Alta Terra di Lavoro

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ITALIANI, UN POPOLO ANCORA DA FARE

Posted by on Ott 28, 2016

ITALIANI, UN POPOLO ANCORA DA FARE

Nel 1861 nessuno degli attuali settantenni o ottantenni era nato. Non erano nati nemmeno i nostri genitori e i nostri nonni; ma i nostri bisnonni, sì, c’erano. Il fatto, però, che loro ci fossero non deve portarci ad invidiarli ma piuttosto a compatirli perché, almeno per quelli che considerarono gli avvenimenti in un certo modo, la maggior parte di loro aveva avuto la sventura di venire al mondo nel più brutto momento sia della propria vita che di quella della propria patria, destinata a scomparire in un immenso buco nero con tutta la sua cultura, con tutte le sue peculiarità, con la sua identità.

Di lì a poco, infatti, quei nostri avi sarebbero diventati stranieri nella propria patria e costretti o ad accettare nuove condizioni di vita o ad abbandonare il suolo natìo. Questo perché persone estranee, che con essi non avevano alcunché in comune se non una mera societas loci, avevano deciso che i cittadini dei sette Stati che componevano la penisola italica, che nonostante le reciproche diversità sentivano intimamente di appartenere ad una terra comune, ma che proprio in virtù di una sana competizione tra tante diversità avevano arricchito la penisola, dovessero diventare un solo popolo, con una sola cultura uguale per tutti e con una storia che, annullando il passato delle varie realtà, avesse inizio nel momento stabilito da chi si era arrogato il diritto di decidere per tutti, lo volessero oppure no.

Non è richiesto alcuno sforzo di immaginazione per ravvisare in questa decisione unilaterale un atto di violenza pura. Ammettendo, infatti, per assurdo che le premesse dell’ unificazione e dell’ omologazione avessero come fine quello di dare al nuovo popolo condizioni di benessere e di pace, si potrebbe anche chiudere un occhio sul fatto di non aver chiesto il parere degli interessati. Ma sappiamo bene che la ragione che motivò una proditoria invasione camuffata da intervento umanitario, fu l’urgente bisogno di contanti necessari per far quadrare i conti di uno Stato sull’orlo del fallimento. Pertanto non si può che convenire sul fatto che la decisione dell’unificazione forzata, lontana dall’essere un nobile intervento umanitario, sia stata nient’altro che un sopruso ed un vero atto di violenza. E violenza fu sotto ogni aspetto:culturale, morale, civile, religioso, individuale e collettivo. Così, quando al completamento del mosaico mancavano ancora alcune “tessere”, gli ideologi dell’unificazione, temendo che la parte che erano riusciti con l’inganno a mettere insieme fino a quel momento si sgretolasse vanificando così i loro sforzi e facendo saltare i loro disegni, annunciarono agli “amici” e al mondo che l’unificazione era un fatto compiuto e che quel coacervo di stati e staterelli ,alla data da loro stabilita, cioè il 17 marzo 1861, era diventato finalmente una sola nazione.

La fretta, si sa, è sempre una cattiva consigliera, per cui, immaginando che la creazione di una nazione possa paragonarsi alla preparazione di una torta, dobbiamo convenire che la realizzazione della “torta Italia” avrebbe richiesto le stesse cure di una torta vera per riuscire bene:accorto dosaggio degli ingredienti, giusta lievitazione, giusta temperatura, ecc. Invece la fretta indusse a non adottare alcuna attenzione … e la torta “non riuscì bene”. Alcune parti risultarono non ben lievitate, altre poco o molto cotte, ottenendo, alla fine, un dolce impresentabile. In questo caso la logica e la correttezza avrebbero dovuto consigliare che un prodotto così mal riuscito non potesse mai essere immesso sul mercato e spacciato per “alta pasticceria”. Invece avvenne proprio così.

