Alta Terra di Lavoro

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Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (VI)

Posted by on Feb 4, 2023

Gli intrighi, le menzogne ed il brigantaggio piemontese in Italia (VI)

CAPITOLO SESTO
Eliminare il Regno delle Due Sicilie

Frattanto il Conte Cavour non essendo riuscito ad otte­nere dal Congresso che una semplice espressione di senti­menti, e pel momento vedendo che non avrebbe avuto niente di più, la rivoluzione si mise con un nuovo ardore a cospirare e ad agitare l’Italia. Anche il Mazzinianismo s’agi­tava a Londra e Ginevra1. Tutte le sette, tutti i comitati si prepararono all’azione; gli affigliati Italiani s’armarono, i capi spiegarono il loro programma2: vedendo la febbrile agitazione che regnava presso certi adepti si sarebbe pensa­to che il mondo sarebbe andato in fiamme.

Soli i Governi parevano colti dall’inerzia, sia per impotenza o per acceca­mento, e si vedevano addensarsi l’uragano sul loro capo, e restavano come immobili sotto una magica assicurazione di pace! Nel medesimo tempo tutti i scribacchini ed i libellisti assoldati dal Piemonte cominciarono ad inondare l’Europa con una miriade di scritti spiranti veleno e fiele. Le tribune politiche, le cattedre delle Università si fecero eco dell’o­dio; e si videro generali d’armata, ministri di Stato, princi­pi del sangue a insultare vilmente l’Austria, il Papa, e gli altri sovrani della Penisola, per preparare l’opinione pub­blica alla guerra, all’invasione, a tutti gli odiosi attentati che macchinavano i cospiratori. E i giornali della setta magnificavano e propagavano le menzogne e gli oltraggi. E tutta questa falange di insultatori non rifletteva che diso­norava così le parole e le lettere e per molto tempo la civi­lizzazione d’Europa. La stampa rivoluzionaria di Francia, Piemonte, Belgio ed Inghilterra s’è fatta una certa riputa­zione in questo genere di combattimenti: qualche scrittore ha fatto in tal modo la sua fortuna: qualch’altro v’ha guada­gnata una decorazione: tutti però v’hanno perduta la loro dignità d’uomini, e il Governo sardo v’ha dispensato i suoi milioni, il suo onore, e le sue decorazioni dei Santi Maurizio e Lazzaro, con cui un uomo onesto in oggi non vorrà neppure allacciare le sue scarpe.

In questo mentre il Piemonte e i suoi amici cercarono con intrighi diplomatici e demagogici di far scoppiare una guerra contro l’Austria, coll’idea di farvi entrare la Francia. Ma Napoleone esitò e si disse che la rivoluzione gli faceva paura. Fu allora che Mazzini, Cavour e Garibaldi, questo triumvirato di perfidia, unito se non di sentimenti almeno di scopo, uguale per conseguenza nei medesimi mezzi, organizzarono o lasciarono organizzare gli attentati, quello in odio all’alleanza francese per creare l’unità italiana in mezzo al disordine, questo per affrettare la soluzione colla guerra sperando dominare e vincere il disordine. E siccome la guerra non scoppiò abbastanza presto pei voti dei faziosi, tre bombe fulminanti, sangui­nolento triumvirato d’assassini, la costrinsero a preparare i suoi ordigni di battaglia.

Vi ebbe in quell’epoca nel mondo rivoluzionario una specie di frenesia, di furore. Una immensa quantità d’in­giurie si scorgevano in ogni organo della setta contro gli abbominevoli, i tirannici Governi dell’Austria e dell’Italia. E questa raccolta di oltraggi e di stupidezze inondava l’Europa, e le masse stupide vi si innebriavano con piace­re. Alla prima vittoria la pazzia divenne generale: si pote­va credere che gli uomini avessero smarrita la ragione. I capi della rivoluzione italiana avranno provata un’immen­sa gioia nel vedere come si era esaltata e pervertita la pub­blica opinione: forse si saranno già creduti in Campidoglio. O Vittorio Emmanuele, tu forse salirai sul Campidoglio a furia di delitti e di tradimenti, ma ne discenderai anche per la Rupe Tarpea! Dio è giusto! La striscia di polvere, che i settarii tuoi associati nell’opera della distruzione italiana, hanno sparsa in tutti i regni, farà saltare il tuo trono, e tu abdicherai come tuo padre; e meno fortunato di re Carlo Alberto, non troverai forse una terra d’esiglio in Europa per finirvi quietamente i tuoi giorni: il fuoco che avrai lasciato imprudentemente accendere in Italia, incendierà allora tutte le nazioni.

