La “scellerata” utopia dei giacobini italiani
Il nostro leggittimismo, sanfedismo, identità insorgente e chi più ne ha più ne metta, andando in giro per l’italia organizzando convegni sul 1799 e 1860 non soltanto non lo neghiamo ma lo affermiamo con orgoglio. Questo però non ci fa essere cosi miopi da non attenzionare e approfondire chi si trova alla sponda opposta come si puo notare nell’articolo seguente.
Quando cadde la testa di Robespierre, da questa parte delle Alpi uomini e donne lottarono per la libertà e l’uguaglianza
Per ingiuriarli, quando non li arrestavano o peggio, li marchiavano con parole infamanti: «terroristi!», «esagerati!», «anarchisti!»… «giacobini!». Quest’ultimo – talvolta storpiato: «giacomini», «giacobbe»… – era l’insulto più grave. Tanto per dire, in un Vocabolario filosofico-democratico del 1799, alla voce «Giacobino» si legge: «Vocabolo energico, che in sé comprende l’ateo, l’assassino, il libertino, il traditore, il crudele, il ribelle, il regicida, l’oppressore, il pazzo fanatico e quanto sinora vi fu di scellerato nel mondo».
Erano gli anni della Rivoluzione francese, più esattamente quelli seguiti alla caduta di Robespierre, che del giacobino aveva finito per incarnare la quint’essenza. Finita pure la testa dell’Incorruttibile sotto la ghigliottina nel ’94, la propaganda aveva trasfigurato Robespierre in un «mostro», un «tiranno bevitore di sangue». Fama sinistra riverberata sul termine Jacobin (con le varianti locali, come l’italiano giacobino), divenuto dappertutto un insulto.
Eppure nel ’97, parando gli attacchi d’un Francese contro il Giornale de’ patrioti d’Italia definito «très Jacobin» (assai giacobino), il salernitano Matteo Galdi replicò – a nome suo e di «molti altri Jacobins» – ringraziandolo per il «particolare elogio» e «per l’onore che si è compiaciuto di fare», implicando la «parola Jacobin l’idea di un repubblicano ardente, in grado superlativo democratico». Lo stesso modo in cui l’intendeva il milanese Carlo Salvador, anch’egli fra i principali giacobini italiani: «Giacobini! sì, ma di questi antichi giacobini che hanno fondato la Repubblica francese. Gli intriganti, gli agenti prezzolati, gli uomini feroci hanno dipoi profanato questo nome: questa è una grande disgrazia, ma i princìpi sussistono».
Insomma: negli anni seguiti al crollo di Robespierre, Salvador, Galdi e «molti altri Jacobins» italiani rivendicavano per sé l’appellativo, ormai meramente offensivo, di giacobino. D’altronde, a quella parola (ai significati che portava con sé) parecchi italiani avevano guardato con febbrile entusiasmo già da prima dell’ascesa di Robespierre al vertice dei Jacobins parigini.
Amici della libertà e dell’eguaglianza
A parte singoli casi quali il pisano Filippo Buonarroti, precocemente coinvolto nella Rivoluzione francese, fu nel Sud della Penisola, nel Regno di Napoli, che si diffusero i primi nuclei consistenti di partigiani radicali (giacobini) della Rivoluzione. Sin dalla primavera del ’92, mesi prima che fosse proclamata la Repubblica in Francia, a Napoli si erano costituiti dei gruppi repubblicani, presto uniti in un movimento clandestino chiamato in autunno Società degli amici della libertà e dell’eguaglianza. Il nome assunto poco prima dai Jacobins a Parigi.
Grazie a un intenso proselitismo, in capo a un anno il movimento s’ingrandì sempre più, assumendo una chiara fisionomia terroristica. L’obiettivo era quello d’occupare i castelli di Napoli e assassinare i reali con alcuni ministri, rovesciando la monarchia. In sua vece sarebbe sorta a Sud una «democrazia e repubblica perfettamente popolare», che avrebbe reso gli abitanti «in tutto liberi e perfettamente uguali», abiurando fra l’altro «ogni religione».