Ora, se il meccanico assemblaggio di diverse tessere può anche aver concorso a delineare la forma e i contorni di una nazione – nella fattispecie l’Italia – l’operazione, come risultato, ha ottenuto solo quello di dare corpo ad una forma senz’anima o, giusto come ebbe modo di definirla il Metternich, a una semplice espressione geografica. La vera ricchezza dell’Italia, infatti, era rappresentata proprio dalle tante diversità delle sue regioni, dalle diverse storie che avevano forgiato i loro abitanti caratterizzandone usi, costumi e, quindi, la cultura in generale. Proprio di tale ricchezza, invece, non si tenne conto, perché, se il motivo ispiratore dei “liberatori” fosse stato veramente quello di far nascere una nazione dignitosa e meritevole di rispetto da parte delle altre, non si sarebbe buttato alle ortiche l’immenso e ricchissimo patrimonio culturale delle varie regioni, ma – anche solo per ragioni meramente economiche – si sarebbe potuto partire da una tale eredità per creare una nazione più ricca e più grande. Invece, no. Poiché lo spirito animatore era eminentemente liberticida, fu azzerato tutto, e tutti dovettero uniformarsi alle leggi, ai costumi, alla volontà dell’invasore. Quest’atto di violenza e di disprezzo per la storia e le tradizioni – in qualche caso, millenarie – delle popolazioni che si volevano fondere, proprio perché non interpellate ed escluse da decisioni che andavano prese sulla loro pelle, generò indifferenza anziché amore nei riguardi della nuova creatura, e l’intruppamento coatto non sortì l’effetto voluto, dato che ogni popolo aveva motivi per recriminare. Non si riuscì, come per altre nazioni ove ci fu spontanea partecipazione delle masse, a far sì che i nuovi “cittadini” sentissero di essere un solo popolo o che l’entità appena creata venisse avvertita come la casa comune. Per cui gli italiani, come popolo, rimasero e sono rimasti ancora da fare. Questo è il motivo per cui ancora oggi capita di assistere ad inqualificabili episodi di stampo razzista oppure di registrare posizioni e comportamenti  xenofobi di una parte di alcuni italiani verso altri, assimilabili in tutto a quelli del noto e famigerato Ku Klux Klan nei riguardi dei “non white”, dei “semi-coloured”, dei “dago”, dei “wop” e dei neri nell’America degli Anni Venti. I cittadini delle varie regioni si sentono reciprocamente estranei gli uni agli altri, proprio come gli xenofobi americani consideravano le ondate dei nostri emigranti che si riversavano senza soluzione di continuità sulle loro terre. Ma in quel caso si trattava davvero di stranieri con cui non c’era in comune neanche una semplice condivisione territoriale ! Qui, invece, stiamo parlando di connazionali e, quindi, del clamoroso fallimento dei tanto decantati “artefici” dell’unità o dei “padri” della patria; fallimento che è tale sotto qualunque angolazione lo si voglia analizzare e che si appalesa o come peccato di presunzione da parte degli ideologi del Risorgimento o come constatazione che tutto era stato motivato unicamente da esigenze di ordine espansionistico ed economico, nei cui calcoli il popolo era una variabile di nessuna importanza.

Il riferimento iniziale al 1861 e ai nostri bisnonni, quindi, non è stato casuale. Se infatti gli episodi di razzismo – ma in senso inverso, cioè da sud a nord – si fossero verificati ai tempi della forzata unificazione nazionale, la cosa, per i citati motivi della violenza, della mancata informazione, della falsità dei comportamenti, ecc., poteva anche avere una certa giustificazione. A nessuno infatti fa piacere di essere invaso; considerato una semplice sagoma contro cui esercitarsi nel tiro a segno;carne da macello o soggetto da cui spremere tutto quello che è possibile non lasciandogli nemmeno “gli occhi per piangere”.

Pertanto, se le ragioni di ordine espansionistico ed economico non fossero prevalse su tutte le altre considerazioni e si fosse prestata attenzione alla storia delle varie regioni della penisola continuando a permettere un reciproco scambio tra i loro abitanti, sicuramente gli italiani si sarebbero fatti da sé e oggi, oltre ad essere un solo popolo, sarebbero non solo orgogliosi della loro nazionalità ma anche di sentirsi veramente fratelli.

Castrese Lucio Schiano

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