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La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso (II)

Posted by on Ago 9, 2023

La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso (II)

Politica dell’amalgama

Un altro elemento che emerge è quello della “politica dell’amalgama”, ossia dell’unione pacifica tra sudditi fedeli borbonici e Napolitani compromessi con i Napoleonidi, imposta al Regno delle Due Sicilie dal Trattato di Casa Lanza (20 maggio 1815), paradossalmente voluto dagli alleati Austriaci, che aggiunsero suis spontibus le clausole più vessatorie alle già notevoli richieste dei Francesi, ingiungendo il riconoscimento di tutti i titoli nobiliari, gradi militari e carriere pubbliche effettuate durante l’occupazione militare francese.

E se il riconoscimento della carriera militare poteva essere accolto (ammesso – e non concesso – che il soldato serva sempre il suo Paese, indipendentemente da chi lo comandi)[1]; se i titoli potevano essere mantenuti (a patto che non fossero lesivi di altri precedenti); sicuramente era assai pericoloso mantenere nei propri posti i funzionari che avevano fatto carriera in virtù delle loro idee politiche, come aveva già rilevato il Principe di Canosa:

Il Re, riconoscendo ed accettando il trattato di Casa Lanza, si era obbligato di mantenere tutti i Militari dell’esercito di Gioacchino nei loro gradi ed emolumenti. Se era ciò obbligato di mantenere, non era egual­mente tenuto di lasciare nelle anti­che cariche tutti gli impiegati civili, tra i quali veramente esisteva il marcio contro la legittima Monarchia. I soldati, si sa che so­no per lo più artisti che servono meglio chi meglio li paga e li tratta […] ma il tenere nella po­sta, nelle finanze, nel dipartimento eccle­siastico, in quello della guerra, nella giu­stizia, nella Polizia e da per tutto gli a­mici più dichiarati della rivoluzione, vale­va lo stesso che esporre l’Autorità Reale al più sicuro repentaglio, e ciò senza esservene necessità, avvegnaché l’impegno contratto dal Re riguardava, come dissi, i soli militari.[2]

La reiterazione della “politica dell’amalgama” dopo il 1821, dopo i moti europei del 1830 (che portarono, tra l’altro alla detronizzazione di Carlo X di Francia, primo Borbone a cadere definitivamente) e dopo il 1848, nella speranza che la politica del perdonismo avrebbe ottenuto il pentimento dei liberali, fu un suicidio cosciente.

Ruolo della propaganda

[Fra’ Diavolo] Perché nemico degli stranieri invasori, si dichiarò caldo partigiano de’ Borboni; e si sa che i settarii largiscono l’ingiuria di briganti a’ legittimisti ed a tutti coloro che li battono di santa ragione, addebitando agli stessi saccheggi, incendi, massacri e nefandezze. Se quel valoroso e scaltro capomassa fosse stato un settario, sarebbe stato proclamato un grande eroe dal partito rivoluzionario; come questo ha proclamato più che semidei altri uomini di poca levatura e carichi di delitti.[3]

La propaganda giocò un ruolo fondamentale nella caduta del Regno: dalla “santificazione laica” del “martiri” del 1799 alle calunnie riversate a più riprese contro la Dinastia borbonica (pensiamo solo a Ferdinando I bollato come “infame traditore” per essersi rivolto ai suoi alleati a Lubiana, quando questa accusa gli veniva lanciata da personaggi come Guglielmo Pepe, che aveva ben prima commesso tradimento nei confronti del Re a cui aveva giurato fedeltà…), fino all’accusa di aver realizzato «la negazione di Dio in terra», fortunatissimo slogan inventato dall’inglese Gladstone, che fornì in tal modo un sigillo internazionale alle calunnie contro i Monarchi napolitani.

E che quest’ultimo caso non sia stato altro che una ben orchestrata operazione propagandistica risulta evidente al solo considerare l’enorme risalto dato dalla stampa e dal governo britannico alle lettere di Gladstone e – al contrario – il silenzio fatto calare sulla replica, di parte borbonica, dello scozzese Charles Mac Farlane: questi scrisse allo stesso lord Aberdeen una lettera in cui confutava le accuse di Gladstone, ma il suo scritto non venne preso in considerazione dalla “libera” stampa inglese né venne diffuso nelle ambasciate inglesi (pur essendo state fornite le necessarie copie a Palmerston dal governo napolitano), come invece era stato fatto con il libello accusatorio.

