Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Il Gran Cortese (e il grandissimo don Ferdinando)

Posted by on Apr 9, 2023

Il Gran Cortese (e il grandissimo don Ferdinando)

Nel mio precedente articolo su Giulio Cesare Cortese, elencandone gli scritti, ho omesso quello che, molto probabilmente, è il suo indiscusso capolavoro: La tiorba a taccone,[1] una raccolta di sonetti in Napoletano il cui autore, ufficialmente, sarebbe un tal Felippo Sgruttendio de Scafato che, secondo quelli che sono convinti della sua effettiva paternità, non è altro che lo pseudonimo anagrammatico di Don Giuseppe Storace D’Afflitto, un uomo di lettere pressoché sconosciuto. Tanti altri studiosi, invece, e sono i più, affermano con certezza che dietro quel nome si celi lo stesso Giulio Cesare Cortese.

Tra i sostenitori che il canzoniere non fosse lavoro di quest’ultimo, spicca il “tuttologo” culturale Benedetto Croce che, accettando acriticamente la tesi di Vittorio Imbriani,[2] asserisce che La tiorba a taccone sia opera di questo Filippo Sgruttendio e non un lavoro anonimo del Cortese come, invece, appassionatamente sostiene Ferdinando Russo nel suo poderoso ed autorevole saggio che pubblicò a Roma nel 1913: Il Gran Cortese, note critiche sulla poesia napoletana del ‘600. [3]

Il Russo afferma che il suo “amico” Croce, troppo ossequiante al giudizio di Vittorio Imbriani che esalta Giovan Battista Basile come prodigio della Letteratura napoletana a discapito di Giulio Cesare Cortese, potrebbe essere creduto sulla parola solo da coloro che non hanno familiarità con il vernacolo napoletano – quello autentico – ma chi lo conosce veramente non potrà mai seguire ciò che afferma don Benedetto e contesterà sempre i giudizi estetici suoi e dell’Imbriani, perché la storia del dialetto napoletano non può avereper base i giudizi di chi non ne ha conoscenza, ad onta dei suoi meriti letterari, filologici e scientifici. E Benedetto Croce, di nascita, non era napoletano.

A dispetto del “Verbo”, come ironicamente definisce il filosofo liberale che non ci si raccapezza e trova difficoltà insormontabili nell’appurare la somiglianza tra la poesia del Cortese e quella di Sgruttendio, Ferdinando Russo dimostra tale affinità confrontando la natura del verso, il movimento della strofa, la similarità delle immagini, l’arguzia e l’amarezza che paiono scaturire da una sola fonte, dalla stessa mano. Per cui, pur se pubblicato postumo, a ventidue anni dalla sua morte (1646) non significa che il lavoro non sia del Cortese. D’altronde, Benedetto Croce, benché “mostro sacro” della cultura nazionale, non era affatto immune dal prendere abbagli, così come, ad esempio, quando erroneamente sentenziò che in un personaggio de La montagna incantata, di Thomas Mann, si adombrasse la figura del napoletano Luigi Settembrini sol perché lo scrittore tedesco gli aveva dato quello stesso nome.

Uno dei motivi, forse quello principale, che spinse Ferdinando Russo a scrivere Il Gran Cortese è, quindi, sicuramente dovuto alla sua perenne contrapposizione ideologica e culturale a Benedetto Croce che, come tutti sanno, ha avuto la pretesa (purtroppo, da ogni parte, abulicamente accettata) di condizionare tutta la cultura del Novecento).

La tiorba a taccone è un canzoniere diviso in dieci parti chiamate “corde”, in cui si mescolano “beffa” e “cultura”. I numerosi sonetti che vi sono raccolti, infatti, con il loro motteggio verace, fulmineo, estemporaneo ed irrompente vogliono contrapporsi al petrarchismo, alla poesia aulica e, allo stesso tempo, rivalutano la poesia dialettale napoletana. Diversi sono i temi disseminati nei versi : dalla “bellezzetudene” della donna amata, al dialogo con gli accademici, alla musica, al ballo popolare e alla vita nei quartieri di Napoli dove incontriamo la bella “tricchetraccara”, cioè quella che faceva “tricchitracche[4], la “tripparola” che vendeva trippa”, la “tavernara” e perfino la “jetta-cantare” (cioè colei che va a svuotare in strada il vaso da notte); non manca, poi, la donna dagli occhi cisposi (uocchie scazziate), quella con i dentoni (zannuta), la vavosa come un’anguilla, la balbuziente, la gobba, la guercia e così via…