E quando per la violenza o per l’astuzia la Sardegna si fu definitivamente ingrandita di quattro o cinque nuove provincie, l’odio della rivoluzione si portò con un furore inaudito contro Francesco II, contro un re di ventitré anni, il più virtuoso dei re di questo secolo. Ma bisognava al Piemonte, pei misteriosi disegni de’ suoi compiici, se non per l’unità italiana, il regno delle Due Sicilie: e come ad un segnale venuto da Genova, da Torino, o da Parigi forse, tutti gli organi della setta si scagliarono contro il Borbone di Napoli: giammai non s’era visto, eccettuato Luigi XVI e Carlo X, un re più odiosamente oltraggiato e più vilmente tradito. E ciò che v’è di vergognoso pei Governi che tolleravano tali ingiurie nella stampa dei loro Stati si è che questo re non era in guerra con alcun sovra­no d’Europa. Il Governo di Napoleone stesso pareva lo trattasse con un’amicizia particolare, e non ostante questo si leggevano ogni giorno nei giornali rivoluzionarii di Parigi le più odiose menzogne e gli insulti più grossolani. Il Siede, la Presse, il Journal des Débats, L’Opinion Natìonale, il Messager, L’Indépendance Belge, il Times ed il Morning-Post furono i più attivi ed i più infuriati nell’insultare; forse saranno stati anche i meglio ricompensati. E mentre che infami ministri e fiacchi generali, per non dire senza pudore, tradivano vilmente il loro re: mentre l’armata napoletana combatteva valorosamente pel suo re e per la sua patria, contro avventurieri sostenuti dal Piemonte, la setta continuava a scagliare oltraggi contro il glorioso re; e lo si oltraggiava ancora l’indomani della sua caduta! Forse che gli insultatori sanno rispettare l’infortunio?…

Ecco un piccolo saggio della miserabile stampa italia-nissima di quell’epoca. Non dimentichiamo però che biso­gnava fare l’Italia una ad ogni costo, e che le lire piemon­tesi e le ghinee inglesi hanno avuta una gran parte nella Questione Italiana (una lettera di Mazzini a sir John Adams di Glascow, ne fa fede). Non è dunque sorprendente che il Conte Cavour sia stato così ben servito da tutti i gazzettie­ri e libellisti rivoluzionarii d’Europa, vii razza di gente che porta ogni livrea e che serve tutte le bandiere. Qui non occorre spiegare perché il generale Lamoricière sia stato come gli altri calunniato e messo nel novero degli anate­matizzati: egli faceva troppo timore alla setta. E diffatti una vittoria di quell’illustre generale sarebbe bastata a sal­vare il Papa ed il re delle Due Sicilie, distruggendo così tutti i progetti della rivoluzione.

E quando nell’aprile del 1860 il generale Lamoricière accettava il comando delle truppe pontificie, un giornale di Torino, V Unione, apriva nel suo bureau una sottoscrizio­ne per innalzare un monumento d’infamia a questo generale. E vi furono dei miserabili che portarono le loro offerte patriottiche, esponendo così il loro nome al disprezzo del mondo. Il passaggio di Lamoricière nelle Marche e nell’Umbria avendo sparso un grande entusiasmo, il comitato rivoluzionario fece spargere a Pesaro uno scritto, di cui si da qui una esatta e fedele traduzione: “Avviso – II Signor Lamoricière viene a Pesaro, uomo senza carattere e spregevole s’unisce oggi alla setta clericale per sostenere il dispotismo ed opporsi allo sviluppo della civilizzazione.

Il suo primo ordine del giorno sembra scritto dal più abbietto dei frati francescani. Non c’è nessuna differenza fra lui ed il vile Bella3. La Francia e l’Europa l’hanno giu­dicato e condannato alla berlina nelle nostre provincie che per un poco di tempo ancora soffrono sotto gli artigli san­guinosi dei preti. Abitanti di Pesaro, quando Lamoricière arriverà nella nostra città, ritiriamoci nelle case, e mostria­mogli così il nostro disprezzo”. Questo proclama sarebbe stato bene nell’Ami du peuple del cittadino Marat; però Marat non era che una bestia selvaggia, aveva bisogno di sangue, ma almeno non parlava di civilizzazione.

