Francesco Pappalardo, 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina.
Pubblichiamo la trascrizione — rivista dall’autore e annotata redazionalmente — dei due interventi che Francesco Pappalardo ha svolto in occasione della tavola rotonda 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell’identità del 27 marzo 1999 a Milano, di cui riportiamo più sotto una breve cronaca.
D.: Come leggere il breve episodio della Repubblica Napoletana all’interno del contrasto fra i due momenti della modernizzazione politica in senso ideologico e della rivendicazione dell’identità?
R.: Il quesito è molto articolato e presuppone una risposta altrettanto articolata, ma dovrò limitarmi ad alcuni aspetti. Partirò dalla definizione di “rivoluzione passiva”, riferita agli eventi napoletani e in genere alle rivoluzioni del Triennio Giacobino (1796-1799) in Italia. L’idea di “rivoluzione passiva” nasce, già durante il Triennio, fra i protagonisti della repubblica, primo fra tutti il molisano Vincenzo Cuoco (1770-1823), che proprio a Milano, in esilio, scrive nel 1801 il Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799 (1),dove constata che la rivoluzione era stata imposta dalle armi francesi ai “patrioti” napoletani e che a Napoli coesistevano due “popoli”: “[…] essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse” (2) . Anche Francesco Lomonaco (1772-1810), un giacobino un po’ più arrabbiato di Vincenzo Cuoco, lamenta, nel suo Rapporto al cittadino Carnot, del 1800, l’assenza in Italia di una rivoluzione “attiva”. Le stesse gazzette dell’epoca, i giornali repubblicani, colgono questa nota di estraneità dei rivoluzionari rispetto alla popolazione, e il Veditore Repubblicano dell’11 germile (31 marzo1799) — era appena stato imposto il il “decadario”, cioè il calendario rivoluzionario francese, che introduceva la settimana di dieci giorni e mutava i nomi dei mesi e dei giorni — osserva: “I Napoletani sono stati costretti ad essere liberi”. Questa annotazione, forse in maniera un po’ più cruda, è stata ripresa duecento anni dopo da uno storico francese filo-rivoluzionario, Jean-Louis Harouel, professore ordinario presso la facoltà di Diritto dell’Università di Parigi II, autore di uno studio sulle “repubbliche sorelle”, cioè le repubbliche giacobine proclamate nel Triennio al di fuori della Francia. Intervistato da un quotidiano napoletano, Harouel ha dichiarato: “In fondo, quelle repubbliche ricordano le democrazie popolari create dall’Unione Sovietica, in seguito a un’invasione militare e con l’appoggio di minoranze vicine per ideologia all’occupante. Non appena quest’ultimo abbandona il campo, il regime crolla” (3) . Si tratta di un’affermazione molto decisa, che può essere anche discussa in altra sede, ma che conferma le intuizioni dei rivoluzionari di circa duecento anni prima. È stato fatto notare che questo appellarsi alla estraneità dell’invasore, al suo carattere di straniero, non ha molto senso in un paese come l’Italia, soprattutto in un regno come quello di Napoli, in qualche modo avvezzo alle invasioni. Si afferma comunemente che le dominazioni francese, spagnola, austriaca erano per gli italiani, non dico un fatto quotidiano perché duravano anche a lungo, ma comunque un fatto consueto, e che le popolazioni si erano dunque abituate al cambiamento di dinastia e talora anche al cambiamento di cultura. Per rispondere a questa obiezione mi viene in aiuto Luigi Blanch (1784-1872) — un moderato, come si definiva allora una persona che criticava sia i rivoluzionari che la monarchia e cercava quindi di stare in equilibrio fra posizioni differenti —, forse il più acuto degli storici napoletani della prima metà del secolo XIX, autore di una storia de Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, che rimase inedita finché venne scoperta e pubblicata da Benedetto Croce (1866-1952), nel 1945 (4). Blanc scrive che “[…] i popolani di Napoli alla fine del Settecento, quando conobbero la morte del re [Luigi XVI (1754-1793)] e le persecuzioni alla religione e ai suoi ministri, acquistarono profonda antipatia, che si poteva senza esagerazione denominare odio, per le nuove massime rivoluzionarie e per i suoi partigiani” (5) . Agiva in loro un sentimento di nazionalità che, con un significato piuttosto diverso da quello odierno, “[…] rappresentava per quel popolo il proprio modo di essere, le abitudini, i costumi e le credenze. Conservarle era indipendenza e libertà, perderle schiavitù” (6) . Pertanto, ed è questa l’annotazione più interessante in relazione a quello che stiamo dicendo, “[…] l’invasione dei Francesi della rivoluzione dava al governo un appoggio