La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso (IV)
Il solito errore reiterato
Purtroppo, in tanta acutezza di analisi (la precedente critica al diritto unilaterale di sparare da parte dei rivoluzionari è tuttora valida) anche in Buttà non manca il solito errore di una visione distorta del periodo imperiale ispanico (vulgo: vicereale spagnolo). Ecco una “chicca” con cui si apre il primo volume:
Chi si facesse a volger lo sguardo sul Reame di Napoli, quando trovavasi sotto il dominio spagnuolo o tedesco, altrove inorridito lo rivolgerebbe […]
Carlo III, appena libero dalle ostilità de’ nemici, rivolse il pensiero a riordinare il caos amministrativo di questo Reame, essendovi in tutto costumi, leggi ed ordinamenti spagnuoli, non tutti confacenti all’indole del nostro popolo.[1]
È vero il contrario: il diritto tradizionale, fino all’occupazione militare francese, che impose il Codice Napoleone, nasceva dalla consuetudine. In tutto l’Impero, gli Spagnoli non imposero mai alcuna legge castigliana (con l’unica eccezione del Vicereame del Perù, ma anche lì con i dovuti distinguo): ogni Regno aveva il proprio diritto (e quindi quello napoletano differiva da quello siciliano) e non ci fu mai la pretesa assolutista di omologare leggi o lingue “castiglianizzandole” (la proposta in tal senso di Tommaso Campanella[2] non fu neanche considerata da Filippo III).
Viceversa, con la “restaurazione” (che restaurò ben poco) si mantenne il diritto francese che era stato imposto dai dominatori – questo sì del tutto non confacente all’indole del popolo –, cambiando solo il frontespizio del codice.
Il fatto è che il pregiudizio antispagnolo era dovuto a oltre un secolo di propaganda (su cui si è basata, tra l’altro, proprio la “costruzione” del concetto e del sentimento di “italianità”[3], inesistente fino all’800[4] – gli “appelli” di Dante e Petrarca, che dovrebbero essere contestualizzati, fanno riferimento ad una identità culturale, prima che politica) ed è comprensibile (ma non accettabile) che anche chi era stato vittima dell’antispagnolismo – come i difensori del Regno delle Due Sicilie – ripetesse la solita, trita storia. Del resto, pure Giacinto de’ Sivo avrebbe scritto: «L’unità per noi è ruina. In nome della libertà ne vien tolta la libertà; perdiamo il dono di Carlo III; ritorniamo a’ Viceré, anzi a’ luogotenenti, anzi a’ prefetti, anzi a’ molti prefetti, per esser menati con la frusta. Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese»[5].
Ed era in buona compagnia, se lo stesso Francesco II (molto mal consigliato – ma gli ex fuoriusciti del 1848 chiamati a fargli da consiglieri li aveva scelti lui) nel suo ultimo atto ufficiale redatto a Napoli (Proclama del 6 settembre 1860) si era definito «discendente d’una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori d’un lungo governo viceregnale»[6].