L’Indépendance Belge che serve tre padroni in una volta, gli Orléans, Napoleone e la Rivoluzione italiana, s’era limitata a scrivere verso la fine del marzo del 1860: “Noi non crederemmo mai che il signor de Lamoricière voglia coronare il suo passato con una finale che oscurerebbe la più illustre carriera”. Ecco, mettere la propria spada al servizio del Papa è un disonore! Che cosa ne pensa l’ar­mata francese di Roma?…

Il Siede parlando al suo milione di lettori, in nome della gente onesta del suo paese gridava in quell’epoca: “Noi deploriamo che questo gran generale d’Africa si metta in oggi al servizio del più tristo fra i Governi: noi siamo stu­piti che un illustre generale possa diventare un soldato del Papa, un capo di bande rivoluzionarie… facendosi il ridi­colo del mondo intero… siamo afflitti di veder finire così una luminosa carriera…” Si può dare un orgoglio mag­giore in un giornale di mercanti da vino e di stracciai? Se almeno questi insulti avessero un poco di spirito, loro si potrebbero perdonare.

Il Morning Post che ora difende il bianco, ora il nero, secondo che John Bull ha bene o male digerito, che ora parla dell’impotenza della rabbia di Roma, come d’un felice presagio dì successo per l’indipendenza italiana, e che qual­che volta non trova “conveniente all’onore della Francia ed alla prudenza dell’Inghilterra, che Roma sia sprovvista di truppe straniere, e che il Papa sia abbandonato alla mercé A’un popolo sfrenato”: il Morning Post aveva i nervi irritati vedendo Lamoricière alla testa delle truppe ponti­fìcie, “Che i legittimisti emigrino a Roma è intelligibile, diceva; ma che il generale Lamoricière si faccia sponta­neamente il capo ed il difensore d’un sistema d’oscuranti­smo e di dispotismo tanto atroce come quello della corte di Roma, in verità è uno spettacolo che deve far ridere gli scettici, e penetrare gli uomini onesti di dolore”. Povero John Bull! Come è docile alla parola d’ordine!

Mentre la setta faceva insultare Lamoricière la cui spada gli cagionava evidentemente spavento, il re Francesco II, che ispirava pure timore ai settarii, vedeva il suo nome offeso dai più odiosi oltraggi. È un tiranno san­guinario, diceva uno. È il successore del re Bomba, diceva l’altro: e quest’espressione era una sanguinosa ingiuria nella bocca dei diffamatori rivoluzionarii. – II suo Governo è il terrorismo e la proscrizione, si scriveva alla Presse. – “II Governo del re di Napoli è odioso ai popoli”: è il signor Havin che s’esprimeva così nel Siede dell’I 1 aprile 1860. -“A cosa dunque pensa il giovane re di Napoli, diceva il Times del 3 gennaio dello stesso anno, governando il suo regno con tirannia e commettendo sopra i suoi sudditi ogni sorta di sevizie arbitraria? E non prevede egli che Napoli finirà per affrancarsi d’un regime che non può che essergli odioso? A meno che egli non cambi di politica, Napoli cambierà certo di dinastia”. Il 10 marzo seguente il Times preso da un accesso di febbre rivoluzionaria, forse soffocato dagli odori malsani del Tamigi, esclamava con delirio: “II rappresentante dell’Inghilterra a Napoli ha invano provato di calmare la ferocia del piccolo despota napoletano”. È dispiacente che il Times non sia vissuto in Francia al tempo di Marat; avrebbe potuto secondare util­mente quell’onorevole cittadino contro l’odiosa tirannia del feroce Luigi XVI.

“Se il re di Napoli assiste al Congresso delle potenze Europee, non potrà entrarvi che coi sentimenti che hanno i colpevoli allorché si presentano alla giustizia”; così parlava il Morning Post del 22 gennaio 1860. Ci sembra udire uno dei nostri stimabili membri della Convenzione d’altra volta, il beccaio Legendre, che diceva l’il dicembre 1792 qualche momento prima dell’arrivo di Luigi XVI alla bar­riera della Convenzione: è necessario che il silenzio delle tombe spaventi il colpevole: silenzio precursore del giudizio che fanno le nazioni ai re, aggiunse il presidente dell’Assemblea Vergniaud. Si vede che John Bull s’è ispirato per la circo­stanza nella prosa del Moniteur. Poi qualche giorno dopo, profetizzando una rivoluzione, o almeno un rovescio nel regno delle Due Sicilie, il Morning Post diceva: “Non vi sono che gli abitanti di Napoli che possano credere ad un dispotismo così crudele come quello del re di Napoli…” e più avanti dice: “Una fuga vergognosa lungi da’ suoi stati sarà la fine inevitabile di questo re, dopo che le sue truppe saranno state messe in fuga senza sparare un fucile’. Questo giornale merita veramente di diventare il Moniteur officiel d’una futura Convenzione mazziniana istituita per giudicare il dispotismo dei re in nome di qualche Repubblica democratica e sociale.

