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La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso (III)

Posted by on Ago 10, 2023

La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso (III)

Analisi profonda della situazione

Durante la lettura del presente saggio non si può fare a meno di apprezzare la capacità di Buttà di rendersi perfettamente conto della situazione politica.

Così avviene per la distinzione semantica, fatta talvolta con spontaneità tra gli aggettivi italiano, italico (la Penisola, ad esempio, viene definita solo italica, mai italiana) e italianissimo, usato ironicamente e riservato, ovviamente, ai “patrioti”, cioè ai rivoluzionari e agli invasori.

E così avviene, venendo ad un ambito più strettamente politico, quando sottolinea l’interesse dei rivoluzionari a creare una situazione di disagio e quindi a impedire riforme e miglioramenti realizzati dal governo in carica:

Io già l’ho detto e giova ripeterlo, i rivoluzionarii odiano e detestano il bene che i sovrani fanno agli Stati; perché vien lor meno uno de’ pretesti, col quale fan leva per rovesciare i troni e schiacciare sotto i loro rottami i popoli innocenti. Ecco la vera ragione per cui si mostrano incontentabili, criticando e malignando le opere più commendevoli ed utili de’ re, poco curandosi se cadono nella più flagrante contraddizione.[1]

I rivoluzionari, i sedicenti “patrioti”, sono uno dei bersagli preferiti di Buttà (assieme a Colletta, spesso indicato come «l’Eroe di Antrodoco» per immortalare la sua fuga nella prima battaglia del Risorgimento italiano del marzo 1821). A loro riserva strali feroci, sottolineandone la vigliaccheria, gli interessi personali, la prontezza al tradimento. Ecco i giacobini del 1799 convertiti in monarchici all’arrivo dei Napoleonidi:

I patrioti, conoscendo che il loro tempo era finito e cominciava un governo ferreo di nuova Signoria, cambiarono subito livrea, rinnegando la loro repubblica, perché prevedevano che sarebbero stati perseguitati ad oltranza più de’ borbonici, se non avessero applaudito e sorretto il nuovo ordine di cose, che facea luccicare a’ loro occhi ricchezze e potenza.[2]

Ma le critiche dello scrittore sono rivolte anche agli aristocratici che non si dimostrarono così saldi nella fedeltà al loro legittimo Monarca:

Non pochi aristocratici, dimenticando i benefizi ricevuti dal legittimo principe, vilmente lo rinnegarono; essi per quanto si erano mostrati provocanti borbonici, tanto più si mostrarono abbietti servi dello straniero; oprarono in questo modo per quell’innata ingordigia di non perdere i vantaggi che goduti aveano sotto il passato governo. La storia di questi burbanzosi langravi si ripete sempre la stessa; eglino seguirono i Borboni nell’esilio fin che ebbero speranza nel ritorno di costoro, quando questa lor venne meno, come mandria d’idolatri, si voltarono per adorare il sol nascente, commettendo viltà ed abbiettezze. Oggi appunto tanti beneficati aristocratici, che son nobili e ricchi in grazia della legittima dinastia, ci danno lo spettacolo il più ributtante d’ingratitudine e servilismo, da farsi disprezzare da quelli che ora incensano, mentre un tempo li perseguitarono. E son questi i nobili in cui dovrebbe specchiarsi il popolo? Oh! se son questi, mi contento esser nato da onesta famiglia popolana anzi che discendere da magnanimi lombi. Tra non guari dirò a quale stato degradante si ridussero taluni aristocratici per far piacere ad un istrione coronato.[3]

Buttà sottolinea l’epidemia di amnesia che colpì i rivoluzionari – soprattutto francesi – che erano partiti dalla repubblica nata dal regicidio per approdare all’impero napoleonico creatore di una nuova aristocrazia:

È poi da notarsi che, mentre si aboliva l’antica feudalità, si creava quella surta da’ Sanculotti della rivoluzione francese; ed è questa la solita contraddizione de’ così detti democratici![4]

Non solo in Francia: il “Robespierre a cavallo” creò più titolati in dieci anni di quanto un vero Monarca avrebbe potuto nominare in una vita: nella sua famiglia non un solo parente si salvò da un ampolloso titolo (con l’unica eccezione del fratello Luciano)[5] se non da una corona regale[6]. Tornando ai fautori del nuovo regime, Buttà coglie la contraddizione dei nuovi aristocratici francesi:

Il Regno di Giuseppe Bonaparte fu una vera anomalia ed in tutto; si abolì la feudalità e si crearono nello stesso tempo sei feudi col titolo di Ducati per ricompensare tanti rivoluzionari francesi divenuti assolutisti ed umili servitori di Robespierre à cheval.[7]

Non mancano la critica al continuo aumento delle tasse e degli obblighi nello Stato postunitario rispetto a quello borbonico, che aveva avuto un precedente anche nella occupazione militare (ovvero durante la “liberazione” da parte dei Francesi):