che esso non avrebbe trovato forse contro i Francesi di Luigi XVI né contro gli Austriaci o gli Spagnuoli, che avessero invaso il regno e cambiato la dinastia” (7) . L’annotazione, in sintesi, vuol dire che la Rivoluzione è avversata dai napoletani — quando dico “napoletani” intendo tutti gli abitanti del Regno, ovvero i “regnicoli”, come si diceva allora, perché il Regno di Napoli è forse l’unico degli Stati d’Europa intitolato alla sua capitale e quindi si può ben estendere il termine all’insieme dei suoi abitanti —, e nel complesso anche dagli italiani, che la percepiscono nella sua essenza reale: straniera nella lingua e nei modi, ma anche straniera al costume, alle credenze e ai legittimi interessi di un popolo. Alla luce di queste considerazioni, capovolgo l’obiezione e domando: perché i napoletani, che hanno assistito effettivamente nel corso dei secoli al succedersi di diverse dinastie sul trono di Napoli, insorgono soltanto contro i francesi? La risposta, a costo di banalizzare, è molto semplice: perché i sovrani succedutisi prima dei francesi rivoluzionari erano legittimi, cioè s’impegnavano a rispettare le tradizioni e l’autonomia giuridica e istituzionale del Regno. Erano pertanto giustificati i sentimenti di lealismo e di devozione nutriti dalla popolazione meridionale verso le dinastie succedutesi fino al 1734, quando la dinastia diventa nazionale, con i Borboni. Giuseppe Galasso — che a mio avviso è uno dei più attenti storici italiani contemporanei — ricorda che: “Nell’etica civile di quel tempo l’appartenenza di più paesi alla medesima corona e dinastia non configurava alcun problema di nazionalità oppressa. Se la sovranità regia era legittima, la coscienza pubblica e il sentimento politico non potevano trovarvi alcunché di incongruo col proprio orizzonte psicologico e culturale” (8) . Quindi, il mutamento che avviene con il 1799 — e qui credo che stia il centro della risposta alla domanda del moderatore — consiste in questo: tutte le dinastie succedutesi sul trono avevano rispettato l’identità del Regno di Napoli e dei napoletani, mentre i rivoluzionari francesi invece non la rispetteranno, perché la modernizzazione politica di cui erano portatori di suo vuol fare tabula rasa di quanto esiste. La Repubblica Napoletana è un esperimento ante litteram rispetto a quello che sarà fatto poi con il Risorgimento, quando gli “unitari”, alla fine del percorso, constateranno che, fatta l’Italia, bisognava “fare” gli italiani. In realtà, non occorreva “fare” gli italiani, bensì “rifarli”, perché gli italiani già esistevano e le insorgenze sono appunto la prova di questa comune identità del popolo italiano. I repubblicani non si pongono tanto lo scopo di educare i napoletani bensì di “rieducarli”, in senso proto-marxista,cioè di costruire un popolo nuovo, diverso da quello che reale. Alla fine del secolo XVIIIesisteva un popolo napoletano — e non entro nella querelle storiografica sull’esistenza o meno di una nazione napoletana, che in questa sede non è rilevante — ed esisteva una nazione italiana con una sua identità specifica, complessa e molto articolata, manifestatasi storicamente all’interno delle diverse realtà storiche, politiche e sociali che componevano il “paese Italia”. Questa identità si rivela in maniera molto chiara, splendida ed efficace proprio di fronte al comune nemico: è appunto l’unità del mondo difeso e della sua cultura a provocare una risposta unitaria da parte della popolazione italiana. E saranno proprio i repubblicani di Napoli a doverlo constatare amaramente, scoprendo quasi con terrore, così come del resto era accaduto ai loro colleghi francesi, che il Popolo, con la “P” maiuscola, da essi idealizzato, non era il popolo che avevano sognato e studiato a tavolino, ma aveva una concretezza che gli derivava proprio da una identità storica ben specifica. Quando la letterata Eleonora Pimentel Fonseca (1752-1799), il 9 febbraio 1799, scrive con stupore sul Monitore Napoletano — il giornale da lei animato durante i giorni della Repubblica Napoletana — “[…] ond’è poi surto un tanto subitaneo furore che la plebe insurga da per tutto, atterri gli alberi di libertà, e si scagli accanita contro tutti i Civili?” (9) ,sembra domandarsi “Ma da dove vengono questi?”