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La miseria a Torino prima del 1860

Posted by on Mag 10, 2024

La miseria a Torino prima del 1860

Andrea Bosio è uno storico serio, che accompagna ogni sua affermazione con ampia e solida documentazione (e quindi, state tranquilli, non lo vedrete mai nei talk show televisivi).

Ecco come nel suo Torino fuorilegge (FrancoAngeli, 2019) descrive la miseria nella capitale sabauda nell’Ottocento (nel testo ci sono alcune citazioni, che segnaliamo): “Secondo le statistiche elaborate negli anni Quaranta, nello Stato sardo vi erano circa 450.000 indigenti, ovvero incapaci di vivere con i propri mezzi e del proprio lavoro, con una proporzione di nove ogni cento abitanti, superiore a quella di Inghilterra, Francia, Austria, Spagna e Portogallo. Per quanto rapporti di questo tipo siano molto approssimativi dato lo stato delle informazioni dell’epoca, il numero non era di sicuro lontano dalla realtà, soprattutto in un paese dove la condizione sanitaria della popolazione era pessima, anche perché la superstizione spesso frenava i provvedimenti positivi come la vaccinazione antivaiolosa, ed infuriavano malformazioni o malattie endemiche come il gozzo, la tigna, il cretinismo, il rachitismo, il sordomutismo, l’epilessia e la pellagra. Per rendere l’idea della diffusione delle malformazioni nella società piemontese del tempo, basti pensare che ‘nel piccolo comune di Tigliole nell’Astigiano su una popolazione di 2435 abitanti si contavano trenta gozzuti, trentotto erniosi, venticinque pellagrosi e tredici storpi’ (come riporta Umberto Leva in L’altro volto di Torino risorgimentale 1814-1848, Comitato di Torino dell’Istituto Storia del Risorgimento, 1988). In media gli ospedali e i ricoveri di Torino riuscivano ad accogliere solo un quarto dei poveri, degli ammalti e dei mendicanti che vi facevano domanda con il risultato che la città in varie occasioni pullulava di individui ‘soliti a intrattenersi nelle principali contrade, ed angoli delle chiese, sdrajati per terra, mostrando pubblicamente ciccatrici e piaghe schiffose’ (come si rileva da Vicariato, Atti criminali, volume 86, 1826).

D’altronde non sfuggiva a nessuno la vista ‘di quelli che vanno accattando l’elemosina di notte per questa Città, de’ fanciulli abbandonati e seminudi, che dormono sotto li portici, negli aditi delle case, o botteghe, in ultimo di quelle donne che stanno ginocchione nelle contrade, velata la faccia, e che qualche volta espongono ragazzi di tenera età per commovere la pietà de’ passeggieri’ che affollavano le strade specialmente nei mesi invernali. Per la maggior parte di questi miserabili la capitale rappresentava da sempre la meta dei propri lunghi vagabondaggi stagionali’ (come riportato in Vicariato, Atti criminali, volume 79, 1822)”. Questo è, invece, il modo in cui l’agronomo genovese Giacomo Balbi Piovera (Gazzetta Agraria, 1847) descrive la situazione nel contado piemontese: “Chi percorra le campagne lontane dai grandi centri di popolazione sarà colpito dall’aspetto dei villici: le vedrà popolate da uomini, donne e fanciulli magri, gialli spossati, estenuati non già dal lavoro, ma da un regolato digiuno”.

La condizione del popolo a Torino è illustrata dallo storico piemontese Umberto Levra (nel già citato L’altro volto di Torino risorgimentale 1814-1848, Comitato di Torino dell’Istituto Storia del Risorgimento, 1988), che dice: “Il povero è parte integrante della vita sociale, rientra nel paesaggio urbano e rurale, nessuno si stupisce: tutti sono rassegnati a questa condizione, che risulta inevitabile e irreversibile. Erano sotto gli occhi di tutti la decadenza fisica dei ceti inferiori, la loro bruttezza aggiunta alla denutrizione, alla bassa statura, alle deformità, a una debolezza organica diffusa; il largo consumo di vino all’osteria (nella capitale sarda ne esistevano quasi 500) con ubriachezza ed etilismo diffusi; la forsennata passione per il gioco del lotto; gli sfibranti orari di lavoro, protratti di norma dall’alba a dopo il tramonto (mediamente da 12 a 16 ore di lavoro e si guadagnavano circa 22 centesimi al giorno) e alternati a lunghi periodi di disoccupazione passati tra le bettole”.

Ed ecco, infine, come il medico lombardo Giovanni Melchiori (in Osservazioni igieniche sulla trattura della seta in Novi, Tipografia Giani, 1845) descrive gli alloggi dei manovali: “L’abitazione del giornaliero ben rare volte è piacevole: oltre la cattiva costruzione della sua casa, v’ha la sporcizia, il sudiciume, fedele compagno della miseria, che la rende peggiore. I nostri operai tutto il giorno lasciano aperto il loro abituro, né chiudono le porte, e non vi entrano che la sera, non avendo persona da lasciarvi in custodia… Se vi entrate la sera, trovate il letto ancora scombujato, le urine nei pitali, i vasellami ricolmi d’acqua del giorno avanti, quelli che servirono a confezionare la cena ed il desinar pur anco lordi di broda e di untume; ovunque vi spira un tanfo soffocante. Nella stanza, che serve anche da cucina, trovansi più letti con le lenzuola sordide, perché manca il tempo di lavarle; i piumaccioli delle culle dei bambini ed i pannicelli imbrattati di urine e di altro. Il suolo polveroso, coperto d’immondezze, e per sovrappiù una miriade di pulci e cimici”. Ovviamente so benissimo che anche a Napoli il popolo viveva in enormi ristrettezze, ma era così in tutto il mondo. La miseria nell’Ottocento era dappertutto. Quella nella capitale francese è stata mirabilmente descritta da Eugène Sue ne I Misteri di Parigi e da Victor Hugo ne I Miserabili, mentre la miseria a Londra è stata altrettanto mirabilmente descritta da Charles Dickens e dagli altri scrittori realisti inglesi. A Londra addirittura il degrado urbano negli anni Cinquanta provocò un fenomeno quasi incredibile come The Great Stink, che rese irrespirabile l’aria in tutta la città. In quegli anni la vita divenne impossibile anche nei quartieri benestanti, che si spopolarono, e il governo fu costretto a trasferire lontano dalla capitale sia il Parlamento, sia il tribunale. A Torino e nel Piemonte, però, la miseria era veramente nera, tant’è vero che i primi Italiani a emigrare sono stati proprio i sudditi dei Savoia, come ci ricorda il noto racconto di De Amicis Dagli Appennini alle Ande.

Il primo grande flusso dell’emigrazione italiana, cominciata nel 1850 nel Nord Italia, si concluse nel 1914 con l’inizio della Prima Guerra Mondiale e riguardò 15.400.000 nostri concittadini, ma non è certo un caso che tra questi i più numerosi siano stati proprio i Piemontesi, che furono ben 1.500.000. Le testimonianze e i dati sono, quindi, molto chiari e inequivocabili: la situazione nella capitale sabauda era disperata. E io trovo scandaloso che la storia ufficiale non ne parli, anzi addirittura voglia farci credere il contrario. La verità, però, come vedete, poco per volta emerge e non sfugge certo a chi sa cercarla e vuole caparbiamente trovarla.

Enrico Fagnano

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