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La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso

Posted by on Ago 7, 2023

La lucida analisi di un difensore obbiettivo. Giuseppe Buttà,scrittore di parte, ma non fazioso

Introduzione

– Oh! Sentite!… – sbottò il cappellano – Questi saranno pure dei bei sogni, ma la realtà è quella che vedo. L’Italia! – e sbuffò. – Se essere italiano vuol dire fare ruzzolare dal trono quei re, che Dio ci ha messo e perciò ci stanno benone; se vuol dire spogliare la Chiesa dei suoi stati, imprigionare cardinali, vescovi e fucilarne uno qua uno là; se vuol dire scannare i preti, rubare nelle chiese, sforzare i monasteri e smonacare le suore…

Se significa urlare bestemmie, errori, corrompere la gioventù e educarla all’odio della virtù e al disprezzo della religione… Eh! Cristo Signore Iddio! Se l’essere italiano vuol dire tutto questo… Io preferisco essere cosacco, turco o beduino!

Carlo Alianello, L’alfiere[1]


[1] Carlo Alianello, L’alfiere, Osanna, Venosa 2000, p. 97.

Con questa esplosione don Giuseppe Buttà, cappellano dell’esercito borbonico e fiero di esserlo, pone fine alla sua discussione con fra’ Carmelo da Acquaviva, coprotagonista del romanzo di Carlo Alianello L’alfiere. Il sacerdote che ha appena finito di sfogarsi viene descritto come teso e fremente: «E gonfiò le sue gote già tonde mentre fissava fiero il compagno e gli sprizzavano fuor dagli occhi tutte le braci del suo spirito bellicoso. […] Stava lì come un lottatore deciso che inturgidisce i suoi muscoli, pronto a ribattere e rintuzzare»[1].

La breve apparizione nel VII capitolo de L’alfiere del sacerdote e storico borbonico – testimone oculare della disfatta di Milazzo che avrebbe descritto nel Viaggio da Boccadifalco a Gaeta, che fu tra le fonti principali di Alianello – è giustificata dalla sua figura di polemista, come appare anche dalla lettura del presente ampio saggio.

Buttà nel giro di cinque anni pubblicò una sorta di “trilogia” sulla storia del Regno di Napoli e Sicilia (e poi delle Due Sicilie), attraversando l’intero periodo borbonico (I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, tre volumi, Napoli 1877), ricostruendo la sua caduta in seguito all’aggressione militare (Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione del 1860 al 1861, Napoli 1875) e infine analizzando i risultati della “italianizzazione” in un saggio travestito da romanzo (Edoardo e Rosolina o le conseguenze del 1861, Napoli 1880), in cui documenta i danni provocati dall’unificazione nel decennio che va dall’annessione del Sud alla conquista di Roma.

Se Edoardo e Rosolina è un saggio travestito da romanzo, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli è un saggio non privo di elementi letterari (non voglio usare la trita frase «è un saggio che si legge come un romanzo»), un testo che vuole essere rigoroso, ma che rinuncia alla ampollosità o alla freddezza di un lavoro cosiddetto scientifico: nonostante le quasi mille pagine, si legge con piacere e non mancano aneddoti divertenti (o meglio, che sarebbero divertenti se non fossero riferiti a un evento drammatico quale la caduta del Regno), come il seguente episodio, relativo ai cavalli in bronzo regalati dallo Zar Nicola I a Ferdinando II e posti all’ingresso dei giardini della Reggia, in cui Buttà fa sfoggio di ironia:

Nel 1860, i civilissimi rigeneratori di queste nostre contrade, siccome i cavalli stanno inalberati e trattenuti da’ domatori, temendo che avessero potuto abbassar le zampe e schiacciare l’Italia una, voleano distruggerli, ma vi si oppose il console russo; e le iscrizioni già deturpate e guastate, più tardi il Municipio fu obbligato rifarle in fretta, ma in nero, e non già più a rilievo di ottone dorato.[2]