Il direttore della polizia a Napoli, signor Aiossa, aven­do pubblicato una circolare nel gennaio del 1860 per invitare gl’intendenti delle provincie a sorvegliare con zelo le mene dei rivoluzionarii, la Presse del 28 gennaio gridava che “lo stile del direttore è cinico, che la polizia di Napoli è inet­ta, cieca, violenta…”.

Il 3 aprile seguente comparve nel Siede un articolo inti­tolato: / Napoletani a Roma. Era il momento in cui si stava decidendo di mandare le truppe napoletane per aiutare il Papa a riconquistare le Romagne. La rivoluzione ebbe timore: il Siede scrisse furiosamente, e la rivolta di Palermo che non doveva scoppiare che il 6 aprile, fu pre­cipitata di due giorni per ordine espresso venuto da Parigi. Diamo qualche estratto di questo lungo articolo. -Primieramente il Siede piange sulle sorti dei popoli napo­letani, ch’egli ama teneramente, e che vorrebbe veder liberi. Poi dopo aver duramente trattato gli sbirri del re di Napoli, vale a dire l’armata reale, grida con un furore che ci sembre­rebbe comico, se non si fosse sparso il sangue di quei popoli: “I Napoletani a Roma? Ma che cosa ha a fare Napoli a Roma? Perbacco baciare la mula del Papa, e visi­tare San Pietro. Che significato può avere la sua presenza in questa città? Quale ne sarà lo scopo? Quale sarà il risul­tato di questa occupazione? Napoli vorrebbe riconquistare a mano armata quello che il Governo del Santo Padre ha perduto… vorrebbe far sventolare la bandiera del dispoti­smo, e stabilire un lutto al quale piglierebbero parte tutte le cattive passioni d’Europa. In Italia vi sarebbero due campi: il mezzogiorno e il nord: Napoli e gli Ultramontani: il Piemonte e la libertà!… Ma noi vogliamo credere che se 1 Inghilterra ha dimenticati gli impegni che ha assunti contro Napoli, la Francia si ricorderà, in presenza di quanto ora avviene nel regno delle Due Sicilie, del protocollo del Trattato di Parigi (1856) e cesserà di riguardare come finita *a sua missione in Italia, e non abbandonerà Roma per lasciarla agli sgherri del re di Napoli: essa occuperà abba­stanza il Governo di questo Principe perché abbia da attendere puramente i suoi interessi”.

E diffatti riuscirono ad occupare il re Francesco II in modo che non potè volare in soccorso del Santo Padre. Questo era quanto voleva il Siede: egli per riuscirvi ram­mentò all’Inghilterra ed alla Francia le promesse che ave­vano fatte.

“Ma vedete, continua il Siede, gli sbirri di Napoli e della Sicilia unirsi a quelli che impiegano i Cardinali, il detestabile Governo delle Marche e dell’Umbria unito al cattivo governo di Napoli, le due polizie (leggete le due armate) napoletane e romane facendo sforzi e rivaleggian­do per sorpassarsi. Quale spaventevole serie di nuove tor­ture non presenta una simile rivalità? L’immaginazione, il cuore, la ragione, retrocedono spaventate al cospetto d’una simile unione, e noi siamo in diritto di proclamarlo ad alta voce: la Francia non lo permetterà… Essa ha già trop­po permesso, non permetterà di più”. Il Siede faceva mostra senza dubbio d’ignorare che il Gabinetto delle Tuilleries stesso aveva proposto al Governo romano di far guardare Ancona e le Marche da un’armata napoletana. Il Piemonte vi consentiva di buon grado: questo è quello che risulta da un dispaccio del 26 marzo 1860 mandato dal signor Thouvenel al signor Barone Brénier a Napoli. Ma Francesco II ricusò; la sua giovane intelligenza aveva com­preso che non poteva in un sol tempo soccorrere il Papa utilmente, e difendere sé stesso contro la rivoluzione che lo minacciava ne’ suoi propri stati. Qui evidentemente v’è un mistero.

Il Siede forse rappresentava la commedia? O piuttosto 11 Piemonte? O forse il Gabinetto delle Tuilleries? Forse un poco tutti tre in una volta. Con questo si spiega ciò che altrimenti resterebbe inesplicabile. Però il Siede e i suoi complici ebbero realmente timore per un istante di Francesco II, e d’un’armata pontificia comandata da Lamoricière. Bisogna convenire che senza i tradimenti, senza le perfidie e gli intrighi rivoluzionarii, si sarebbero fatte delle annessioni piemontesi; ma non avrebbero nien­te fondato di stabile; il male aveva troppo profonde radici in Italia. Ritorniamo alle citazioni.

