Fra’ Diavolo, incredibile protagonista nei primi anni dell’Ottocento di Alfredo Saccoccio
Le armate di Napoleone Bonaparte che invasero il Regno di Napoli lo definirono brigante perché si oppose a loro con tutte le forze: in realtà lui non era altro che un grande partigiano, un guerrigliero che lottava per la propria terra, il Sud d’Italia, contro le strapotenti truppe francesi, resesi odiose ed odiate per le loro violenze e prepotenze, per le loro ruberie e requisizioni. I discepoli di Voltaire, che all’inizio furono accolti con giubilo, poco dopo furono considerati una iattura, perché predavano le città con minuziosa cura, comportandosi da novelli lanzichenecchi.
Spesso il nome di Michele Pezza è associato a quello di celebre brigante. Non ci sorprendiamo. E’ più difficile sradicare una leggenda che promuovere la verità e, quanto a quella che concerne “Fra’ Diavolo”, romanzieri e musicisti l’hanno ormai troppo diffusa da lunga pezza, senza parlare delle vecchie passioni antiborboniche, che hanno trovato gusto a deformare la realtà storica. I francesi – è noto – dettero quell’appellativo a tutti i realisti che lottarono nel 1799 e nel 1806 contro la loro violenta conquista, come l’avevano regalato ai generosi figli della Vandea, infamati in tutti i modi e con tutti i mezzi, grazie alla manipolazione dell’opinione pubblica. I massacri di settembre, gli annegamenti di Nantes, le stragi di Lione, le colonne infernali di François- Joseph Westermann sono il retaggio del Terrore rivoluzionario che accompagnano le mascherate antireligiose.
Quanto a Michele Pezza, contro le due occupazioni francesi del reame, egli inalberò la questione di identità e di orgoglio nazionale. Per lui, che aveva cuore aurunco e di quegli infiammabili, la rivoluzione francese fu un “virus”, che ha avvelenato, con la sua profonda irreligiosità, la società scomponendola, distruggendo tutte quelle istituzioni e quei simboli, propri della Tradizione. Egli aveva capito che, dietro la Rivoluzione, dietro il suo capillare e sanguinoso dispiegarsi in ogni strato della società civile, c’era stata l’implacabile dittatura delle società di pensiero”, che erano formate da logge massoniche, da gente di penna e di parole, da avvocati, da giudici, da qualche medico. Essi si riunivano per discutere di un po’ di tutto, “in astratto”, lontani dai bisogni reali del popolo che pur dicevano di voler redimere, avendo voluto applicare meccanicamente le idee, le leggi, le istituzioni francesi, mentre il popolo del reame di Napoli era diverso di carattere, di tradizioni, di condizioni sociali, civili, economiche. Esso era dalla parte degli odiati “Trono e Altare”. Lo aveva capito il Cuoco che non tutte le rivoluzioni sono ugualmente utili e possibili, ma soltanto quelle che sono confacenti al genio di un popolo e alle sue preesistenti condizioni di vita e di cultura. Non aver tenuto conto di questo e aver cercato di applicare alle nostre genti del Sud lo stesso schema ideale che ebbe favorevole successo nella Rivoluzione francese produsse il fallimento di quella napoletana, ricalcata sopra un astratto modello, estraneo alle concrete esigenze della popolazione partenopea, ed anzi in contrasto con esse. Questa astrazione era la debolezza del nuovo governo, ma anche la sua forza.
Senza misurarsi con i limiti di una società immersa nella storia, essi imponevano la forza di una Libertà, di un Uomo, di un Popolo orgogliosamente generali e assoluti. Era, invero, la passione dell’ideale a sommuoverli nel profondo.