Buttà sottolinea a più riprese il doppiopesismo dei “patrioti”, pronti a vedere la pagliuzza nell’occhio napolitano e ad ignorare la trave in quello piemontese, ad esempio a proposito della leva militare, resa obbligatoria dai “liberatori” – che però avevano avuto il grande merito di organizzare i “ludi cartacei” elettorali:

È necessario qui osservare quanto buon senso, carità, riguardi e libertà si usavano in quella legge detta di leva da un re, che i settarii voleano far credere nemico dell’intelligenza e tiranno. Ferdinando II non troncava bruscamente la carriera di un giovane scienziato o artista; non metteva le famiglie nella dura necessità di rimanere senza sostegni; ed infine accordava a tutti la libertà di abbandonare lo stato secolaresco e dedicarsi ad una vita di perfezione. È questa la vera libertà che dovrebbero darci i governi che si vantano umanitarii e liberali, e non già l’altra, che a nulla ci giova, cioè che, avendo un determinato censo, possiamo mettere nell’urna un voto per eleggere un così detto rappresentante della nazione. Il quale, o per cattiveria, o perché comprato da’ governanti, in cambio di sostenere i dritti di coloro che lo elessero, propugna i suoi, e quelli degli amici, o gli altri del governo-partito; e tutto questo supposto sempre che non vi sia intrigo nelle elezioni. Gli uomini di buona fede e di buon senso, invece di farsi imporre dalle frasi altosonanti di libertà e di progresso, dovrebbero studiare e confrontare le leggi fatte dai tiranni con quelle che ci han regalate i rigeneratori de’ popoli.[4]

Che la propaganda fosse in azione anche a livello internazionale era perfettamente chiaro per Buttà:

Gli stranieri, che venivano a Napoli, doveano parlare e stampare dello stato abbietto come vestivano e conducevansi i lazzari: ma in realtà, costoro erano meno immorali dei loro derisori in guanti gialli e profumati. Si doveano esporre e pubblicare per le stampe le sconcezze di questa capitale, mentre se ne trovavano peggiori nelle altre città che si dicevano incivilite; e si giungeva fino all’impudenza di parlarne come se la sola Napoli fosse travagliata di que’ mali comuni al genere umano; finendo sempre col prediletto ritornello: tutto causa l’infame governo de’ Borboni. Intanto nulla si dicea, perché nulla si dovea dire, di quanto vi è di bello e di buono in questa città ed in tutto il regno, e di quanto Ferdinando II avea fatto e facea per migliorare le condizioni de’ suoi popoli.[5]

L’ipocrisia giungeva ad un punto tale che,

quando i suoi detrattori non poteano farne a meno di accennare le opere pubbliche di quel sovrano, assicuravano, che egli l’avesse fatte per meglio tenere schiavi i suoi soggetti. Difatti perché fu il primo in Italia ad introdurre in questo regno i battelli a vapore e le strade ferrate, si disse che facea ciò per avere i mezzi più pronti di condurre la soldatesca da un punto all’altro ed opprimere i popoli, nel caso che costoro avessero voluto liberarsi dalla tirannia; lo stesso si disse pe’ telegrafi elettrici, cioè che gli servivano per conoscer subito i movimenti delle province contro di lui.[6]

Una propaganda così costante e martellante che lo stesso Buttà ammette:

A dirvi il vero, anch’io avea creduto tutte quelle calunnie settarie; ma mi disingannai pienamente nel 1851. Da quell’anno fino al 1854 soggiornai in varie capitali degli Stati d’Italia, e mi convinsi che il nostro paese era il migliore amministrato ed in tutti i rami, non escluso quello della tanto detestata polizia borbonica. In quanto poi al Piemonte, che da’ rivoluzionarii ci era presentato come governo modello, riportai in patria orribili convinzioni; ma avendo comunicato quanto avea veduto ed osservato a’ miei amici, costoro mi guardarono bieco, e chi sa se non avessero pensato che io mi fossi venduto alla polizia per ispacciare quelle notizie; mentre da questa non ero veduto di buon’occhio, per la sola ragione che avevo la smania di viaggiar sempre. La sètta avea talmente inoculato il suo veleno in questo Regno, che guai a colui che non avesse proclamato questo tirannico e quello del Piemonte il più progressista, il più giusto ed anche il più ricco del mondo![7]

Miopia della politica amministrativa e culturale borbonica

All’opera della propaganda si sarebbe dovuta contrapporre una controffensiva di pari valore, ma quest’ultima mancò sempre di mordente, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. La Dinastia borbonica non comprese l’importanza di una risposta capillare, anziché di una assai più aristocratica (ma anche del tutto inconcludente) sprezzante superiorità, nella illusoria convinzione che sarebbero stati i fatti a parlare. Ma se i fatti venivano distorti e gli stessi primati del Regno ritorti contro chi li aveva creati (come il caso sopra citato dei battelli a vapore, delle ferrovie, dei telegrafi elettrici)?!

