Gli ideali del Risorgimento. Le “verità” della storia ufficiale
Come giusta ricompensa al lavoro svolto da professionisti specializzati in altre discipline, ma trasformatisi in ricercatori e frequentatori di archivi perché spinti, più che dal desiderio, da un vero imperativo di ordine morale di ristabilire la verità nella vulgata relativa alla storia scritta ed imposta dai vincitori mi augurerei che si andasse assottigliando a grandi passi e sempre più velocemente il numero delle persone che credono ancora alla favola raccontata dai vincitori circa l’unità dell’Italia, agognata da tutti i sudditi dei vari stati e staterelli presenti a fine Ottocento, che chiedevano di essere liberati dal “tirannico” giogo dei propri sovrani. Come se poi, la dinastia che si apprestava a subentrare fellonescamente a questi ultimi fosse più raccomandabile!
L’augurio che questa svolta avvenga e progredisca il più velocemente possibile non è dettato da partigianeria, ma da un motivo molto più sincero ed obiettivo, che dovrebbe costituire il denominatore comune di tutti gli abitanti della Penisola. Se è vero, infatti, come non si stancano di sostenere i vincitori, gli storici e gli opinionisti di regime, che la genesi del cosiddetto Risorgimento affonda le proprie radici nel desiderio di quelli tramandati come “padri” di creare una patria, che fosse la casa comune di tutti gli italiani, allora in comune dovremmo avere anche la storia, come i popoli di tutte le nazioni costituitesi anche con la violenza, lo sterminio e il genocidio. Ma, purtroppo, già ad un esame superficiale, senza premesse, pretese o intenti scientifici, si può rilevare che le cose non stanno così, in quanto , di “Italie”, ce ne sono per lo meno due: una, che dai confini più lontani del Settentrione si estende fino al Centro, ed un’altra costituita dalla parte meridionale della Penisola. In queste due Italie la vita scorre con ritmi e velocità diversi. Nella prima c’è di tutto e di più, nella seconda – ed in alcune sue aree in particolare – manca perfino il necessario. Purtroppo, come per la storia, anche per questo stato di cose i vincitori e i loro epigoni attribuiscono la colpa ai vinti, definendoli incapaci, abulici o profittatori.
Ma, se una piantina viene messa a dimora in un terreno inquinato, una volta giunta a maturazione, i suoi frutti potranno mai essere esenti da tare? E anche quando il frutto dovesse diventare più grande, esso sarebbe sempre bacato. E così, come risulta ormai dai documenti che vengono messi alla luce da operatori non allineati, in un substrato inquinato dalle più basse turpitudini, è nato il Risorgimento, non certo ispirandosi ad ideali puri e sinceri. Inutile parlare qui dei vari incontri avvenuti in segreto, proprio come cospiratori, tra Napoleone III e Cavour, per trovare in uno degli staterelli italiani un punto debole per motivare – anche se provocato e pretestuoso – un intervento militare che permettesse di occuparlo proditoriamente; i vari tentativi di far insorgere le popolazioni meridionali – tutti falliti – con la spedizione dei fratelli Bandiera (1844); con la spedizione di Pisacane del 1857, o di sollecitare il disinteresse e la neutralità delle altre nazioni con le lettere del Gladstone (1851), la cui falsità fu successivamente denunciata dallo stesso autore durante una sua nuova visita in Italia.
Gli ideali di libertà e fratellanza del Risorgimento – proprio come quelli strombazzati dalle varie repubbliche giacobine – erano solo slogan propagandistici, che non avevano nulla a che fare con il fatto che gli italiani da “ sudditi “ diventassero tutti fratelli e “cittadini” di una patria comune.
Tra i numerosi falsi che costituiscono l’humus del Risorgimento, vi è pure il romantico e salgariano episodio del “furto” di due piroscafi dal porto di Genova da parte degli ardimentosi ed impavidi garibaldini!
Era il 5 maggio del 1860. La società di navigazione genovese di Raffaele Rubattino disponeva di una “nutrita” flotta di ben otto vapori! Due di questi, sotto gli occhi di un costante servizio di vigilanza, stavano per essere “rubati” da un manipolo di temerari.
Era governatore del porto di Genova Giuseppe Rey di Villarey e amministratore della Società Rubattino Giovan Battista Fauché. Il Rey era stato informato che alcuni garibaldini avrebbero “rubato” due vapori della Rubattino, i quali, però, (giusto per rimarcare il disinteresse e lo spirito patriottico che animava gli artefici del Risorgimento!) sarebbero stati regolarmente pagati a fine avventura.
In qualità di Governatore, il Rey non ignorava che sarebbe stato suo dovere intervenire, perché, trattandosi a tutti gli effetti di un’azione di pirateria, se le cose non fossero andate per il verso giusto, con un governo ondivago come quello presieduto dal Cavour, sarebbe stato ritenuto responsabile del furto. Allora chiede consiglio all’ammiraglio Francesco Serra, e, non contento dell’esito del colloquio, interpella anche l’intendente Pietro Magenta. Poiché anche quest’ultimo gli conferma che quelle – anche se non scritte – sono le disposizioni del governo, il Rey si adegua a quelli che, a tutti gli effetti, sono ordini superiori anche se pieni di aleatorietà, ma, in cuor suo, spera sempre che le cose vadano per il verso giusto, poiché, in caso contrario, sicuramente sarebbe stato chiamato a rispondere!