. È la scoperta del popolo “reale”, che — avvisa la letterata — “[…] per fintanto che una migliore istruzione non l’innalzi alla vera dignità di Popolo, bisognerà continuare a chiamar plebe” (10) . Quando il giovane duca Gennaro Serra di Cassano (1744-1799), davanti al boia, si rammarica perchéil popolo per cui aveva combattuto plaudiva alla sua esecuzione, mostra tutta la sua incomprensione del reale — essendosi costruita, probabilmente in buona fede, una immagine del popolo diversa da quella reale —, quell’incomprensione che aveva suscitato ovunque una reazione compatta. In tutto il Regno di Napoli sono centinaia le comunità insorte, unanimemente e spontaneamente, senza alcuna forma di coordinazione, proprio a testimoniare, in modo concreto e anche sanguinoso, la resistenza a una trasformazione forzata. Qualche giorno fa a Roma, in occasione della presentazione di una nuova edizione del libro di Vincenzo Cuoco, è stato stampato un manifesto che sullo sfondo riportava i nomi dei centoventi “martiri” della Repubblica Napoletana, ovvero di coloro che erano stati condannati a morte da parte della Giunta di Stato nominata da Ferdinando IV di Borbone (1751-1825). Ebbene, senza condividere assolutamente questa forma di repressione — il re non volle seguire i consigli del cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-1827), che gli suggeriva di favorire con cautela una pacificazione del Regno, “[…] perché distruggendo si distrugge la nostra patria, ed è molto difficile il restorarla” (11) —, né volendo peraltro “pesare” i morti di una parte e dell’altra, suggerirei di preparare una locandina recante i nomi di tutti i villaggi brutalizzati dai francesi e dai giacobini collaborazionisti — costoro all’epoca non fecero nulla di diverso dal collaborare agli abusi e alle violenze di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero —, che però sono certo non basterebbe a contenere i nomi di tutti i paesi distrutti.
D.: Potrebbe descrivere l’humus popolare che, nel bene e nel male, genera i “lazzari”?
R.: Come ha ricordato l’amico Giuseppe Planelli, è difficile spiegare in breve i termini dell’Insorgenza senza gli elementi utili a capire il comportamento di un popolo di “antico regime” — sia pure un antico regime ormai allo stato terminale —, e quindi l’organizzazione di una società civile autonoma rispetto allo Stato, uno Stato ben diverso da quello moderno. Il dottor Giacomo de Antonellis, che circa vent’anni fa ha scritto un libro sulle “quattro giornate di Napoli” del 1943, ha voluto richiamare anche le “tre giornate di Napoli” del 1799. Proprio il comportamento dei napoletani — rappresentato non soltanto dai “lazzari”, cioè dal popolo minuto, ma anche da quattromila soldati dell’esercito regolare — in queste giornate, quando affronta l’esercito francese rivoluzionario come più tardi affronterà quello tedesco nazionalsocialista, se studiato bene, esprime ed evidenzia in qualche modo l’organizzazione di una società che, come ha delineato rapidamente il professor Edoardo Bressan rispondendo alla prima domanda, era disposta comunque per ceti o per ordini o per corpi intermedi, e quindi aveva una organicità e un’autonomia oggi difficilmente comprensibili. Ebbene, la resistenza quasi vittoriosa dei napoletani nel 1799, di fronte a un esercito che, per quanto “scalzo e lacero” come tutti gli eserciti napoleonici di quegli anni, possedeva comunque un volume di fuoco eccezionale per l’epoca, mostra una notevole capacità organizzativa dei popolani, grazie anche a momenti di coordinamento che fanno riferimento a forme di organizzazione interne alla società bassa di Napoli — tipiche delle società di antico regime —, in particolare alle strutture corporative e ad altre forme di aggregazione religiosa dei laici, come le “cappelle serotine”, scuole di preghiera istituite da sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) circa settant’anni prima. Si tratta quindi di un popolo che ha un’organizzazione e dei capi, inizialmente di estrazione aristocratica, come Gerolamo Pignatelli, principe di Moliterno (1774-1848), eroe della guerra del 1796 contro i francesi nell’Italia settentrionale, e il generale Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana, acclamati comandanti militari. Ancora una volta, come nella insorgenza della Vandea in Francia nel 1793-1796, gli insorgenti vanno a stanare dalle loro case i nobili e chiedono loro di mettersi alla testa della rivolta popolare, proprio perché hanno ancora questa idea della società che deve essere organizzata in tutte le sue componenti. Ma gli aristocratici passano quasi subito nel campo avverso, occupando insieme ai giacobini il castello di Sant’Elmo, da cui si domina l’intero abitato di Napoli. I “lazzari” scelgono allora capi provenienti dalle loro file, i capi “naturali”, che la società ha saputo esprimere “dal basso”, nelle corporazioni e in tutte le forme di aggregazione laiche e religiose dell’epoca e in questo modo possono resistere per tre giorni a un esercito molto potente.