Nel frattempo, un altro movimento clandestino si era costituito in Piemonte, con un disegno dai tratti analoghi a quello napoletano, seppur meno estremo: occupazione della cittadella di Torino, arresto del re e d’altri membri della famiglia reale, proclamazione della repubblica. Inoltre, gruppi clandestini d’entusiasti per la Rivoluzione – più o meno estesi e più o meno radicali – erano diffusi in quegli anni anche altrove: dalla Sicilia (Catania, Siracusa, Palermo) alla Repubblica di Venezia (Brescia), dalla Liguria (Genova) allo Stato pontificio (Roma, Bologna).
Tuttavia, fra il ’94 e il ’95 gruppi e movimenti rivoluzionari erano stati ovunque scoperti e brutalmente repressi, con arresti di massa e condanne a morte, alla galera, al confino. Molti fra i principali giacobini, però, riuscirono a darsi alla fuga; e furono i primi italiani che vissero in modo massiccio la condizione del rifugiato politico. Il grosso si mosse fra Nizza, Parigi, Genova e Oneglia (oggi Imperia), occupata dai Francesi nel ’94, dove confluirono in particolare piemontesi e meridionali. A capo del governo c’era Buonarroti, e fu lì che i giacobini dei vari Stati italiani iniziarono a legarsi fra loro, creando un movimento unitario.
Terminato nel ’95 l’esperimento di Oneglia, i giacobini elaborarono il disegno di un’iniziativa per la primavera dell’anno seguente. Il piano era d’avviare la rivoluzione in Piemonte, per poi estenderla a tutta l’Italia, abbattendo i sovrani assoluti e unificando l’Italia in una Repubblica democratica, fondata sulla sovranità popolare, la libertà e l’uguaglianza. Il piano era fattibile a condizione dell’appoggio militare francese e, in effetti, il governo di Parigi stava preparando un’iniziativa nella Penisola. Nondimeno, a capo dell’Armata d’Italia fu posto il giovane Napoleone Bonaparte, che decise di cambiare obiettivo deviando dal Piemonte sabaudo alla Lombardia austriaca.
Ciò scompaginò i piani dei giacobini, che protestarono duramente ma invano, mentre Napoleone entrava trionfalmente a Milano il 15 maggio del ’96. Delusi, eppure posti innanzi a un territorio italiano liberato dall’assolutismo, i rifugiati affluirono in massa nella capitale lombarda, dove si riunì il gotha del giacobinismo italiano. A varie riprese vi giunsero svariati meridionali tra cui Carlo Lauberg, Francesco Salfi, Matteo Galdi e Giuseppe Abamonti; e poi: il piemontese Giovanni Antonio Ranza e il valdostano Gugliemo Cerise, i toscani Girolamo Bocalosi e Giovanni Fantoni, il piacentino Giuseppe Poggi e il parmigiano Giovanni Rasori, i romani Giuseppe Lattanzi, Claudio Della Valle ed Enrico Michele L’Aurora. Senza dimenticare il ritorno in città d’un esule come Salvador e che, più tardi, vi giungeranno tra l’altro i rifugiati dalla Repubblica di Venezia, fra i quali Ugo Foscolo.
Da quel momento, l’avanzata francese nella Penisola fu inarrestabile: tra il ’96 e il ’99 quasi tutta l’Italia fu occupata e i governi assoluti furono trasformati in repubbliche sotto l’egida della Francia (Cisalpina, Ligure, Romana, Napoletana), oppure in dipartimenti accorpati alla Repubblica madre (Toscana e Piemonte). Era il Triennio repubblicano, a torto definito giacobino, poiché a uscirne con le ossa rotte furono proprio i giacobini italiani.
In effetti, nel Triennio la Francia non era più quella dei Jacobins, girondini o montagnardi che fossero. Sin dagli inizi, quindi, ci furono scintille tra Italiani e Francesi. Nella Milano liberata dagli Austriaci i giacobini aprirono subito una «società popolare», sulla falsariga di quelle diffuse nella Francia in rivoluzione. Erano vere e proprie assemblee, dotate d’un presidente-moderatore, articolate in comitati e animate da intensi dibattiti pubblici. Ora, dopo la fine di Robespierre quelle società erano cadute in discredito, vietate dalla Costituzione. Così, la scelta di denominare la sede milanese Società degli amici della libertà e dell’uguaglianza (il nome, ricordo, assunto dai Jacobins a Parigi nel ’92) certo non rassicurò le autorità, che la chiusero pochi giorni dopo approfittando di alcuni disordini. Partì allora un’estenuante partita che si protrasse per tutto il Triennio, con i giacobini che riaprivano caparbiamente la società cambiandole nome; e i Francesi che sfruttavano ogni pretesto per chiuderla. Ciò non impedì, comunque, un’attività intensa e strutture analoghe sorsero, man mano, sull’intero territorio italiano.