“Fra’ Diavolo” era legato, in modo inscindibile, alla cultura del proprio Paese, con un profondo amore per il focolare domestico, quello dei padri, reso sacro dalle tombe ancestrali. Egli accettava, con profondo rispetto, le decisioni delle “autorità secolari”, che conservavano il genio della stirpe. La religione, essendo cresciuto alla scuola di don Nicola De Fabritiis, gli imponeva l’obbligo di osservare regole morali, i cui legami più sacri erano spezzati dai zelanti repubblicani, ovviamente al nobile scopo di realizzare il paradiso in terra e una chimerica uguaglianza di beni, grazie ai cannoni e ai fucili francesi, che imponevano una falsa libertà e una falsa uguaglianza con le armi, cancellando tutto un mondo di valori (Dio, Patria, Re, Famiglia), che, da sempre, avevano nutrito il popolo napoletano. Il mito della libertà era stato una sorta di sequestro delle coscienze per i regnicoli delle Due Sicilie.
Per il Pezza la patria non era soltanto una parola vuota di significato; la patria voleva dire tre cose: il suolo, gli abitanti e la religione, trasmessa di generazione in generazione. Egli fu soldato valoroso e fedele, che rispose al disperato appello del suo re, senza tener conto della sua ingratitudine, particolarmente sotto l’aspetto finanziario. Il leggendario ribelle, dal cuore generoso e nobile, fu sempre pronto ad osare tutto per il trono e per la Chiesa. Egli non sapeva (e ne aveva fornito mille prove) tradire la parola data. Ferdinando IV, quello del duplice esilio volontario in Sicilia, il re dedito ai bagordi, non meritava un suddito e un difensore dal carattere e dal valore di Michele Pezza; un difensore che aveva lottato con ogni energia. Egli fu il solo uomo che “facesse sul serio” nella resistenza nel regno delle Due Sicilie, il solo uomo che ebbe il coraggio di tenere alto quel vessillo gigliato che tutti ammainavano, mentre, a Napoli, “le teste calde” democratiche instauravano, con l’aiuto del generale Championnet, nientemeno che la Repubblica, osteggiata dal popolo dei bassi e dei vichi, che desideravano il ritorno del sovrano ed il ristabilimento della “tranquillità” e non un modello estraneo, calato dall’alto, venuto dalla Francia.. A suo modo, fu idealista, perché, quando non si hanno i mezzi di appoggio e si combatte, non si può che essere idealisti.
L’amore della giustizia e della verità storica non deve più consentire sia così screditata l’azione spesso eroica del Pezza e dei 200.000 insorgenti che si lanciarono, con fede e coraggio, contro le vittoriose truppe francesi, in tutto il reame di Napoli, quando nessuno contrastava più la violenta conquista del suolo patrio, insanguinato dai suoi cento e cento patiboli, che funzionavano a pieno regime. L’insigne blasone rivoluzionario ne è inzaccherato senza che ci sia candeggina che possa porvi rimedio.
In molti manuali arretrati “Fra’ Diavolo” ebbe il titolo obbrobrioso di “brigante”, ma gli stessi francesi ne avevano ben diversa stima e lo chiamarono colonnello, quale era in realtà, ufficialmente riconosciuto da Ferdinando IV, quando sperarono, per un momento, di poterlo attrarre alla loro causa, quando l’imbastitura repubblicana rischiava di crollare, camminando sui piedi di argilla. Gli promisero, perché cooperasse alla caduta di Gaeta, nel 1806, cinquantamila ducati, che il Pezza rifiutò dicendo: “Credevo di valere più di questa miserabile somma, ma, comunque, io non tradisco il mio re!”. Una decisione presa in nome della fedeltà a un mondo, ad una parola, a uno stile di vita, a se stesso insomma.
Atto di nobiltà, che davvero non è da brigante; una lezione di sano patriottismo e di orgoglio nazionale.
E’ ora che “Fra’ Diavolo”, una delle più originali individualità del nostro passato politico-militare, dalla tumultuosa, vorticosa vicenda umana, segnata di un umiliante stigma “nigro lapillo”, sia riaccreditato pienamente e mondo di colpa. Un personaggio infamato da Pietro Colletta, che aveva passato la vita nelle anticamere, cercando di guadagnarsi il favore con le lusinghe e la popolarità con le arguzie, che aveva provato tutte le carriere e giustamente si era meritato nell’esercito il soprannome di “avvocato” e al palazzo reale quello di soldato. Egli non esercitava alcuna influenza né sull’esercito né sul popolo e solo più tardi doveva con la penna riscattare la sua pessima reputazione. Nell’opera sul reame di Napoli lo scrittore ha, però, svisato la storia passando sotto silenzio il nobile disinteresse dell’itrano, che meritava una sorte migliore. Insudiciando la memoria di un grande, Colletta ci fa pensare a un mulo che, quando passa, inzacchera un gentiluomo!
