Fine di una Repubblica, Genova, il drammatico 22 maggio del 1797
In pochi giorni, tra maggio e giugno, finì la Repubblica aristocratica instaurata da Andrea Doria nel 1528 e nacque, sulla spinta della Rivoluzione francese, la Repubblica ligure democratica
Duecento anni fa, tra maggio e giugno del 1797, Genova vide la fine della Repubblica aristocratica (instaurata da Andrea Doria nel 1528) e la nascita della Repubblica Ligure democratica. A determinare questo cambiamento, una delle pagine più drammatiche della storia della Superba, concorsero fattori esterni e fattori interni espressione, gli uni e gli altri, delle condizioni politiche, economiche e sociali dell’Europa nell’ultimo scorcio del Settecento. I fattori esterni furono, tra gli altri, la presa di coscienza della borghesia, conseguenza delle ideologie diffuse dalla Rivoluzione francese dell’89, i nuovi equilibri di potere e le nuove correnti di traffici commerciali stabilitesi a seguito dell’urto tra la democrazia francese e gli Stati autoritari del vecchio continente. La Repubblica di Genova, con poche risorse territoriali e una declinante potenza economica, si trovò compressa tra la Francia (principale partner nei commerci nell’Alto Tirreno) e gli Stati continentali interessati a contrastare l’espansione sovversiva della Grande Nazione. Tra i fattori interni che spinsero i liguri a cercare cambiamenti istituzionali va collocato in primo piano il movimento dei cosidetti “nobili poveri”. A Genova, per poter aspirare a posti di governo, era necessario “un certo censo”, vale a dire una data disponibilità di denaro, il che spingeva le famiglie nobili a concentrare tutte le ricchezze nelle mani del primogenito. Questa norma faceva dei figli cadetti dei diseredati, riducendoli, in qualche caso, in condizioni economiche molto modeste. Di pari passo era decaduto il ruolo del Maggior Consiglio, assemblea di cui questi patrizi (ben 400) facevano parte. Il potere era andato così interamente ai duecento membri del Minor Consiglio, formato da ricchi eredi delle grandi casate che lo gestivano con criteri privatistici, attenti unicamente a tener buono il popolo, convinti com’erano che i restanti genovesi, anche se poveri, mai si sarebbero schierati contro il governo. Fu quindi una sorpresa quando, nel 1749, venne alla luce una cospirazione antioligarchica: un movimento d’opposizione, compreso ancora entro l’ambito parlamentare, con cui un gruppo di “nobili poveri” intendeva imporre una riforma degli organismi di governo, ridistribuendo il potere secondo i dettami della Costituzione del 1576. La cospirazione fu repressa dalla autorità, i principali esponenti arrestati o costretti all’esilio e tutto rimase come prima, anche se le riforme sollecitate avrebbero potuto forse salvare l’aristocrazia dalla imminente rovina. Fallita la cospirazione, l’attività degli oppositori, sostenuti dalla Francia, continuò nella clandestinità. II ministro Faipoult, incaricato d’affari a Genova, uomo d’azione, grande amico di Bonaparte, fece della Legazione il centro motore di una attiva propaganda giacobina e antioligarchia. Protetto dai privilegi diplomatici, giungeva in porto, indirizzato al rappresentante francese, abbondante materiale propagandistico che attraverso la farmacia Morando e altri intermediari veniva distribuito in città per alimentare cellule sovversive di cui gli Inquisitori di Stato erano al corrente, ma che non osavano stroncare temendo guai peggiori. Mentre era chiaro che si preparava una insurrezione, i gendarmi si limitavano a controllare e a riferire al governo, il quale si illudeva di tenere in pugno la situazione in virtù del proprio paternalismo nei confronti del popolo. Paternalismo che era in sostanza un misto di meditato calcolo e di caritatevole generosità. Rincorrendo queste illusioni, i Magnifici non diedero il dovuto peso neppure alla grande parata del partito filofrancese, alla fine di novembre del 1796, in occasione della visita a Genova di Giuseppina Bonaparte. Tra “complimenti” ufficiali, udienze riservate e ricevimenti, l’ospite ebbe onori e attenzioni più di quanto non fosse doveroso con la moglie di un semplice generale. Tali riguardi suscitarono infatti qualche polemica, ma il governo lasciò correre: era quella una cortesia interessata dato che Bonaparte teneva in mano, in quel momento, le sorti di Genova come di altri Stati italiani. L’insurrezione preparata dai giacobini genovesi sotto la guida di Faipoult, scoppiò alla fine di maggio, il 21, domenica. I sudditi francesi, civili e militari, avevano indetto diverse manifestazioni per celebrare le vittorie di Bonaparte sull’armata austriaca, coronate, il 18 aprile, dall’armistizio di Leoben. A Sampierdarena, dove era un vasto deposito militare, erano in programma banchetti e danze. Sulla facciata del palazzo della Legazione, Faipoult aveva fatto scrivere, con centinaia di luci, la