Conclusioni
Alla fine della lettura de I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, constatando la falsità dell’immagine che ci hanno sempre propagandato e lo sviluppo che il Reame aveva raggiunto, è lecito chiedersi: la caduta del Regno poteva essere impedita? Dal punto di vista politico, sembra difficile, perché le cause politiche interne risalgono almeno al 1799, se non prima; anche se indubbiamente la concessione della terza costituzione portò con sé un necessario, ulteriore indebolimento del potere statale, come Buttà considerava già a proposito della costituzione siciliana del 1812:
Io rispetto tutte le opinioni oneste, però abbomino i governi detti misti, non essendovi in fatto responsabilità né del potere legislativo, né di quello esecutivo. I governi costituzionali come li vediamo oggi, sono un misto di democrazia, aristocrazia e monarchia; sembrano ottimi in teoria, come la repubblica di Platone, e riescono pessimi in pratica. Nulla poi dico de’ grandi mali che arrecano quando il potere esecutivo domina quello giudiziario, ed intriga sulla nomina de’ deputati; allora sì, divengono col fatto pessimi. Se io avessi la disgrazia di esser re, e volessi tiranneggiare il mio popolo, darei una costituzione, combinata in modo che i miei ministri potessero intrigare per l’elezioni politiche e dominare la magistratura; così potrei tiranneggiare il popolo a nome dello stesso popolo.[7]
Forse, dal punto di vista strettamente militare, laddove il comando fosse stato affidato a un generale di valore, anziché ai vari ufficiali cialtroni e/o venduti al nemico, alcune battaglie si sarebbero potute agevolmente vincere e, fermando Garibaldi in Sicilia, si sarebbe potuta dare una svolta diversa alla Storia. Buttà lo dice espressamente, rimpiangendo il fatto che la guida dell’esercito non sia stata assunta (per propria volontà) da Carlo Filangieri. Ma anche in lui riconosce alcuni limiti, che sono poi quelli della politica borbonica in generale:
Però gli uomini siccome non son pessimi, del pari neppure sono ottimi; quindi, con la mia solita franchezza, dirò eziandio le colpe del mio eroe. [Nel 1848] Egli strappò la Sicilia dalle rapaci ed insanguinate mani della demagogia, rendendo non solo un segnalato servizio a quell’Isola e al resto del Regno, ma all’Italia ed alla stessa Europa; dappoiché i tristissimi casi del 1860 sarebbero avvenuti nel 1848, se l’esercito napoletano non fosse stato capitanato da un Carlo Filangieri. Dalla Sicilia partì il grido di rivoluzione, che commosse popoli e troni, e questo gran capitano la conquise col suo senno e col suo poderoso braccio. Egli però volle usare assai moderazione co’ rivoluzionarii, proteggendoli troppo; e così lasciò un lievito, che fermentato produsse i deplorevoli danni del 1860. Magnanimo fu veramente, quando si fece mediatore ed intercessore presso il sovrano, per ottenere il facile perdono de’ ribelli, che aveano anche lui calunniato bassamente; ma fu gran fallo aver lasciato costoro ne’ posti, che aveano ghermiti nella ribellione a danno degli uomini dell’ordine ed affezionati alla dinastia. Fu eziandio gran colpa ed imperdonabile l’aver dato cariche a’ capi della sicula rivoluzione, chiudendo gli orecchi a’ giusti reclami degli offesi; e proseguendo a governare in nome del legittimo principe, preparava novella e più fiera rivolta. La gente onesta ed i borbonici, maltrattati e derubati, attesero invano i meritati compensi; i rivoltosi, i ladri e gli assassini si godettero il maltolto, insultando perfino le loro vittime superstiti, e lasciando nelle menti popolari l’utilità della colpa: questa ricordanza non fu l’ultima causa che produsse la catastrofe del 1860.[8]
«Fu gran fallo aver lasciato costoro ne’ posti, che aveano ghermiti nella ribellione a danno degli uomini dell’ordine ed affezionati alla dinastia»: non è una frase che sintetizza l’errore pluridecennale causato dalla “politica dell’amalgama”? Nel 1860 la struttura burocratica napolitana era troppo corrotta, troppo infiltrata da elementi liberali per poter pensare che un diverso comando dato nella battaglia di Calatafimi o in quella di Milazzo potesse modificare le sorti non dico della campagna militare, ma della vicenda politica del Regno. Del resto, un Regno pacifico e profondamente cattolico, sostanzialmente arrendevole come quello borbonico non avrebbe potuto competere, nel corso dei decenni, con la “concorrenza” di nazioni aggressive, di mentalità protestante (ancorché ufficialmente cattoliche), con ministri che alla lettura del breviario o della Filotea preferivano quella de Il Principe di Machiavelli… Dal 1799 in poi non c’è stato che un rimandare una fine prevedibile: i giacobini repubblicani che – convertitisi in monarchici – avevano servito i Napoleonidi, rimasti ai loro posti avrebbero pilotato la rivoluzione carbonara del 1821 e i loro figli quella del 1848 e quella del 1860, trasformandosi da estremisti mazziniani in più moderati cavourriani. I due Ferdinandi erano riusciti a frenarli, ma non a fermarli e la decisione (imposta o autonoma che fosse) di perdonarli ha portato al necessario risultato di fornire al principale nemico l’arma con cui questo avrebbe conquistato il potere. Vagheggiare che i liberali, vistosi permesso il ritorno in patria, si commuovessero e si convertissero, era una pia illusione, come quella di chi sperava (fino a qualche anno fa) che accogliere gli islamici in Europa portasse alla loro conversione all’edonismo materialista. Una illusione che è costata ai Borbone un Regno e ai loro sudditi una vita sotto il tallone italiano: una vita fatta di tasse, di emigrazione forzata, di denigrazione del proprio passato, di sudditanza psicologica.