“Non bisogna illudersi: non è solamente il movimento italiano; il Piemonte ed il suo nuovo regno, noi stessi saremmo minacciati dai napoletani a Roma! Non c’è che da guardare ed ascoltare per convincersene”. Ma che! Il re di Napoli avrebbe forse l’idea di muovere guerra alla Francia? Ecco che il Siede torna ridicolo: ma qui diventa minaccioso. “Prima di avere nuovi conti a regolare con Napoli appianiamo gli antichi, ed il Governo delle Due Sicilie non si mostrerà così sollecito a passare la frontiera romana. Privo di questo alleato il Governo dei Cardinali finirà di cercare lo scompiglio d’Europa. Secondo noi il tempo della pazienza è finito. Bisogna parlar alto e forte, e schiacciare nel suo nascere questa coalizione che si vorreb­be formare per ricompensarci d’aver altra volta salvato il Papa ed il papato… La Francia, l’Inghilterra, l’Europa desiderano forse, prosegue il Siede raddoppiando di furo­re, questa battaglia del nord col mezzogiorno d’Italia, questo razzuffamento dei due principii? Vogliono essi che si sparga del sangue? Noi li invitiamo a riflettere seriamente”. Si è mai parlato in Francia con tanta sfrontatezza? Si è mai scagliata una più audace sfida ai sovrani? L’antico Marat domandava 70.000 teste d’aristocratici per salvare la Repubblica; ma i moderni Marat minacciano l’Europa di far versare torrenti di sangue se non li liberano dal Papa e dal re di Napoli. Sì, dite benissimo, l’Europa deve riflettere seriamente! Non c’è più d’uopo della diplomazia per vin re questi barbari; loro si vuoi dare una battaglia decisiva

Ancora una citazione e poi avremo finito di parlare di queste selvagge grida di rivolte e di guerre.

“Quattro anni or sono, la questione napoletana si riduceva a sapere se i Governi di Francia e d’Inghilterra non avrebbero con una qualche bomba obbligato il Governo di Napoli a dare una soddisfazione alla pubblica morale ed alle leggi più fondamentali dell’umanità. Le bombe sono rimaste negli arsenali… La Francia si guarderà bene prima di ripetere tanta generosità. Essa non ha colta l’oc­casione per ridurre all’impotenza un governo che non le ha mai mostrata che una cattiva volontà. Oggi questo governo aspira a rimpiazzarla in Roma ed a distruggere quanto essa ha fatto in Italia. Se ci avessero uditi, se aves­sero degnato di crederci, non sarebbe così. A quest’ora forse la Sicilia sarebbe libera. Che ci si creda almeno ora e non si lasci andare il male più oltre… Interessa alla Francia di impedire i risultati mostruosi dell’unione di Napoli con Roma”. L’indomani l’insurrezione di Palermo scoppiava: si era finalmente creduto al Siede.

Ecco un saggio dei brutali insulti che scagliava allora la stampa rivoluzionaria al re di Napoli ed al Governo ponti­ficio.

Noi siamo costretti a restringere il numero di queste odiose citazioni, perché in quel momento la sovversione delle idee era tale in Europa che non basterebbe a capirla un grosso volume. Abbandoniamo dunque il giornalismo co’ suoi furori e le sue passioni, e ritorniamo agli uomini di Stato, ai personaggi politici ed agli oltraggi che essi lanciavano, oltraggi che se sono più misurati nelle lor espressioni non meritano meno un biasimo severo. Il Barone Ricasoli scriveva da Firenze il 4 marzo il conte di Cavour: “L’Europa ha solennemente stigmatizzato il Governo delle due Sicilie, qualificandolo come il rifiuto di ogni civilizzazione”.

Lord Russel, un ministro di Stato della Regina d’Inghilterra, scriveva il 16 gennaio precedentemente al signore Elliot, suo rappresentante a Napoli, queste inqua­lificabili parole, che poi furono riprodotte da quasi tutta la stampa d’Europa: “È certo che le regole più fondamentali della giustizia e dell’onestà a Napoli non si osservano… Si potrà trovare in Europa un governo che possa esser messo al pari di quello delle Due Sicilie, se non è il tirannico ed intollerabile Governo romano?…” Spetta veramente ad un ministro di Stato inglese di parlare di cattivo Governo, ed il dare consigli d’onestà e di giustizia al re delle Due Sicilie?