Dalla parte opposta l’offensiva era pesante: l’invasione militare garibaldino-piemontese fu preceduta da un best-seller del tempo come lo scandalistico Storie segrete dei Borboni di Napoli (1857) di Giovanni La Cecilia[8] (poi pentitosi amaramente, ma troppo tardi) e seguita da una Storia dei Borboni di Napoli (Napoli 1862), altrettanto faziosa e inattendibile, ma affidata alla penna più conosciuta del momento: quella di Alexandre Dumas padre. Di fronte a tanto nome, i pur bravi Giacinto de’ Sivo, Giuseppe Buttà, Gennaro Marulli, il romanzo satirico Il conte Durante del pentito Duca di Proto[9] oppure l’anonimo autore di Ernesto il disingannato[10] (1874), il primo romanzo borbonico – e soprattutto carlista – della letteratura italiana, potevano ben poco.

La politica borbonica non seppe o non volle (forse perché imbrigliata dai lacci dell’amalgama) opporre una contropropaganda capace di contrastare quella avversaria.

A questa scelta (suicida) di non belligeranza, si affianca la politica (altrettanto suicida) del perdonismo, costantemente reiterato dopo il 1815, quando non era più imposto dal Trattato di casa Lanza. Un solo esempio:

[Alessandro] Begani ritornò nel Regno con gli amnistiati del 1820, e si ribellò di nuovo contro colui che avealo beneficato insieme alla sua famiglia. I rivoluzionari son sempre gli stessi, anzi i beneficati divengono gli acerrimi nemici de’ sovrani benefattori; e guai se costoro sono tanto insipienti da metterli al potere! Nonpertanto dopo la morte di quel maresciallo, re Ferdinando II onorò la vedova e le figlie, dando financo alle stesse la pensione di grazia.[11]

L’errore fatto con Begani fu costantemente reiterato[12], nella pia e vana illusione che i perdonati avrebbero voluto riscattarsi, divenendo fedelissimi. Il solo nome di Liborio Romano (esiliato nel 1848, graziato nel 1855 e assurdamente assurto a capo della polizia nel 1860) vale per tutti.

Del resto, la miopia di certa politica borbonica “buonista” aveva radici antiche: alle già viste nomine di cattedratici «non tenendo conto de’ loro principii politici quantunque conosciuti!»[13] si affiancavano la decisione di abolire l’antichissima magistratura dei Sedili (cioè il corpo dell’aristocrazia napoletana) all’indomani della prima restaurazione (25 aprile 1800) e la scelta di mantenere la legislazione imposta dal Codice Napoleone dopo la seconda restaurazione (1816) abolendo l’antico e tradizionale diritto napolitano: provvedimenti antitradizionali, in linea con l’assolutismo e che nessuna Potenza estera aveva minimamente pensato di imporre.


[1] Infatti cinque anni dopo, ancor prima dello scoppio dei moti carbonari, il Principe di Canosa avrebbe ammonito: «Questa regola ha fallato. Abbiamo veduto difatti militari così disonorati e perversi che, a dispetto di ogni buon trattamento e gratitudine, sono diventati i più accaniti traditori dei Monarchi loro benefattori. Questa terribile lezione dovrebbe confermarci nella massima molto più vera, che con la canaglia rivoluzionaria non si può mai transigere e che coloro che hanno una malattia di cuore, sia essa fisica, sia morale, non guariscono giammai». Antonio Capece Minutolo, I piffari di montagna (1820), in Idem, Saggi politici (1796-1820), Solfanelli, Chieti 2021, p. 262, n. 89.

[2] Ivi, p. 262-263.

[3] I Borboni di Napoli…, I, 20.

[4] I Borboni di Napoli…, II, 4.

[5] I Borboni di Napoli…, II, 6.

[6] I Borboni di Napoli…, II, 6.

[7] I Borboni di Napoli…, II, 6.

[8] Storie segrete delle famiglie reali o Misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli, e della famiglia Absburgo-Lorena d’Austria e di Toscana per Giovanni La Cecilia, IV volumi, A spese degli Editori, Genova 1857. Se ne contano almeno altre tre edizioni genovesi (1869-, 1860, 1862) e due palermitane (1860 e 1862).

[9] Il Conte Durante. Racconto di Ausonio Vero per il sesto centenario di Dante, Italia 1864. L’autore era il deputato del parlamento italiano Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, duca di Maddaloni (1815-1892), fuoriuscito del 1848.

[10] Il passato ed il presente, ovvero, Ernesto il disingannato, ora riproposto da D’Amico, Nocera Superiore (Salerno) 2017, prefazione di S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone; introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis; postfazione di Francesco Maurizio Di Giovine; con due scritti inediti di Don Carlos VII e di Francisco Elías de Tejada.

[11] I Borboni di Napoli…, I, 28.

[12] Peraltro, anche l’accusa di inventare prove false per incarcerare innocenti, formulata dal Gladstone, risulta ben poco compatibile (e quindi credibile) con la successiva politica perdonista…

[13] I Borboni di Napoli…, I, 5.

Gianandrea de Antonellis

continua……

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