La lettura è affascinante e, se ci sono libri – come il Viaggio da Boccadifalco a Gaeta – che sono “più citati che letti”, quanto al titolo, sfogliando le sue pagine si scoprirà che I Borboni di Napoli… è un libro abbastanza citato, quanto al contenuto, però solitamente senza indicare la fonte. Infatti, ad esempio, troviamo per la prima volta una elencazione attenta dei “primati” del Regno borbonico, che ad ogni fine di capitolo riassumono quanto è stato fatto nel periodo appena descritto, assieme alla lista delle più eminenti personalità scomparse e dei principali studi pubblicati, nello stile già presente nella puntuale cronologia di Mons. Luigi Del Pozzo[3].

Del resto è perfettamente logico per un saggio che fin dal titolo palesava l’intento programmatico di dimostrare come la tanto esecrata Dinastia borbonica fosse tutt’altro che «la negazione di Dio sulla terra», come l’aveva falsamente (ma con enorme successo) bollata Gladstone[4]. Così, è naturale trovare nel corso dei tre volumi, momenti di esaltazione, ma – poiché Buttà scriveva pur sempre dopo la disfatta politica e militare – l’autore – dimostrandosi di parte, ma non fazioso – è capace di discernere tra le innovazioni veramente utili e quelle che rischiavano di essere dannose.

Un caso emblematico è quello – ricordato con una certa frequenza da tanti nostri contemporanei – della prima cattedra di Economia al mondo (1754), affidata (con il nome ufficiale di Commercio e Meccanica) ad Antonio Genovesi (che preferiva la dicitura Economia civile). Un indubbio primato, ma che dimentica che tale cattedra fu voluta da illuministi e massoni – in primo luogo l’ambiguo fiorentino Bartolomeo Intieri (1677-1753, ufficialmente amministratore dei beni allodiali dei Medici, ma in realtà informatore segreto del governo toscano), che la finanziò – per introdurre a Napoli le teorie del mercantilismo inglese e dei fisiocratici francesi, del tutto estranee alla cultura ed agli interessi del Regno partenopeo[5].

Così Ferdinando IV, nel riordinare le tre Università del Regno (Napoli, Catania e Palermo), creò nuove cattedre e «nominò a cattedratici il fior fiore degli uomini più in fama di scienza, non tenendo conto de’ loro principii politici quantunque conosciuti!»[6]. E Buttà sottolinea la “bella trovata” con un punto esclamativo, reiterato poche righe sotto, quando termina l’elenco dei nuovi docenti – iniziato appunto con Genovesi – ricordando: «e per la giurisprudenza parecchi insigni legisti, tra gli altri un Mario Pagano!», con un altro punto esclamativo che indica, a fianco della magnanimità del Re, la sua scarsa lungimiranza. Sarebbe stato facile infatti rendersi conto che, così facendo, si creavano schiere di studenti i quali, oltre a imparare i rudimenti delle rispettive scienze, si abbeveravano anche a sistemi filosofici di derivazione illuminista, vale a dire sostanzialmente atea o perlomeno anticlericale. Non c’è quindi da stupirsi se le idee rivoluzionarie fecero presa tra la gioventù colta napolitana di fine Settecento…

La ricerca delle cause della fine del Regno

L’ex cappellano militare descrive – quasi fosse un avvocato intento a dimostrare l’innocenza dell’accusato (anzi, del condannato in prima e seconda istanza) che ripercorre la vita del suo assistito – i 126 anni della Dinastia borbonica, elencando i suoi indubbi meriti, ma senza nascondere – dimostrando così onestà e lucidità – gli elementi che indebolirono il Regno. Egli aveva addirittura promesso anche un’altra opera che indagasse in particolar modo le cause della sua caduta:

Per provare che l’Appendicista non si è fatto ingannare, e che non è salito in cattedra per elogiare e flagellare a suo piacere; tra non guari pubblicherà un altro umile lavoro corredato da documenti inappuntabili, col titolo: Il 1860 – Perché cadde il Trono di Napoli – Amori e sdegni di tre diplomatici.[7]

Il lavoro in questione non uscì mai, ma nei tre volumi de I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, affrontando la storia del Regno dall’avvento di Carlo di Borbone fino alla morte di Ferdinando II, riporta elementi utili ad individuare la debolezza politica che poi determinò il crollo dello Stato borbonico – anche se non sempre essi sono esplicitamente segnalati come motivi della sua caduta.