Vorrei chiudere cercando di delineare in due minuti la parabola — che in qualche modo è reale e in qualche modo è metaforica — percorsa dai “lazzari” napoletani fra il gennaio e il giugno del 1799. Essi si comportano in modo radicalmente diverso a distanza di pochi mesi e ciò dipende, rivelandolo, dal conflitto fra l’identità e la modernizzazione. I napoletani non avevano dimenticato le angherie e le violenze di cinque mesi di occupazione, patite in silenzio. Il marinaio di Santa Lucia, fucilato per aver gridato “Viva il re!” davanti ai soldati francesi che gli ingiungevano di inneggiare alla “Libertà”, bene impersona il popolo genuino, che non si piegava alla Rivoluzione. Questo è l’eroe del popolo che non dimentica i tradimenti e che a giugno si vendica ferocemente. Ma se il popolo di gennaio ha ancora una identità, una struttura, una organizzazione e dei capi naturali, dopo cinque mesi di Rivoluzione si presenta senza guida e disarticolato, anche in conseguenza del repentino voltafaccia di alcuni suoi capi, come Michele Marino e Francesco Antonio Avella, detto “Pagliucchella”, attirati dalle lusinghe dell’abile generale Jean Etienne Championnet (1762-1800). In quei cinque mesi idealmente si è consumato il precoce trapasso verso la modernizzazione, si è eclissata l’identità di popolo cristiano, le forme antiche di organizzazione della società sono andate perse, i capi non ci sono più, e si assiste alle brutalità di giugno, quando inutilmente il cardinale Ruffo tenterà di fermare la violenza popolare e ci sarà saccheggio e buio sulla città per sette giorni. Solo a questo si rifaranno in seguito gli storici rivoluzionari per bollare definitivamente d’infamia un popolo contro-rivoluzionario, che conferma la sua lontananza dalla “civiltà”: ma quel popolo è figlio della Rivoluzione, che compie ogni sforzo nell’organizzare e poi “liberare” le latenze sovversive presenti post peccatum, in misura minore o maggiore, in ogni corpo sociale (12) . Senza le barriere costituite dall’autorità, un popolo di antico regime, che ha un sua storia, con tutti i suoi limiti — alcune riforme erano state avviate anche da re Ferdinando IV e nessuno sa se potevano andare in porto felicemente senza Rivoluzione —, si trova di fronte a una rivoluzione che cerca di fare tabula rasa di quanto esiste. La massa amorfa ed eterodiretta di giugno è in un certo senso, anche se con forme meno violente e diverse, la metafora dell’Italia in crisi di identità che abbiamo oggi, che ha attraversato, pur senza perdere tutti i suoi parametri di riferimento, il Triennio Giacobino, ha attraversato l’unità statuale forzata del 1861 e tante forme di disarticolazione e di pedagogia “patriottica”, che ci lasciano oggi senz’altro con un’identità molto più povera.
Francesco Pappalardo
Note
(1) Rizzoli, Milano 1998.
(2) Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799, Procaccini, Napoli 1995, p. 123.
(3) Jean-Louis Harouel, in Speciale Bicentenario, supplemento a Il Mattino, del 21-1-1999, p. 25. La tesi è illustrata in Idem, Les républiques soeurs, Presses Universitaire de France, Paris 1997.
(4) Cfr. Luigi Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Idem, Scritti storici, a cura di B. Croce, 3 voll., Laterza, Bari 1945, vol. I, pp. 3-292.
(5) Ibid., p. 46.
(6) Ibid., p. 47.
(7) Ibidem.
(8) Giuseppe Galasso, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450-1750), in G. Galasso e Luigi Mascilli Migliorini, L’Italia moderna e l’unità nazionale, in Storia d’Italia, a cura diG. Galasso, UTET, Torino 1998, vol. XIX, pp. 3-492 (p. 480).
(9) Il Monitore Napoletano 1799,a cura di Mario Battaglini, Guida, Napoli 1974, p. 114.
(10) Ibid., p. 66.
(11) Lettera del cardinale Fabrizio Ruffo al ministro John Francis Edward Acton (1737-1811), del 30-4-1799, in La riconquista del regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del re, della regina e del ministro Acton, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1943, p. 155.
(12) Cfr. Gustave Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, Effedieffe, Milano 1998, pp. 11-145 (pp. 91-92).
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