La rivoluzione per tutti
Parallelamente, i giacobini avviarono un’energica attività pubblicistica, con la stampa di opuscoli, libri, manifesti, volantini e, soprattutto, giornali. Durante il Triennio uscirono decine e decine di periodici. Non tutti giacobini, certo; ma diversi lo erano, tra i principali dei quali si affermarono il Termometro politico della Lombardia e il Giornale de’ patrioti d’Italia.
Nel giornalismo e nell’associazionismo politici i giacobini furono militanti instancabili, anche perché molti si mossero da Milano in altri luoghi, in un’opera di autentico apostolato rivoluzionario. Tutto ciò – col teatro, i pranzi per strada, le feste… – aveva fra l’altro il fine di coinvolgere il popolo nella rivoluzione, nel tentativo di creare una saldatura fra un’avanguardia giacobina perfettamente cosciente d’essere tale e masse totalmente prive di qualunque coscienza politica. Dato il contesto, il tentativo fallì miseramente nonostante gli sforzi profusi, sebbene non mancassero importanti segnali in controtendenza, come la manifestazione tenuta a Milano il 14 novembre del ’96.
La società milanese era stata riaperta in autunno e, dopo settimane di intense e partecipate assemblee, in città si diffusero voci di un’imminente invasione dell’esercito austriaco. Allarmati, i giacobini inviarono una delegazione ai Francesi, chiedendo armi; dopodiché si sparsero per la città, coinvolgendo «una forza imponente», stanziandosi poi nella società, aperta in assemblea permanente.
In quei frangenti, si presentarono alla società degli «operai», lamentando l’aumento del prezzo del pane. I giacobini riuscirono a ottenerne il ribasso e, nel clima d’entusiasmo creatosi, «una massa imponente» in corteo sfilò in Piazza Duomo. I manifestanti, urlando slogan quali «libertà o morte», sancirono l’indipendenza e la «sovranità del popolo», facendo rogare da un notaio il loro atto costituente. Ma la cosa non piacque ai Francesi, che chiusero la società arrestandone il presidente Salvador. I giacobini indissero allora una manifestazione di protesta, «accompagnati da una folla prodigiosa di popolo»: dispersi i manifestanti, i francesi arrestarono anche L’Aurora e Fantoni.
Da quel momento i giacobini maturarono un dissenso crescente; e in capo a poco tornarono alla clandestinità. O meglio: a una semi-clandestinità poiché, se continuava l’intensa attività pubblicistica e associativa, a ciò si affiancava la nascita della società segreta dei Raggi, che aveva le proprie centrali a Bologna e Milano con lo scopo di sollevare una rivoluzione italiana.
La fine cruenta del Triennio, nel ’99, segnò la sconfitta più che dei francesi (presto di nuovo in Italia) dei giacobini, a centinaia caduti in battaglia, sotto il capestro o massacrati dal popolo, che giunse persino a mangiarne le membra. Moltissimi però si misero in salvo lasciando l’Italia, e non pochi continuarono ad animare il dissenso al bonapartismo e poi alla restaurazione dell’antico regime. Riprese la lotta clandestina e, ai vertici delle società segrete come la Carboneria, ci furono anche giacobini quali Buonarroti, Salfi e il frusinate Luigi Angeloni.
La pervicace militanza di alcuni fece sì che le idee diffuse nel Triennio sopravvivessero, irrorando correnti democratiche, liberal-radicali, repubblicane e socialiste. Un vasto ventaglio ideologico –comunque a sinistra –, riflesso delle posizioni diverse che percorrevano il movimento. Non tutti i giacobini erano d’accordo sulla soluzione unitaria, essendoci pure dei federalisti; ma chiunque voleva l’unità dell’Italia e certuni si spinsero a preconizzare l’unificazione europea (L’Aurora, il bellunese Giuseppe Fantuzzi…).