Quattro sono le principali cause che emergono:

  1. gli interessi internazionali;
  2. la politica dell’amalgama;
  3. il ruolo della propaganda;
  4. la miopia della politica borbonica in campo amministrativo e culturale.

Interessi internazionali

Gli interessi della Francia e soprattutto dell’Inghilterra nel controllare la Penisola italica sono indubbi e più volte sottolineati da parte dell’autore: la posizione geostrategica della Sicilia nel Mediterraneo, nonché il suo zolfo abbondante e a buon mercato, facevano estremamente gola all’Inghilterra, che approfittò della rivoluzione francese (e in particolare della Repubblica napoletana prima e dell’occupazione militare napoleonica poi) per creare una sudditanza della Trinacria, se non alla Corona inglese, perlomeno alla sua flotta. La Francia si dimostrò invece sempre più interessata alla terraferma: il divieto imposto a Murat da parte del cognato “imperatore” di invadere la Sicilia – tra i vari ulteriori motivi – indica anche la scarsa attrattiva verso l’Isola (Napoleone non era certo un tipo che si contentava…).

Leggendo le pagine di Buttà emerge dunque, sempre più prepotente, l’interesse straniero (politico, geopolitico ed economico) a dominare il Mezzogiorno della Penisola italica, mentre sembra invece erroneo individuare motivazioni personali, come suggerisce l’autore riportando un episodio che coinvolse direttamente Palmerston, il Primo Ministro inglese accusato di aver finanziato la spedizione dei Mille.

In effetti una nipote di questi, tale Penelope Smyth, aveva sposato il Principe di Capua, Carlo Ferdinando di Borbone-Due Sicilie, ma tale matrimonio non fu mai riconosciuto dal fratello Ferdinando II. La mancata approvazione dell’unione (e quindi la mancata ulteriore ascesa sociale dei Palmerston) avrebbe scatenato la rabbia del politico Inglese che si era battuto in difesa di Carlo Ferdinando e che avrebbe quindi agevolato, se non architettato, nel periodo in cui era Segretario di Stato per gli Affari Esteri e propenso a destabilizzare le altre Nazioni, l’affaire delle notoriamente false lettere di Gladstone a causa del risentimento verso il monarca napoletano. Forse fu un motivo in più, ma sicuramente furono altri elementi più importanti – di carattere economico, geopolitico e soprattutto ideologico – a spingere Palmerston a farsi complice dei liberali italiani.


[1] Ibid.

[2] Giuseppe Buttà, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, II, 7; corsivo mio.

[3] Luigi Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle Due Sicilie sotto la dinastia borbonica, Napoli 1857; edizione moderna: Ripostes, Cava de’ Tirreni 2011.

[4] Le cui mendaci lettere aperte al conte di Aberdeen (1851) sono state recentemente ripubblicate, con testo originale a fronte, numerosi documenti e buona ricostruzione dell’affaire, con il titolo Lettere sul Regno di Napoli, dalle edizioni Trabant (Brindisi 2015).

[5] «La metafisica di Genovesi risultava influenzata dal razionalismo e dall’empirismo di Locke, che si risolvevano in una drastica demolizione del linguaggio e delle categorie filosofiche e teologiche tradizionali». Giulio De Martino, L’illuminismo meridionale. La tradizione filosofica del Regno di Napoli tra ’600 e ’700, Liguori, Napoli 1995, p. 90.

[6] I Borboni di Napoli…, I, 5. Il punto esclamativo è nell’originale.

[7] Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione 1860-1861, Trabant, Brindisi 2009, p. 384.

Gianandrea de Antonellis

continua

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