Il 14 febbraio del 1810, venne istituito in Sicilia il catasto ed in settembre fu messa la tassa fondiaria. È questa una importazione francese, e come ho già detto, il primo a regalarla a’ napoletani fu Giuseppe Bonaparte nel 1806. Però quella tassa sotto i re francesi, si pagava alla ragione del venti per cento, cioè il quinto sulla rendita; quattro anni dopo, quando fu imposta a’ siciliani da Ferdinando IV, si pagava il cinque per cento sulla rendita effettiva.[8]

Del resto l’autore sottolinea più volte il desiderio dei liberali di prendere il potere non per instaurare il buongoverno, bensì al fine mettere le mani sull’erario, distribuendo prebende, sperperando denaro pubblico e di conseguenza caricando di nuovi balzelli i poveri sudditi (non senza averli elevati però al rango di cittadini!):

Siccome tutte le operazioni de’ padri della patria conchiudono con afferrar danaro, smungendolo dalle smunte tasche de’ redenti cittadini, si ordinò un altro così detto mutuo testatico, forzoso già s’intende, di un milione ed ottocentomila ducati.[9]

E Buttà si rivela più ripieno di vero spirito patrio dei sedicenti patrioti, che intendono per tali solo coloro che sono a loro ideologicamente affini – in perfetta mentalità giacobina – e non coloro che provengono, in senso etimologico, dalla stessa patria:

Lettori, son sicuro che il giusto vostro orgoglio nazionale, al pari del mio, è rimasto soddisfatto nel sentire il modo come combattettero i nostri nazionali soldati contro la flotta inglese[10], ad onta che essi non pugnassero pe’ veri interessi della nostra patria. Voi non siete come i rivoluzionarii, che occultano o travisano i trionfi nazionali sol perché non fanno i loro interessi; al contrario si mostrano essi soddisfatti delle umiliazioni patrie a loro favorevoli; e nel descriverle aggravano le tinte dichiarando vili e peggio i proprii concittadini, ed esaltano il valore, la moderazione ed anche la generosità dello straniero, che saccheggia le nostre case e si appropria del nostro terreno. Oh, i settarii non hanno né cuore né patria![11]

Del resto il disprezzo verso i sedicenti patrioti appare evidente in passaggi come il seguente in cui – allora come ora – i rivoluzionari sono pronti a far la guerra, ma pretendono (sia che si trovino sulle barricate di Toledo nel 1848 sia che si aggirino nelle strade di Genova nel 2001) che i loro avversari le buschino senza replicare:

Voi, lo sapete, lettori miei, cioè che i rivoluzionarii, quando son picchiati di santa ragione, si vendicano con proclamare la soldatesca assassina e peggio; quando poi la medesima usa misericordia a’ vinti è vigliacca. Nulla poi dico che i medesimi patrioti, rigeneratori de’ popoli oppressi, han la inqualificabile pretensione che a loro è lecito uccidere in tutt’i modi più crudeli e sleali i loro nemici, ed a costoro neppure intendono accordare il dritto della legittima difesa.[12]


[1] I Borboni di Napoli…, III, 3.

[2] I Borboni di Napoli…, I, 18.

[3] I Borboni di Napoli…, I, 18.

[4] I Borboni di Napoli…, I, 21.

[5] Che in compenso ebbe tre titoli principeschi pontifici: Pio VII lo nominò Principe di Canino (1814), Leone XII aggiunse quello di Musignano (1824) e Gregorio XVI gli concesse il titolo sul cognome (1837).

[6] In ordine di nascita: Giuseppe, re di Napoli e poi di Spagna; Elisa, granduchessa di Toscana, principessa di Lucca e Piombino e duchessa di Massa e principessa di Carrara; Luigi, re d’Olanda; Paolina, duchessa di Guastalla (poi principessa Borghese); Carolina, granduchessa di Berg e Cleves e poi consorte di Napoli, in quanto moglie di Gioacchino Murat; Girolamo, re di Vestfalia. Lo stesso Bernadotte, che da giacobino si era fatto tatuare sul petto la scritta «Morte ai re», grazie al matrimonio con Désirée Clary, ex amante di Napoleone e cognata di suo fratello Giuseppe, entrò nel “clan Bonaparte” e si ritrovò in testa la corona di Svezia…

[7] I Borboni di Napoli…, I, 21.

[8] I Borboni di Napoli…, I, 23.

[9] I Borboni di Napoli…, II, 22.

[10] Buttà ha appena descritto lo scontro del 27 giugno 1807 nel golfo di Napoli, quando Giovanni Bausan tenne coraggiosamente fronte alla flotta inglese, preponderante per numero e per armamento, con la sola flotta napoletana, senza l’aiuto di quella francese.

[11] I Borboni di Napoli…, I, 22.

[12] I Borboni di Napoli…, II, 9.

Gianandrea de Antonellis

continua

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