Questo era il codice morale su cui si dipanava il Risorgimento (vedi lettere private tra Vittorio Emanuele e Garibaldi, che annullavano le disposizioni ufficiali che servivano per gabbare il pubblico; quelle tra Cavour e Garibaldi, tra Cavour ed i vari diplomatici accreditati nelle ambasciate estere, i cui ordini “ufficiali” differivano da quelli “segreti” affidati ad agenti non ufficiali e che esponevano i diplomatici accreditati a figure barbine, ecc.).
Allorché i portuali gli vengono a chiedere cosa fare, il Rey ordina che i turni di guardia chiudano un occhio. Allora gli “ardimentosi” garibaldini riescono ad eludere (!) i controlli degli agenti e “rubano” due piroscafi: il Lombardo e il Piemonte.
Per quest’azione, Garibaldi lascerà per la storia futura uno dei tanti falsi di cui è infarcita l’epopea risorgimentale: la lettera ai “Signori Direttori dei vapori nazionali per essersi impadronito dei due vapori” ed un’altra al re per comunicare che l’impresa non aveva altri fini che “motivi puri affatto da egoismo e interamente patriottici” (in G. Fasanella – A. Grippo “1861 – La storia del Risorgimento che non c’è sui libri di storia. L’Italia di ieri che racconta l’Italia di oggi” – Sperling & Kupfer). Ovviamente chi fosse venuto a conoscenza di queste lettere sicuramente non avrebbe peccato di ingenuità ritenendo Garibaldi un vero “signore” ed il Risorgimento un’epoca ispirata veramente da ideali motivati “affatto da egoismo”, e che, quindi, la storia fatta studiare a scuola desse ragione alla vulgata dei liberali. Ma, un po’ come è avvenuto per il diario del bersagliere sabaudo Carlo Margolfo, una specie di nemesi storica fa ritrovare spesso documenti, sempre di parte sabauda, che sconfessano la versione garibaldin-risorgimental-liberale. Si tratta, in questo caso, del diario del Governatore del porto di Genova, il quale, compiutasi l’operazione del “furto”, torna il giorno dopo in ufficio dove viene raggiunto dall’amministratore della Rubattino: Gian Battista Fauché, con una richiesta, che definire assurda è poco e che dà tutta la misura della pochezza degli ideali del Risorgimento e dei suoi “padri”.
Queste le annotazioni del Rey: “ All’indomani di buon’ora mi vedo capitare al Comando il signor Fauché, il quale, come Direttore dei vapori della Compagnia Rubattino, mi venne a porgere una ufficiale e formale denunzia e lamento per il trafugamento e furto dei due vapori occorso nella notte a insaputa di quell’Amministrazione. Non potei a meno di ridere in faccia a quello sfrontato chiacchierone, pregandolo a voler persuadersi che io non ero tanto gonzo da bere così grosso; che sapeva quanto ne poteva sapere lui di ciò che accadde e del come ciò accadde; che prendevo atto della sua querela per debito d’ufficio, ma che del resto sapevo perfettamente a cosa attenermi. Continuò questa commedia con grandi mie risate quello sfrontatissimo ciarlone, che poi se ne andò fieramente persuaso, credo, di non avermi burlato, mentre io rimasi persuaso che aveva intascate, come si diceva, 40.000 lire per preparare e lasciarsi rubare questi due vapori. Rimasi meravigliato di tanta sfacciataggine. Ci voleva un muso di bronzo ” (Fonte: Blog “Ottocento: La verità sui Mille. Garibaldi da Quarto a Marsala, condotto da Giorgio Enrico Cavallo”)
In merito al “furto”, oltre le lettere di scusa ai Direttori dei vapori e al re e sapendo che tutto era già stato programmato fin nei più piccoli dettagli, ecco Garibaldi quale “verità” lasciava alla storia: ” Bixio trattava con Fauché dell’amministrazione dei vapori Rubattino per poterci recare in Sicilia … Alcune difficoltà inevitabili, in tale genere di imprese, non mancarono di contrariarci. Giungere a bordo dei due vapori nel porto di Genova, ormeggiati sotto la darsena, impadronirsi degli equipaggi e costringerli ad ajutare i predoni. Accendere i fuochi, prendere il Lombardo a rimorchio del Piemonte, che si trovò pronto, mentre non lo era l’altro, e tutto ciò con uno splendido chiaro di luna, son tutti fatti più facili a descriversi che ad eseguire, e vi fà mestieri molto sangue freddo, capacità e fortuna ” (ibidem)
Altro che tigri di Mompracem!
Ecco. Su queste “verità” è nato, si è dipanato ed è arrivato fino ai nostri giorni il Risorgimento: l’epoca più decantata della storia.
Castrese Lucio Schiano