Differenze emergevano anche sulla democrazia: se molti auspicavano il suffragio universale maschile, solo alcuni lo estendevano alle donne, come Galdi e Fantoni; ma se questi ne escludevano l’eleggibilità, la veneziana Annetta Vadori reclamava una parità piena. Generale era, inoltre, il favore per la democrazia rappresentativa; eppure dei gruppi (i meridionali, con altri) ritenevano necessari innesti di democrazia diretta. Né mancava chi, come il campano Vincenzo Russo, mirava all’autogoverno e alla democrazia diretta tout court.
Maggiore consenso c’era sulle libertà, cui era riconosciuto un ruolo cruciale da ognuno. S’è vista la strenua difesa delle libertà d’associazione e riunione; e i giacobini erano partigiani «dell’illimitata libertà della stampa» – ritenuta «la base fondamentale di ogni libertà» (Salfi) – nonché della libertà religiosa e d’ogni altro diritto che rendesse liberi gli esseri umani.
Tuttavia, di fronte alle misere condizioni della gran parte della popolazione, la libertà rischiava d’essere «un nome vano, un’ombra, un fantasma», come disse un Filippo Lustro intervenendo alla società di Milano. Decisivo era ritenuto, pertanto, il diritto a un’istruzione pubblica, universale e gratuita, mezzo necessario per affrancare le masse rendendole coscienti e capaci d’esercitare la sovranità popolare.
Soprattutto, a ogni modo, erano le condizioni socio-economiche a costituire un ostacolo enorme. L’assetto sociale vedeva una ristrettissima minoranza di ricchi e un’enorme maggioranza di poveri: una sproporzione inconciliabile con libertà, uguaglianza e giustizia sociale reclamate dai giacobini. Galdi lamentava che, ove «in una repubblica si vedessero uomini infinitamente ricchi e proprietari da una banda, e uomini infinitamente poveri e proletari dall’altra, non vi sarebbe più eguaglianza, non vi sarebbe più indipendenza, non vi sarebbe più libertà».
Con notevole acume, molti percepirono il rischio che, con l’abolizione della nobiltà imposta dalla rivoluzione, subentrasse al potere un’élite altrettanto ristretta ma fondata sulla ricchezza. Pertanto, scrisse Abamonti, era necessario «volere la rivoluzione per tutti, e non solamente per sostituire una classe all’altra».
A tal fine, ineludibile era il tema della proprietà. Posizioni più estreme miravano a porre un limite ai possessi (Fantuzzi) o a una redistribuzione egualitaria di essi (Russo); se non del tutto alla «comunione dei beni» (Buonarroti). Più diffuse erano le visioni di quanti, comunque, volevano un’equa distribuzione della ricchezza; e condivisa era l’idea che fosse necessario riconoscere il «diritto alla sussistenza». Lo stato doveva dare lavoro a chi non ne avesse; e a quanti non fossero abili a lavorare garantire una pensione, che gli desse i mezzi per vivere con dignità. Agli indigenti, agli invalidi e ad altre fasce deboli, inoltre, occorreva assicurare «soccorsi pubblici» in caso di malattia (medicine, ospedali…).
Notevole fu anche l’impegno femminile in quegli anni. Varie donne presero la parola per la prima volta nelle società popolari, chiedendo talvolta diritti politici e più spesso strumenti per giungere intanto a un’emancipazione civile: libertà di scelta nel matrimonio, divorzio, parità nelle successioni, istruzione uguale a quella maschile… Una donna, la napoletana Eleonora de Fonseca Pimentel, giunse a dirigere uno dei più importanti giornali del Triennio, il Monitore napoletano, prima di finire impiccata innanzi ai lazzi del popolo.
Di quel popolo che i giacobini fecero di tutto per sollevare; ma che finì per sollevarsi contro di essi. Una sconfitta cocente, dovuta a condizioni storiche complicatissime; ma forse anche al fatto che i giacobini, nell’ansia febbrile di progettare un «mondo nuovo», agitarono idee troppo avanzate, alcune delle quali tuttora irrealizzate.
Luca Addante è professore di Storia moderna all’Università di Torino. Collabora da anni con la Treccani e la Rivista storica italiana. Tra i suoi libri Eretici e libertini nel 500 italiano e Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato, entrambi usciti per Laterza.
fonte https://jacobinitalia.it/la-scellerata-utopia-dei-giacobini-italiani/