che mi volevano a forza condurre a Parigi, al qual invito risposi “No non ho pensiero di esser ucciso” al che si posero a ridere, e poscia si pose in ordine per mangiare. Notai in questa occasione, come veramente quella truppa era assortita dalla feccia di più nazioni, e che veramente non era entrata in Regno per occuparlo, ma solo per devastarlo: poiche un bellissimo Giovinetto Capitano, interrogato da me, come dovea condurmi per la mia quiete, mi disse non mostrate ancora di esser francese, e non prendete la Coccarda; all’incontro un’ altro Capitano, mi disse, state allegramente, perche il vostro Re ritorna: quali due avvisi li passai tosto a tutta la gente, che si trovava in mia Casa, e ci consolammo alquanto.

Del resto la mattina della Domenica, in berrettino, e scalzo, perche non aveva onde altrimenti coprirmi, volli arrivare sino al Carmine, che trovai chiuso, e dopo aver ripicchiato, discesero due Sacerdoti il Priore P. F. Michele La Corte, e due Laici, che stavan digiuni, e salito sopra vidi quel bellissimo Convento ridotto a perfettissima stalla, ed il tutto rubato, cioè il migliore da Francesi, ed il restante da Ladri paesani, che portaron via tutto, lasciandovi le sole mura. Nel ritorno, una sentinella m’insultò, ma non per questo volli andare a S. Benedetto, dove trovai le monache le quali stavano accomodando nel Cortile gli avanzi del sacco, alla presenza di Albout, che quando mi vide si pose a ridere, e di D. Federico Torti, che se le porto in sua Casa, dove accompagnai l’Abbatessa D. Eleonora Pecci parente del Valiante come si disse, e del Torti, e della moglie del Medico D. Nicola Meola. Andiedi pur’io ad accompagnarle, ed a’ Casa Torti trovai pure uno scompiglio. Le monache all’incontro la prima sera del sacco non si mossero, assicurate dal Valiante, e da un Generale Francese, che quanto cominciò la rivolta popolare, si ritrovò nel monistero a ricevere li Complimenti di rosolj, e dolci, che li prestarono quelle Reverende Signore. Ma non giovò, perche la prima visita ce la fece una Compagnia di venti soldati, che dopo lo sciopo del migliore, cominciarono a tentar il lordo, ma mi disse la Vicaria D. Maddalena Santellis, che siccome si trovarono lì rifugiate alcune giovinette, così queste furono assalite, ma le Educande furono lasciate alle grida di lei, ma che fusse, o nò seguito male, esso non lo accertava, e mi fe’ questa confidenza, dietro l’altra, che fù la seguente; le Monache impetrarono nel Venerdì mattina una guardia, che situata alla Portaria impediva il ritorno de Saccheggiatori; fù essa M.e Vic.a come più anziana destinata a portarli

da mangiare, or un di due soldati, dopo il pranzo, prese per le gambe lei , e la raggirava per trastullo nelle sue braccia, ma alle sue strida, il Compagno, lo sgridò, e la fe’ lasciare, al che risolvettero le Monache sortirsene assolutamente, e siccome vi è nel giardino interiore una stretta di altezza, di circa sessanta palmi, così la notte del Venerdì attaccate ad una fune che da un Muratore le fù calata, se ne fuggirono, e molte si andiedero a ricoverare a Casa Burgo, che stà di rimpetto al monastero ed in cui non trovarono alcuno per essersene tutti fuggiti; ma la Madre Abbatessa nel salir per la fune, venne meno, e cadde un trenta palmi giù, e poche contusioni solamente ne riportò, come mi fù detto da lei stessa, e quindi si sparsero per le case particolari, d’onde la domenica andiedero a rivedere il monastero, per risortirne come fù detto.

  • tempo ora di narrare come fu eseguito il sacco. Dico dunque, che soffiando un’orribil vento con brina di neve, verso le ore 24 mentre si credeva, che li Francesi volessero partirsene, perche tutti con armi, e mucciglia, si affollavano, Fu dato il segno al sacco, e in un baleno, lasciate le mucciglie, con accette di guastatori, ed altre assalirono grado a grado li fondachi, e le Case, scassinando porte, e portoni; dove trovavano gente li impugnvan le armi cercando argento, ed oro, ed orologii, ma il fatto stà, che assortivan tutto, oro argento, orologi, telerie, panni , seta, cuoi, scarpe, carta, funi, filo, salsicce, prigiotti, facendoci restar il solo lardo, letti, e rame, e panni sporchi, che tutto poscia fù rubato da’ paesani, che giunsero, a prendersi boffettini, Bussole di stanze, e nel Palazzo vescovile, anche la Campana; erano essi accompagnati da questi Paesani ladri, oziosi, o miserabili, che credevano, nelli principii sparsi di Liberté, Egalité, e Fraternité, esserli lecito, il ridurre altrui alla nudità. Cominciò dunque il saccheggio alle ore 24 del dì 10 Genn(aj)o giorno di Giovedì, e terminò alle ore undice della mattina del dì 15 giorno di martedì del mese di Gennajo dell’anno 1799 sicche durò per lo spazio di cinque notti, e quattro giorni intieri, e senza interruzione. La roba l’affastellavano nelle strade, quindi venivano dalla città di Alife li Carri, che se ne caricavano, e si conducevano là, dove se la dividevano, oppure all’altro piccolo accampamento nella tenuta del Duca detta di S. Simeone. Si condussero una quantità di vino strabocchevole, e tale, che mi assicura il Can.co Teologo D. Gio(v)anni Lombardi, che molti giorni dopo la di loro partenza, ancor n’esisteva dentro di un fosso, dove lo vuotavano, nel campo di Alife. Non furono, che poche case esentate dal sacco, e queste furono la Casa di D. Giacomo Vendettuoli, perche si premunì col Capitan della Piazza, la Casa di D. Raffaele Perrone, per lo sborso di antecipata somma di denaro, la Casa di Vincenzo Imperatore, ricco mercadante, del rimanente non ne fù esente alcun altra, sia che fosse stata di mendico, o di dovizioso: nondimeno pel quartier di Vallata non ardirono passar più su di S. Filippo, fino al Capo della Vallata stessa, per timor d’insidei, poiche da questo quartiere furono assaliti il giorno della scaramuccia. Il danno in tutti li generi sofferto da questa Città, si fa’ ascendere ad un mezzo milione di ducati; e tuttavia, la gente più accorta aveva nascosto il miglior degli arredi, e degli argenti, ed oro che si trovava, pria ch’essi fossero qui giunti; benche la è cosa degna di tutta la considerazione, che molti de’ saccheggiatori, forte portavan delle verghe divinatorie, perche molti di essi ebbero l’abilità di scoprir li più riposti nascondigli, fermandosi in mezzo le stanze, o luoghi, dove giunti si portavano a’ dirittura nel sito della roba, e se era nel suolo lo sfondavano, e se era in faccia a muraglia la rompevano, e ridendo se la prendevano: anzi fù osservato, che fra soldati comparivano alcuni nani mori, coverti a’ mantello con sciabla in mano, che per la mostruosità della figura, ed aria di portamento facevan trasecolar di paura li padroni di casa, asserendo, ch’erano così perfidi, che vi si trovavano sempre a cimento di esserne uccisi. Così fu desolata questa Città.

continua…………………………..

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