E’ ora di riconoscere la portata della sua azione guerresca, avendo compiuto gesta memorande, in lotta disumana con la potenza dei nemici agguerriti, per impedirne il passaggio sul suolo patrio, dedicandogli una statua nel cuore del centro storico, nella piazzetta di S. Maria Maggiore, nei pressi della sua casa avita. Lo si può e lo si deve fare, in risarcimento del vituperevole nome di “brigante” riservatogli, lui che aveva speso il suo sangue, i suoi sudori, le sue veglie, le sue fatiche, per la causa a cui era legato per dovere, per onore, reagendo contro l’idea di conquista e di sopraffazione e contro le speciose ideologie, che, con l’Illuminismo, si erano propagate in tutta Europa; ideologie dalla furia distruttrice, con cui, incuranti delle disposizioni emanate dalla Convenzione Nazionale, i giacobini (e fra essi non mancavano certi massacratori di prigionieri indifesi, assetati di teste e di sangue, in nome della “égalité” e della dea Ragione, fantoccio sanguinolento, che ha un numero sterminato di esaltatori e anche di storici, i quali, considerandosi ossevatori obiettivi, giustificano la rivoluzione francese con argomenti vari, tirando in ballo questioni etiche, politiche, sociali e, manco a dirlo, filosofiche, tanto da fare di quel flagello un motivo di civiltà umana, mentre a noi ci è sempre parsa un’esplosione della plebaglia parigina, aizzata da una schiera di intellettuali (che finiranno per rimetterci la testa), contro il buon re Luigi XVI, signore e galantuomo, aperto ad ogni conquista moderna). In queste convinzioni siamo in compagnia del padre di Leopardi, il quale ha saputo far strage di tutti i luoghi comuni e di uno slogan fortunato (calpestato e deturpato dai suoi più fieri paladini, mediante le prevaricazioni, gli arbitrii, gli abusi), che sorreggevano quella feroce, insensata rivolta, e godiamo soprattutto di avere in comune con Joseph de Maistre sentimenti e pensieri, a proposito di quell’evento.
Il colonnello e duca di Cassano, l’eroico difensore di S. Andrea, non cedette alle belve scrivendo pagine meravigliose nella storia del Mezzogiorno d’Italia, pur sapendo che la sconfitta è inevitabile, benché veda i tradimenti, le diserzioni, benché comprenda qual è il corso della Storia, per la quale i vinti sono dei criminali, dei manigoldi e dei vili, mentre i vincitori sono ad un livello superiore di umanità. Concezione manicheistica da rigettare, lettura di maniera che fu data agli eventi prodottisi sul finire del secolo dei lumi da non avallare. Definire “patrioti” quelli che dettero man forte ai transalpini, veri e propri lacchè al servizio dei francesi, sventurati burattini francofoni, mascherando spesso appetiti ed obiettivi inconfessabili, e ricoprire di epiteti poco nobili quelli che si conservarono fedeli al sovrano, o che penarono per le sorti del pontefice, è incorrere in una semplificazione, è fare dello schematismo.
L’artista ideale per questa opera potrebbe essere Vito La Rocca, molto apprezzato dagli addetti ai lavori, autore di pregevoli sculture, lavorate di pollice e di spatola, dalle quali scaturisce la felicità del modellato, che arricchiscono biblioteche e sodalizi culturali nazionali e regionali.
Il maestro d’arte, allievo di Emilio Greco presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, si è fatto conoscere per aver realizzato una lunga serie di sculture sacre. Le ultime, in ordine di tempo, raffiguranti i volti di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, pontefici canonizzati dal papa Francesco, il 27 aprile 2014.