La storia dell’Irlanda, delle Indie e delle Isole Ionie è dunque così pura di sangue e d’iniquità da permettere al Governo inglese di scagliare insulti contro sovrani che non hanno altro delitto che quello di voler sostenere la propria corona ed i proprii popoli contro le insurrezioni e le rivolte dei faziosi? Ma che cosa fece l’Inghilterra, cinque anni or sono quando scoppiò nelle Indie quella formidabile rivolu­zione? Che fece! Distrusse senza pietà i rivoltosi col ferro e col fuoco. Epperò la rivolta degli infelici popoli indiani era ben altrimenti giusta e legittima, dell’unificazione insensata d Italia in vantaggio del Piemonte. Da due secoli che cosa ha fatto l’Inghilterra in Irlanda? V’ha distrutto senza posa il Cattolicismo. Che cosa è il suo protettorato sulle Isole Ionie, se non un’odiosa servitù imposta a popoli che non fanno che domandare la loro libertà? Questi è quello stesso ministro e poco fa ha detto in pieno parlamento che “l’Italia non sarà mai tranquilla finché il vessillo francese proteggerà a Roma il nido dei ladri e dei briganti”.

Allorquando in seguito del congresso di Parigi scoppiò in Europa una esplosione d’odii anti-cattolici lord Palmerston preferendo il governo di Mazzini a Roma nel 1848, al Governo di Pio IX, dichiarava dall’alto della tri­buna inglese: “La città Santa da parecchi anni non ha mai avuto un Governo migliore di quello che ebbe durante l’assenza momentanea del Papa4“.

La storia non dimenticherà certo queste parole, e la poste­rità si unirà alla generazione contemporanea per detestarle. Questi rimproveri sono giusti giacché in ogni circostanza, se si ricorda, è lord Palmerston e la sua funesta influenza, il suo cattivo genio, la sua politica odiosa e detestabile, che la Santa Sede ha sempre in lui incontrato. Prima del 1848, come pure all’epoca del Congresso di Parigi, prima e dopo la guerra d’Italia, sempre e dappertutto lord Palmerston ha persegui­ta e calunniata la Santa Sede. La missione diplomatica data a lord Minto, prima della catastrofe del 1848, questa passeg­giata incendiaria d’un plenipotenziario semi-ufficiale, come dice il signor Conte di Montalembert, basterebbe da sé sola a giu­stificare tutti i rimproveri. Il Conte Cavour medesimo non è mai stato più appassionatamente ingiusto contro il governo I pontificio.

Il Marchese Pepoli ha osato scrivere nel suo Memorandum del 3 ottobre 1859: “Noi non sappiamo se \{ |!.: sia un paese in Europa che in proporzione conti un nume;. 1 ro così grande di condannati alla morte, alla galera, all’è-: silio come le Romagne”. Qui si esita a qualificare tali ? parole.

E per conchiudere in fine quest’odiosa nomenclatura d’ingiurie scagliate contro i sovrani d’Italia da tutti gli organi rivoluzionarii, faremo qualche citazione più recen­te dei discorsi tenuti nel Senato francese. “In Sicilia e Napoli, diceva il signor Pietri nella tribuna del Senato il 28 febbraio 1861, il Governo reale si è veramente suicida­to, e gli attacchi di Garibaldi erano quasi superflui in vista delle misure crudelmente stupide prese dalla polizia e dal governo agonizzante”. Come questo linguaggio sta bene nella bocca d’un senatore! Forse il signor Pietri ignorava che v’era allora a Napoli un certo Don Liborio, il quale dava a tradimento il suo re e la sua patria a Garibaldi? Ignora forse ancora che la flotta inglese ha favorito lo sbarco di questo filibustiere a Marsala, e che la maggior parte dei generali napoletani gli hanno lasciato riportare delle facili vittorie? Ci pare che sarebbe stato molto più giusto dire che il Governo di Francesco II è stato schiac­ciato dalle società segrete per l’inazione di alcuni e pel tradimento degli altri.

