L’Antimafia dei Borbone e dell’Italia padana monarchica/repubblicana
Le TV e le agenzie pubblicitarie degli Stati continentali si sono occupati sul problema della delinquenza comune, arrivando ad affermare che esso si è affermato dalla mancanza di educazione culturale e dalla completa assenza della legalità, i quali furono causati non sempre dai popoli che di fatto vengono lasciati da soli ma maggiormente dalla politica delle élite dominanti che ricoprono varie cariche pubbliche ma, soprattutto grazie alla corruzione, continuano a svolgerle o vengono sostituiti dai loro alleati o amici di diverso partito politico.
Il trasformismo politico è l’elemento caratterizzante della tirannia elitaria e per chi ha il desiderio di proteggere i propri interessi senza contribuire al cambiamento di un determinato sistema statale. La non fiducia, al contrario, è una forma di opposizione del fenomeno citato che permette ad un individuo o a un gruppo di prendere e difendere la propria coscienza, basata sul da che parte stare e sul quale situazione si sta vivendo. Ovviamente ci possono e devono essere le idee che possono favorire la presa di coscienza, le quali possono derivare dalle tradizioni dei popoli se in tal caso le idee dei diversi partiti politici non combaciano con la realtà. I principi civili dei popoli, in quanto facente parti delle tradizioni, devono essere al centro delle leggi, dei codici e dell’esistenza dell’indipendenza territoriale. Tutt’oggi si nota che le leggi dei governi cosiddetti “democratici” hanno portato gravi risultati, determinando la crescita del malcontento, l’inflazione e le diseguaglianze di ogni genere. Ora per la nascita e la crescita della criminalità organizzata ci dobbiamo porci ad una domanda: “Chi l’ha fatta nascere?” “Perché continua a evolversi?” Ma il vero problema sta nel rispondere alle domande proposte, soprattutto a chi ha il desiderio del potere e dei soldi. Certamente saranno i popoli ad essere i principali testimoni a fornire le risposte adeguate, per il fatto che loro la realtà l’ha guardano con occhi attenti dovendo superare gli ostacoli da chi li vuole sottometterli. È necessario dare spazio ad una nuova discussione che possa conciliare con la realtà per non essere complici. La verità è crudele per chi ha la paura di perdere tutto ciò che ha rubato per sentirsi forte e prepotente, ma è sempre necessaria per non offendere i prossimi. Quindi sarebbe educato che i giornalisti pennaruli dovrebbero mettere al centro la verità anziché le menzogne propagandistiche. È un dovere degli storici di descrivere i motivi dell’esistenza della mafia da ieri a oggi.
Come ben sapete, nell’Italia di guida padana molti ascari conducono molte campagne diffamatorie contro i napolitani e i siciliani con la falsa accusa non solo di “detenere l’incapacità di cambiare le cose” ma di “essere delinquenti”. Tutto questo è soltanto opera della propaganda razzista unitaria che privilegia un solo popolo, cioè la Padania, per discriminare gli altri che, oltre ai due citati, ci stanno pure i sardi. Quanti abitanti italici hanno desiderato la pretesa unità nazionale che di fatto non avvenne e non fu accettata dalla maggioranza popolare? Sicuramente pochi, ma gli ascari sono procinti a nascondere questo fatto. Inoltre sono bravi di paragonare i problemi di giustizia, di economia e di cultura al nostro popolo, per poi denigrarlo ripetutamente. Ora ditemi se questa è uguaglianza! Ma se diamo uno sguardo sulla storia possiamo capire con chiarezza come sono andate le cose. L’origine della delinquenza comune deriva indubbiamente dalle prepotenze delle famiglie feudali esercitate dalle figure di campieri, che dal campo rurale si diffuse nei centri urbani. In Italia invece, la figura del delinquente comune nei popoli italici si affermano dal Medioevo e sono diverse tra loro, per esempio nella Milano spagnola esistevano i bravi al servizio dei baroni e a Torino dei Savoia c’erano