Infine vale la pena rileggere una considerazione di Buttà su Murat, ma che non può non far pensare – visto che fu scritta nel 1875 – ai fatti del 1860.
[Murat] Spedì la sua piccola flotta a Gaeta; la stessa era composta di una fregata, una corvetta e trentotto barche cannoniere. Dispose che la sua famiglia si recasse in quella fortezza per essere in salvo d’ogni evento a lui contrario. A quest’ultima disposizione si oppose il ministro Saliceti e sua moglie Carolina, facendogli riflettere che avrebbe scoraggiato tutt’i partigiani de’ francesi.[9]
Implicito il giudizio sulla sciagurata scelta di Francesco II di non affrontare i garibaldini in campo aperto, ma di chiudersi nella fortezza in attesa che qualcun altro (l’Austria? la Francia? la Russia?) venisse a togliergli le castagne dal fuoco. Il risultato fu, senza dubbio, di scoraggiare a Napoli “tutt’i partigiani dei Borbone”.
E torna alla mente l’ordine dato ai soldati in Sicilia nel 1848: «Ritirarsi difendendosi»[10]. Cioè evitare di attaccare, evidentemente per non rendersi odiosi alla popolazione. Al contrario, i nemici dei Borbone, hanno preferito attaccare avanzando e, guarda caso, sono riusciti vincitori.
Gianandrea de Antonellis
Castellammare di Stabia, 13 giugno 2021,
S. Antonio “gloriuso”
[1] I Borboni di Napoli…, I, 1 e 2; corsivo mio.
[2] Cfr. Tommaso Campanella, La Monarchia di Spagna, «Napoli Imperiale Ispanica» 3, Club di Autori Indipendenti, Castellammare di Stabia 2018 [ed. online: www.samnium.org], p. 64: «E avendo il Re da acquistare il mondo, deve tutte le genti spagnolare, cioè farle spagnole».
[3] Cfr., sull’argomento, Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identità italiana, a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003; Giovanni Turco, Antispagnolismo ed unitarismo risorgimentali. Tra storiografia e teoria giuridico-politica, introduzione a Francisco Elías de Tejada, Sardegna ispanica, Solfanelli, Chieti 2020, p. 9-58.
[4] Su questo punto mi permetto di rimandare al mio L’Italia non esiste. «Una d’arme, di lingua, d’altare»? considerazioni sull’identità italiana pre- e post-risorgimentale, Anales de la Fundación Francisco Elías de Tejada (Madrid), XXV (2020), p. 119-142.
[5] Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, cap. IX, Il Giglio, Napoli 2016, p. 65; corsivo mio. Imbarazzante mettere i Viceré spagnoli sullo stesso piano dei prefetti piemontesi, ma il paragone è dovuto evidentemente a un pregiudizio diffuso, causato da una deformazione storica pressoché – almeno fino ai nostri giorni – inestinguibile.
[6] Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trabant, Brindisi 2009, II, 218). Corsivo mio.
[7] I Borboni di Napoli…, I, 28.
[8] I Borboni di Napoli…, II, 24.
[9] I Borboni di Napoli…, I, 21. Corsivo mio.
[10] I Borboni di Napoli…, II, 9.