Ma ecco che il Senato imperiale ha calcolato d’illustrar­si nella storia, ascoltando per quattro ore consecutive, e quasi senza protesta, le più rozze ingiurie, dette in più rozzo linguaggio, contro il Papa ed i Borboni, contro que­st’augusta famiglia che ha dato al mondo tanto splendore da render pallide perfino le glorie di Napoleone I. Era il primo marzo e l’oratore un Bonaparte. S. A. I. il Principe Rosso, dopo aver raccolto ogni sorta d’ingiurie per gettar­le sul volto d’un vecchio senza difesa, dopo aver detto che il Governo del Santo Padre aveva irritate le popolazioni, che la situazione degli Stati del Papa era infelice e deplorabi­le, in seguito della sua ostinazione, del suo acciecamento e del suo accanimento, e che il poter temporale è oramai una macchia d’inchiostro sulla carta d’Italia; S. A. I. si è divertito ad inveire con ogni sorta d’ingiurie contro il Governo esecrabile e vergognoso dei Borboni nelle Due Sicilie. Egli ci parla dietro i dispacci ufficiali del Barone Brénier, delle inesplicabili proscrizioni fatte in nome del re dal direttore di polizia, delle deplorabili conseguenze d’un sistema che produce periodicamente delle agitazioni; egli osa anche dirci col mini­stro delle Tuilleries a Napoli, che non sono passioni politiche o suggestioni straniere che possano trattenere i germi permanenti del malcontento, ma che mali reali e danni innegabili sono le cagioni delle rivolte, e giustificano la rivoluzione a Napoli, come i tentativi d’unità italiana fatti dal Piemonte. Giacché, aggiunge S. A. I. dietro una lettera del signor Boulard vice-console di Francia a Messina “non si può fare un cari­co a quelle disgraziate popolazioni delle loro aspirazioni verso un ordine di cose più sopportabile che il giogo intol­lerabile e degradante che si fa pesare sovra di esse”. E come se S. A.I. avesse temuto che si potesse accusare il Piemonte d’esser l’agente provocatore delle rivolte, egli si da pre­mura d’invocare la testimonianza ufficiale del signor Barone Brénier che diceva in un dispaccio del 14 aprile 1860: “Si deve attribuire più alle provocazioni cagionate dalle misure di repressione brutale, di cui la polizia è col­pevole, al sistema arbitrario che prevale in tutte le cose, che alle suggestioni venute da Torino, l’attuale movimen­to della Sicilia.” Bisogna essere corazzati come le nuove fregate per osare di dire in Senato simili cose. Ma la lette­ra mazziniana del 1857 era dunque sconosciuta a Parigi? E non conoscevano la Società nazionale italiana, né don Liborio?… Che che ne sia, si vede che il Barone Brénier e S. A. I. avevano letti i racconti scritti da Sir Gladstone a lord Aberdeen; questo fa onore alla loro memoria se non alla loro imparzialità. Un poco più lungi l’oratore impe­riale grida con collera: “Non vi sono né infamie, né sper­giuri di cui il Governo Borbonico di Napoli non si sia reso colpevole in faccia a’ suoi popoli… Questo cattivo Governo era talmente avvezzo ad abusare dello spergiuro che i popoli l’hanno rifiutato con orrore, non potendo più a lungo sopportare tanta infamia di regime”. Noi rifuggia­mo dal proseguire più oltre a ripetere simili infamie, ed abbiamo rossore per la nostra patria che si siano potute ascoltare in Senato senza che pur una voce si alzasse a protestare: almeno l’onore sarebbe così stato salvo. Non si insultarono mai similmente i morti, gli esuli, i vinti ed i re onesti e virtuosi.

Ecco intanto che S. A. I., non sappiamo poi per quale scopo, riunisce le calunnie per gettarle contro una regina, una donna, una morta!!! “La vostra casa di Napoli, dice l’oratore coll’orgogliosa tracotanza d’un nipote del procu­ratore arricchito, conta la regina Carolina, la figlia di Maria Teresa: non vi sono errori che non abbia commessi: essa si è ingolfata nel sangue, e voi l’avete veduta l’amica di lady Hamilton, la padrona di Nelson, di Nelson che fu il carnefice dei Napoletani. Quale fu il ministro di questa regina? Con qual mano sparse tanto sangue? Colla mano del Cardinal Ruffo, che ha coperto il paese di patiboli, e riempite le prigioni di esigliati. È la Regina Carolina che cambiava stanza da letto per avere le finestre che guardas­sero sulla piazza, e che diceva: da questa parte vedrò meglio ad impiccare”.

S. A. I. che è così bravo per oltraggiare una donna, l’ava d’un piccolo sovrano iniquamente detronizzato dal Piemonte, oserà parlare così allorché si presenterà l’occa­sione della troppo famosa Elisabetta regina d’In­ghilterra?… Oserà parlare così di Filippo davanti ad un Orleans? Questo è quanto abbiamo il coraggio di rispon­dere a parole tanto odiose: è anche troppo d’aver così lor­data la nostra penna. Però una cosa ci stupisce, cioè che il Senato non abbia protestato contro tali oltraggi, e che li abbia ascoltati con una pazienza che, diciamolo ad alta voce, non è né della sua dignità né delle sue convenienze; almeno questa è l’opinione di tutta l’Europa onesta. Si può ben essere obbligato pel dovere religioso di obbedire ai Governi costituiti, anche ai peggiori, ma non si è mai obbligati di servire i poteri insultatori.