i cocche’, il cui termine si riferisce alle bande di ragazzi, di età minorile e maggiorenne, abbandonati, che commisero atti illegali sotto la protezione degli adulti malavitosi provenienti dal quartiere Vanchiglia, dove nessun carabiniere e un soldato della Guardia Nazione ebbe il coraggio di passare per reprimere l’esistente criminalità. Ma nel Regno delle Due Sicilie la criminalità c’era nel suo interno? Certo ma era assolutamente minima vista la completa presenza delle istituzioni di beneficenza riconosciuti dalla legge regia del 10 maggio 1820, volti alla cura, all’istruzione e al miglioramento economico dei poveri abbandonati. Naturalmente c’era la camorra e i picciotti del baronaggio che, a differenza delle cocché sabaude in quanto erano divenute ì il braccio destro delle forze dell’ordine sabaude, erano dei semplici fenomeni di illegalità ma avevano poco spazio visto la buon volontà dei Borbone nella repressione del reato di usurpazione e di attività sovversive volte all’instaurazione di un governo di stile elitario. Entrambi reati furono sicuramente vietati dagli articoli del Codice penale delle Due Sicilie del 1819 ma i suoi promotori ebbero pochi appoggi da parte dei napolitani e dei siciliani, perché capivano che dietro di essi c’erano la voglia di potere e dei beni, ovvero soldi e terre, permettendoci di capire che i patrioti del Risorgimento non erano altro che dei grandi proprietari terrieri e di persone disoneste legate ai certi procedimenti giudiziari. Sotto i Borbone i delinquenti comuni e i falsi patrioti si riunirono nelle sette massoniche per favorire la propaganda del terrorismo risorgimentale, usando le ideologie politiche con la giustificazione di battersi per l’ideale unitario indesiderato. Il Procuratore del Re Pietro Calà Ulloa scrisse nel 1838 al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli che la mafia era suddivisa in “unioni e fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore e scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che è qui un possidente, là un arciprete”. La setta masso-mafiosa e l’oligarchia degli usurpatori erano pronti a realizzare i piani per sottomettere i popoli della Napolitania e della Sicilia alle loro idee utopiche per fare una dura e insensata opposizione alla dinastia dei Borbone che emanarono le riforme e realizzarono molte opere pubbliche per rendere migliori le condizioni dei bisognosi e dell’intero popolo duosiciliano. Le pretese delle rivoluzioni e della costituzione non furono atti di manifestazione della spontaneità popolare ma un tentativo di colpo di Stato per calpestare la clemenza e la legittimità popolare dei Borbone. Per fare tutto ciò gli usurpatori e i delinquenti si fidarono con la borghesia agraria e industriale, la quale diverrà anch’essa oppositrice della legittima dinastia, con l’uso della stampa clandestina e delle armi importate illegalmente dalle logge massoniche residenti negli Stati europei, in particolare in Inghilterra. Il sostegno della borghesia alle due fazioni alleate avvenne in maniera totalmente diversa: la maggior parte dei borghesi erano proprietari terrieri e dettero un notevole contributo agli usurpatori napolitani per realizzare la dittatura classista, mentre i baroni siciliani desideravano il ritorno del feudalesimo, limitato e abolito di fatto con il decreto regio del dicembre del 1841, e oltre all’aiuto della borghesia ci stavano pure gli inglesi, interessati a proteggere la loro economia imperialista per rafforzare il proprio colonialismo soprattutto sull’isola, dopo aver occupato Malta nel 1815, attraverso la strumentalizzazione classista dell’idea dell’indipendenza. Oltre al feudalismo abolito pretesero anche il diritto alla riapertura del Parlamento siciliano, fondato nel 1130 da Ruggero il normanno, anche se in realtà fu la sede dello strapotere classista, a causa del quale spinse Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia di chiuderlo invece di epurarlo. Il re si mosse a prendere tale provvedimento non solo per salvare l’isola dalla tirannia del baronaggio ma perché l’hanno richiesta una maggioranza di contadini che non vedevano con buon occhio la costituzione del 1812, poiché imposta dal plenipotenziario inglese Lord Bentinck, volta a favorire gradualmente il ruolo di proprietari terrieri ai baroni, invece di abolire al completo il feudalesimo. Inoltre essi nel 1813 istituirono le compagnie d’armi per salvaguardare le sole famiglie baronali, di cui rappresenta il primo esempio della nascita della mafia come un gruppo di giovani armati dediti alla violenza che alla sicurezza. La stessa mossa sarà compiuta con l’istituzione della Guardia Nazionale durante il disordine del 1848 e l’occupazione garibaldina del 1860. Le compagnie d’armi del baronaggio esercitavano la violenza rivoluzionaria delle sette elitarie per compiere i saccheggi e le vendette contro i nemici, in particolare nei confronti dei fedeli dei Borbone, senza sapere che quei cosiddetti “nemici” fossero veri e semplici innocenti, come il martirio di Giovanni Vico, il commissario regio di Catania che, per impedire la strumentalizzazione del popolo siciliano dalla congiura filo-baronale con al capo Mario Adorno durante la colera del 1837 (il cui evento è stato usato dai baroni per organizzare una rivolta del disordine ma fallirà in seguito), viene ucciso dagli istigatori criminali con calci e pugnalate. In seguito all’arresto dei popolani istigati, Ferdinando II concesse la grazia ai primi, tranne ai capi della fallita rivolta in quanto colpevoli di aver spinto gli isolani a spargere il sangue. Questo è uno degli esempi della collusione politica-mafia durante il terrorismo risorgimentale ma ci possono essere altri fatti verificati non solo in Sicilia ma anche nella Napolitania con i seguenti fatti: l’uccisione di Cesare Balsamo e Rosa Ferretti, due persone innocenti uccisi dalla banda criminale di Carlo Pisacane durante la fallita spedizione del 1857 per il fatto che il primo si oppose con coraggio al tentativo di invasione armata dei delinquenti liberati e la seconda di voler lavorare nei campi in maniera pacifica, ma successivamente ad entrambi è stata fatta giustizia con l’intervento della popolazione di Ponza nella cattura e nello scontro di pochi delinquenti e provocatori e del loro capo Pisacane, il quale si suiciderà; Il terrorismo di Don Antonio De Luca e del suo alleato criminale Antonio Galotti a Cilento nel 1828 e di Costabile Carducci nelle Calabrie del 1848, basato sul saccheggio e sulle uccisioni dei cittadini non desiderosi di seguirli per non voler supportare la loro strategia di terrore; Il massacro dei fedeli dei Borbone a Napoli da parte delle camorristiche “guardie cittadine” comandante dal Salvatore de Crescenzo sotto la protezione del complice Liborio Romano avvenuto tra il settembre del 1860, e successivamente il 16 luglio 1861 verrà ucciso Ferdinando Mele da parte di Nicola Ajossa per prendere il suo posto; Il ferimento di Annunziato Paviglianiti, un medico penitenziario candidato alle elezioni comunali di Reggio Calabria del 1869 che, successivamente, si concluse con l’ingiusto scioglimento del Comune per giustificare l’atto terroristico commesso dal mafioso Francesco De Stefano, assoldato dai complici cavouriani per impedire il desiderio della popolazione per il ritorno della legittima dinastia, visto che l’innocente Paviglianiti faceva parte di una lista appoggiata dal clero, dai borbonici e dal ceto popolare; L’uccisione dei preti calabresi Don Antonio Polimeni e Don Giorgio Fallara nell’agosto del 1862, residenti a Ortì (RC), con la colpa di aver sporto la denuncia contro Domenico Chirico alla polizia duosiciliana per la minaccia del pizzo, la quale provvide ad arrestarlo subito ma fu liberato dai mercenari di Garibaldi, avendo la possibilità di vendicarsi contro i due innocenti…..continua
Antonino Russo