Ma perché questa dissacrante ironia, mascherata da amore, che ha un tono di sì profondo livore? Perché, attraverso la caricatura della sua sventurata passione, Giulio Cesare Cortese vuol colpire con rabbiosa satira, come fossero sciabolate, le dame fiorentine che lo avevano respinto: più che dame, però, in questo caso “vajasse” nel senso moderno del termine, beffate con insuperabile senso di comicità.

Filo conduttore del canzoniere è l’amore, l’amore in generale, anche se prevale quello per una immaginaria Cecca i cui i pregi sono ironicamente decantati con espressioni molto “colorite”, grottesche, a volte pure troppo scurrili:

Cecca se chiamma la Segnora mia,

la faccia ha tonna comme a no pallone,

ha lo colore iusto de premmone

stato no mese e cchiù a la vocciaria.[5]

Ma non basta, ella ha pure:

no pede chiatto dinto a lo scarpone

che cammenanno piglia meza via.[6]

E come un bel dipinto è maggiormente valorizzato da una degna cornice, così la metrica di tutta l’opera è rigorosamente rispettata e i versi, non perdendo mai la loro stupenda musicalità, si sciolgono nella maniera più naturale, come se scivolassero sul velluto. Il linguaggio è leggero ed estemporaneo e lascia trasparire cultura senza trasmetterne il peso, anzi concedendo spesso al lettore il sollievo della risata. E, parafrasando le stesse sensazioni che il poeta prova pensando alla sua Cecca, scorrendo questi versi…

 …st’arma[7] squaquara[8] e squaquiglia[9]

E comme a sivo[10] de cannela squaglia;

E faccio vampa comme fa la paglia,

O comm’a porva,[11] quanno fuoco piglia.

Con le sue descrizioni di un gustosissimo sapore canzonatorio, il Cortese ci ha tramandato il vero linguaggio parlato napoletano del ‘600 elevandolo fino all’arte, oltre che dare un nome illustre e fama imperitura al sorgere della poesia dialettale. Egli era poeta di razza, ingegno innovatore robustissimo ed originale, verseggiatore spontaneo e suggestivo, un artista dalle ricche e molteplici sonanti corde che brillava di luce propria. Un giudizio che acquista ancor più valore proprio perché espresso da un altro grandissimo poeta partenopeo, sublime autore di tanti eccelsi poemetti e composizioni varie non sono dialettali: Ferdinando Russo, il più grande in assoluto, non a caso riconosciuto cantore immortale dell’anima napoletana.

La scuola, purtroppo, anziché farle conoscere e trasmetterle, ignora quasi del tutto queste composizioni, vere e proprie perle d’arte. In nessuna antologia, in nessuna Storia della Letteratura, questi sonetti vengono riportati, così come il suo autore del quale, solo in qualche testo, si trova a volte un miserrimo accenno lungo si e no mezzo rigo. In quegli stessi testi che elencano illustri sconosciuti come Lodovico Adimari, Francesco Bracciolini, Gabriello Chiabrera, di Giulio Cesare Cortese non c’è traccia, nemmeno l’ombra.  Ci mettono davanti Pietro Bembo, Gaspare Stampa, la novella di Agnolo Firenzuola, di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, di Matteo Bandello, Giambattista Giraldi Cinzio, Teofilo Folengo, Bernardo Dovizi, ecc. ma si limitano gli spazi per un Giambattista Marino, un Gianbattista Basile e si ignora un colosso come Giulio Cesare Cortese…

E questa “censura” culturale non si ferma certo qua: quando, per esempio, si parla di Futurismo, docenti ed alunni si soffermano solo su Filippo Tommaso Marinetti e tralasciano puntualmente (ma forse sarebbe più corretto dire ignorano, perché non ne hanno mai sentito parlare) il napoletano più rappresentativo di quel movimento letterario, Francesco Cangiullo.