Terminiamo qui questa nomenclatura d’insulti scagliati ai due più onesti sovrani d’Europa; basta per far apprezzare il carattere odioso della rivoluzione italiana, come pure i principali personaggi dai quali viene personificata. Quanto agli insultatori, essi hanno compita una ben brutta missione, che può ben essere stata vantaggiosa per qualcheduno di loro, ma che non sarà mai stimabile presso alcuna nazione. Insultare dei vecchi, delle donne, dei deboli porta vergogna in tutte le lingue della terra. Abbiamo mostrata la mostruo­sa alleanza dei rivoluzionari d’ogni colore e d’ogni partito per attaccare e calunniare Pio IX, questo canchero che divora il cuore d’Italia, e Francesco II, questo re di briganti: noi ripren­deremo ora il seguito del nostro discorso: ci siamo fermati alla commedia, o meglio alla cospirazione degli insulti.

In fine questa ignobile commedia d’ingiurie sembrò ter­minare coll’ultimo tradimento di Gaeta. Ma qui comincia un’altra commedia; commedia non meno odiosa del silenzio e dell’inganno. Bisognava far credere all’Europa intiera che l’Italia meridionale era tranquillizzata, per rendere più faci­le il riconoscimento del Regno d’Italia. Era un giuoco molto abile da lasciar credere alle ingenue Potenze del Nord. Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventati i tiranni; ed oltraggiarono, colle loro stu­pide menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indi­pendenza, come avevano oltraggiati principi, re ed anche regine colle loro rozze ed odiose calunnie. Inventarono la felicità d’un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventata la sua servitù al tempo de’ suoi legit­timi sovrani. Vedremo ora ove sono i veri oppressori dell’Italia, ed ove sono le vere vittime ed i veri briganti. I fatti che noi citeremo sono autentici; noi non abbiamo avuto che da scegliere fra i più orribili ed i più odiosi. Ecco le pro­messe e le accuse piemontesi che noi esamineremo, e met­teremo a parallelo dei fatti nel seguito di questo scritto.

1. Il Conte Cavour allorché volle unire i cattolici ed il cle-ricato in favore dell’unità italiana aveva detto sotto la forma bugiarda d’un assioma che la Chiesa sarebbe stata libera nello stato libero; ed i settarii, confermando le parole del loro mae­stro, avevano aggiunto che la religione sarebbe più fiorente allorché il Papa fosse stato sbarazzato dal suo poter tempo­rale. Noi vedremo come la Chiesa è libera, non solamente nell’Italia conquistata e annessa, ma nel Piemonte, e come si sia resa fiorente la religione in tutta la penisola sottomessa al 1^ giogo del re di Sardegna.

2.   I partigiani dell’unità italiana avevano pubblicamen­te accusati tutti i Governi d’Italia d’essere Governi detesta­bili, odiosi ai popoli, deplorabili nella loro amministrazio­ne, contrarii alla civilizzazione ed al progresso dei lumi. Bisognava, dicevano essi, liberare gli Italiani dalla loro pretesa schiavitù, cercare i mezzi di calmare gli odii e le discordie, e lavorare seriamente alla felicità ed alla prosperità di questi popoli. Noi mostreremo il Piemonte che  “libera, civilizza e pacifica l’Italia, colle imposte, le carcera­zioni, gli esilii, gli incendii, le fucilazioni e la miseria, e che rende il suo giogo mille volte più brutale e più odioso di quello dei Maomettani e dei barbari.

3.  Il Piemonte si pretendeva chiamato col voto dei popoli italiani e coll’opinione pubblica in Europa a liberare l’Italia da’ suoi tiranni. Si è già detto come l’opinione pubblica sia stata ingannata dal giornalismo della Setta; vedremo ben tosto come s’è manifestato il voto dei popoli italiani in favore del Governo piemontese, come si mani­ festa ancora ogni giorno colle rivolte, e come si manifeste­
rebbe dal nord al mezzogiorno se non vi fosse il timore dei pugnali, e la pressione delle leggi sarde. Infine noi parleremo del riconoscimento del nuovo Regno d’Italia; un grande scandalo dopo una ributtante iniquità! Mostre remo, per dire chiaramente il nostro pensiero, i difensori della legge, del diritto e della giustizia, che tendono la mano all’iniquità stessa sanzionandola col disprezzo d’o­gni diritto, d’ogni giustizia, d’ogni legge; faremo vedere i re che danno l’abbraccio di pace e di fratellanza alla rivo­luzione, a quella rivoluzione che fa insorgere i popoli ed assassina i re, a quella che essi trattavano, non è molto, colle più dure parole, e che hanno pubblicamente coperta dei loro anatemi e del loro disprezzo.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/borbone/brigantaggio_piemontese.html#sesto

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