Il brigantaggio postunitario
La reinterpretazione del brigantaggio postunitario come rivolta legittima, nonché l’eccessiva repressione messa in atto dallo Stato unitario. Il brigantaggio viene rivalutato da parte di un filone revisionista come un movimento di resistenza,[27] alcuni ritengono persino in analogia a quello che avrebbe coinvolto, in seguito, i partigiani italiani contro le truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale.[28] Il deputato Giuseppe Ferrari, durante un dibattito parlamentare, disse:
« I reazionarii delle due Sicilie si battono sotto un vessillo Nazionale, voi potete chiamarli Briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul Trono di Napoli, ed ogni qual volta la Dinastia legittima è stata colla violenza cacciata, il Napoletano ha dato tanti briganti, da stancare l’usurpatore e farlo convincere che, nel Regno delle Due Sicilie, l’unico Sovrano che possa governare, dev’essere della Dinastia BORBONICA, perché in questa Famiglia Reale soltanto si ha fede, e non in altri. Dicano quel che vogliano i nemici dei Borboni, ma la mia convinzione è questa, ed è basata sull’esperienza del passato e sui fatti che attualmente si compiono. » |
(Giuseppe Ferrari[218]) |
La repressione del brigantaggio, ottenuta con successo (e con molta difficoltà) in circa dieci anni dal governo unitario, viene aspramente criticata dai revisionisti a causa della violenza con cui il Regio Esercito italiano(soprattutto dopo la promulgazione della legge Pica, dal cognome del deputato meridionale che la propose e che rimase in vigore dall’agosto 1863 al 31 dicembre 1865). I revisionisti come Angelo del Boca, andando oltre il testo della legge Pica, che definiva il reato di brigantaggio e poneva gli arrestati per questo reato sotto il giudizio dei tribunali militari[219] sospendendo le garanzie dello statuto albertino, affermano che questa legge applicasse sommarie condanne a morte senza processo o con sbrigative sentenze emesse sul campo dai tribunali militari,[220] il più delle volte giustiziando anche coloro che venivano solamente sospettati di connivenze o adesioni alle bande brigantesche[221]. Secondo S. Lupo, questa legge era illiberale e modellata sulla tradizione borbonica, tuttavia ebbe l’effetto di bloccare le fucilazioni sommarie dei briganti, catturati armi alla mano, ordinate senza processo dai comandanti militari, finendo per essere “uno strumento «straordinario» per garantire un exit legale da uno stato di guerra in cui non era garantito alcun principio di legalità[222]. La necessità di far cessare il sistema delle fucilazioni sommarie senza processo e la necessità di spostare la “cognizione dei reati di brigantaggio … ad una giurisdizione che non sia quella dei tribunali ordinari” ma tribunali in cui l’azione penale abbia la sua efficacia “dal rapido succedere del castigo al delitto” venne delineata nella relazione della commissione Massari nel marzo 1863[223].
La violenza degli scontri è testimoniata dal numero di briganti uccisi, secondo Iaquinta furono non meno di 14.000 i briganti o presunti tali fucilati, uccisi in combattimento o arrestati nel periodo di applicazione della legge[224]. Cifra sulla quale tuttavia gli storici non concordano, fornendo sia cifre in difetto che in eccesso.
Molti briganti furono uccisi dal 1864 al 1867, anche dalle forze armate pontificie nel sud del Lazio, dove i briganti ex borbonici sconfinavano, sempre più pressati dal Regio Esercito Italiano e dalla Guardia nazionale italiana, milizia meridionale antibriganti.
Nella lotta alle bande di briganti ex borbonici, che sconfinavano nel Lazio per le loro razzie, lo Stato della Chiesa impiegava anche uno speciale corpo, detto “Squadriglieri”, la lotta fu dura e anche le perdite tra le forze pontificie non furono poche, ma il brigantaggio di origine ex borbonica fu eliminato. [225]