E così, come tristemente Cristo si fermò a Eboli, altrettanto amaramente, anche la letteratura italiana non scende oltre l’Alto Lazio…

Erminio de Biase

BIBLIOGRAFIA:

Libero Bovio – I miei Napoletani – Napoli 1935

Aniello Costagliola – Napoli che se ne va – Napoli 1918

Carlo Nazzaro – Poesie di Ferdinando Russo – Napoli 1928

Ferdinando Russo – Il gran Cortese – Napoli 1913


[1] La tiorba è un antico strumento musicale, affine al calascione, di cui il taccone è il plettro. Essa presentava una doppia serie di corde poste al di sopra, e al di fuori, del manico e collegate a un prolungamento dello stesso.

[2] Giornalista e massone, nipote di Alessandro Poerio, allievo di Francesco de Sanctis, è famoso per il suo studio su Giovan Battista Basile che segna la riscoperta di questo artista prima d’allora poco considerato. Nel 1877 partecipò al concorso per la cattedra di letteratura italiana dell’Università di Napoli, ma venne respinto, a quanto pare, per maneggi di Giosuè Carducci. La Cattedra gli venne “restituita” poco prima della sua morte.

[3] Io ignoravo del tutto questa diatriba letteraria di cui venni a sapere dal dottor Salvatore Maffei che, letto il mio precedente articolo, mi spronò ad approfondire la questione. Come pure, fino a pochi mesi fa, di Giulio Cesare Cortese conoscevo appena il nome e devo al contagioso fervore di Davide Brandi la scoperta di questo gigante del Barocco napoletano.

[4] È il più noto dei petardi napoletani che si sparano a Capodanno che, ad una successione (girate) di scoppiettii soffocati, fa seguire un gran botto finale. Quante più “girate” si contano e quanto più potente è lo scoppio terminale, tanto più “quotato” è il tracco.

[5] Si chiama Cecca la mia Donna / ha la faccia tonda come un pallone / ha lo stesso, identico colorito del polmone / rimasto un mese e più in macelleria.

[6] Un piede talmente enorme nelle ciabatte /che, quando cammina, occupa mezza carreggiata

[7] Quest’anima

[8] Il verso delle quaglie

[9] Liquefarsi

[10] Sebo

[11] Polvere (da sparo)

Erminio De Biase

Tomba di Ferdinando Russo

3 Comments

  1. Un Napolitano non potrà mai accettare di vedere la letteratura napoletana al fianco di quella piemontese lombarda o veneta.vuoi tu a continuare a fare il talebano fai pure ma noi Napolitani stiamo combattendo anche questa battaglia quella culturale che è la più difficile ma che stiamo vincendo.

  2. Spiacente, di contraddirti, caro “Talebano”, ma non è una questione borbonica o antigiacobina: per “dialetto” (che, peraltro, non è né un termine offensivo, né riduttivo) s’intende un idioma parlato in un limitato ambito geografico; ambito che finisce laddove ne comincia un altro ed esprime la sua peculiarità espressiva. Tutte queste differenti aree, per capirsi fra di loro, hanno bisogno di una lingua comune, comprensibile a tutti e altrettanto parlabile da tutti gli abitanti di una nazione.
    Nel nostro caso, è l’Italiano e, purtroppo per te, è arrivato prima Dante Alighieri. Questo l’avevano capito anche nel Regno di Napoli prima e in quello delle Due Sicilie, dopo dove, infatti, si legiferava, si codificava e si pubblicavano libri e giornali in Italiano. Cosa che non accadeva in Piemonte “l’unico, vero Stato italiano” (sic!), così come si legge nei libri di scuola. là, infatti, si parlava e si scriveva in francese…

  3. caro erminio come al solito ci hai regalato una perla e ti ringrazio ma purtroppo non posso non notare che continui ad usare il termine “dialetto” che non appartiene al napoletano che è una lingua e null’altro. il concetto di dialetto appartiene all’impostazione proprio crociana e neoegheliana che tanto ha influenzato la scuola e l’insegnamento napoletano assoldato alla causa antinapoletana.Le poesie dialettali di stampo carducciano nulla hanno a che fare con la cultura e l’arte napoletana che si avvale di un idioma, il napoletano, che è unica e inimitabile nel mondo

    claudio saltarelli

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.