parola Paix. Cortei di manifestanti, con bandiere e coccarde tricolori, percorsero la città sino a tarda ora, ma sino all’alba misteriosi via vai animarono la buia quiete dei vicoli. A dare il segnale di inizio di quella che fu chiamata la Rivoluzione di Genova fu, la mattina del 22, la fanfara del reggimento dei Cadetti. Mentre questo reparto d’élite si avviava a rilevare la guardia a Ponte Reale (la stazione marittima d’allora) a un cenno del comandante Falco, trombe e tamburi intonarono le note del Ca ira, inno proibito a Genova per i suoi accesi significati antlaristocratici. A quelle note sbucarono, dalle strade circostanti, squadre di giacobini armati che subito si unirono ai cadetti nell’occupazione del varco portuale e quindi si sparsero per la città. Mentre i nobili si rifugiavano nei loro palazzi e le botteghe chiudevano i battenti, gli insorti presidiarono le Porte delle Mura, saccheggiarono i depositi di armi, liberarono i detenuti della Malapaga e i galeotti. Un comitato rivoluzionario, destinato a guidare l’insurrezione, si installò nella Loggia di Banchi: ne facevano parte Felice Morando, Filippo Doria, l’abate Cuneo, Valentino Lodi, Andrea Vitaliani, il monaco Alessandro Ricolfi detto Bernardone. Furono subito avviati contatti con il governo cui gli insorti chiesero le dimissioni immediate. I Magnifici chiamarono quale mediatore il ministro francese che, scortato da alcuni senatori, si recò a Banchi e, consultatosi con gli esponenti degli insorti, tornò a Palazzo per dire – come era nel suo interesse – che al governo non restava che dimettersi. Il Doge Giacomo Maria Brignole e i pochi senatori che erano riusciti ad arrivare a Palazzo stavano per accettare quando, sobillati da qualche patrizio, da Portoria, l’inquieto quartiere di Balilla, mosse una folla di popolani che gridando “viva il nostro Principe”, “viva Maria” penetrò nella pubblica armeria asportandone 14 mila fucili. Questi uomini, coraggiosi e decisi, cominciarono a dare la caccia ai giacobini e ai francesi: le strade della città divennero in breve un campo di battaglia. Due giorni durarono gli scontri con morti e feriti. Lo stesso Filippo Doria cadde colpito a morte sugli scalini di Ponte Reale. Le celle di Palazzo Ducale si riempirono di democratici arrestati dai “viva Maria” e, non bastando queste, fu adattata a prigione anche la vicina chiesa di S. Ambrogio. L’intervento del popolo in difesa del “vecchio principe”, se aveva dato al governo un buon motivo per rifiutare di dimettersi, con le sue violenze, specie nei confronti dei cittadini francesi, diede anche a Faipoult l’occasione per ricorrere a Bonaparte. Questi inviò a Genova l’aiutante di campo La Vallette con una lettera per il ministro e una per il Doge, durissime entrambe. Nella prima il generale accusava Faipoult di aver impedito l’ingresso delle navi francesi nel porto e di aver agito con eccessiva debolezza. Lo invitava quindi a lasciare la città nel caso che il governo genovese non avesse ottemperato a quanto richiesto nella lettera al Doge. In questa ultima, che l’aiutante lesse, con tono arrogante davanti al senato genovese, Bonaparte chiedeva che fossero messi in libertà tutti i francesi detenuti, che fossero arrestati i nobili che avevano sobillato i “viva Maria” e disarmato il popolo. «Se entro 24 ore dopo ricevuta la presente lettera non avrete ottemperato a quanto richiesto – intimava il generale – il ministro della Repubblica Francese sortirà da Genova e l’aristocrazia avrà esistito». I Magnifici compresero che non restava loro altra scelta che accettare il diktat di Bonaparte. Solo qualcuno, nello sconforto del momento, osò protestare: “ebbene ci batteremo”, ma era uno slancio suicida. Si affrettarono i tempi. Partì per Milano Faipoult, partì una delegazione genovese composta dall’ex Doge Michelangelo Cambiaso, dal giurista Luigi Carbonara e da Girolamo Serra per concordare con Bonaparte, in quei giorni “in vacanza” nella villa di Mombello, il cambio di governo. Lo stesso Bonaparte, tra il 5 e il 6 giugno, con l’aiuto di Faipoult, stese il testo di una Convenzione che prese il nome di “Convenzione di Mombello”, con cui si sanciva la fine della Repubblica di Genova, oligarchica e aristocratica, e la nascita della Repubblica Ligure democratica. Al testo dell’accordo, che fu poi approvato a Genova il 9 giugno, Bonaparte unì una lista di 22 persone designate a formare il nuovo governo, tra cui figuravano alcuni nobili, compreso il marchese Giacomo Maria Brignole. Questo governo, detto provvisorio fu insediato il 13 giugno con a capo lo stesso Giacomo Brignole che, in tal modo, cambiava soltanto carica: da Doge diventava Presidente. La Repubblica Ligure si trascinò in una travagliata esistenza sino al 1805, quando la Liguria entrò a far parte dell’Impero Napoleonico.
di ANTONINO RONCO
fonte
http://www.francobampi.it/liguria/giacobini/secolo1997_1.htm