L’ASSEDIO DI GAETA E LA RESISTENZA DI FRANCESCO II
Il 27 dicembre scorso ricorreva l’anniversario della scomparsa dell’ultimo re di Napoli, Francesco II, morto in esilio ad Arco di Trento nel 1894. Qualcuno ha tentato di ricordarlo segnalando la ricorrenza su Fb.
A Gaeta il 13 febbraio 1861, Francesco II di Borbone si arrese definitivamente ai bombardamenti dell’esercito sabaudo al comando del generale Enrico Cialdini. A Gaeta si è consumata l’ultima resistenza dei fedelissimi del Regno delle Due Sicilie attorno ai due giovani sovrani di Napoli. Gigi Di Fiore nel suo “Gli ultimi giorni di Gaeta. L’assedio che condannò l’Italia all’unità” (Rizzoli, 2010) ricostruisce quasi ora per ora l’assedio brutale dell’esercito piemontese che pose fine a un conflitto tra italiani, con paziente lavoro di analisi e studio di numerosi documenti rintracciati tra gli archivi.
Il testo si occupa esclusivamente dei 102 giorni dell’assedio e della difesa della fortezza. Da una parte un esercito agguerrito che utilizza cannoni a lunga gittata (i Cavalli), dall’altra una difesa che utilizza cannoni antiquati che non riescono a colpire il nemico. Di Fiore in questo lungo racconto, a tratti monotono, utilizza termini tecnici militari relativi al corpo dell’Artiglieria e del Genio militare dei due eserciti. Un testo quasi tecnico che potrebbe essere apprezzato da chi conosce l’attività militare degli artiglieri e del genio.
Infatti, Di Fiore descrive scrupolosamente la preparazione del terreno da parte dei Genieri dell’esercito piemontese che avevano l’obbligo di conquistare al più presto la fortezza. Gran parte dei lavori sono stati eseguiti di notte, al buio, sotto la pioggia e in mezzo al fango. “L’arma del genio fu impegnata intensamente per cinquanta giorni, sotto una pioggia quasi continua”. Il primo ministro Cavour aveva fretta, la diplomazia europea non si poteva permettere un sovrano sotto assedio.
Pertanto, a Gaeta si compì il destino militare e politico del Regno delle Due Sicilie. Sostanzialmente in soli sei mesi si sono succeduti, “Ambiguità, maneggi diplomatici, finanziamenti occulti favorirono l’annessione (come sempre la definì anche Cavour) di un regno di 9 milioni di abitanti al Piemonte, che si affrettò a estendere il suo Statuto Albertino, le sue leggi, i suoi codici e la sua organizzazione burocratica centralizzata di ispirazione francese in tutta l’Italia che nasceva”.
Francesco II per evitare lutti e distruzione alla sua capitale, il 6 settembre 1860 decise di lasciare Napoli per affrontare i garibaldini tra i fiumi Volturno e Garigliano a ridosso delle fortezze di Capua e Gaeta. Il re chiamò a raccolta i militari a lui fedeli e con 50.000 uomini organizzò la resistenza, cercando di riconquistare il Regno. “Non fu una fuga, ma una decisione strategico-militare e politica”, precisa lo storico.
Di Fiore evidenzia alcune caratteristiche di questo conflitto: innanzitutto si tratta di una una vera e propria guerra civile, quindi un conflitto tra italiani. Una guerra tra l’altro, mai dichiarata da parte del Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele. La stragrande maggioranza dei soldati napoletani accolsero l’appello del re, al contrario dei tanti alti ufficiali che passarono con l’esercito sabaudo. “Furono l’alto senso dell’onore e l’amore per una patria che stava morendo a spingere i soldati napoletani a restare al loro posto, con il loro re legittimo”.
In quei mesi i soldati di Francesco II riuscirono a dimostrare il loro valore prevalendo sui garibaldini a Caiazzo, Triflisco, Roccaromana, Sant’Angelo. Tra l’altro, sul Volturno i combattimenti furono a lungo incerti. Ancora i Borboni del generale Ritucci potevano avere la meglio sui garibaldini aiutati dai “volontari” dell’esercito piemontese. Poi dal 12 novembre 1860 tutto lo Stato borbonico con l’esercito si concentrò a Gaeta, abbandonando la resistenza in campo aperto e comincia l’assedio. Con Francesco II gli ufficiali fedeli, erano quasi tutti in età avanzata, “gente ormai con pochi stimoli, scarsa intraprendenza e motivazioni quasi inesistenti. Anche loro erano l’immagine di un Regno al declino”. Tra i comandanti della piazza, tutti settantenni, si possono fare i nomi di Ritucci, Salzano e Vincenzo Sanchez de Luna, Francesco Milon, ma forse l’unico che aveva voglia ancora di combattere era il generale Beneventano del Bosco, l’eroe di Milazzo. All’inizio dell’assedio c’era troppa gente nella piazza, tra ufficiali e soldati, e duemila prigionieri nemici.
Poi Pietro Quandel nel suo diario militare, riporta il numero degli uomini a Gaeta: 610 tra ufficiali e impiegati, 11.916 soldati. Gli altri 24.000 soldati borbonici furono liberati dal loro giuramento militare. Quasi tutti rimasti senza casa e lavoro, degli sbandati, senza patria accolti con diffidenza anche nei paesi d’origine. Certamente lo Stato delle Due Sicilie non era ancora morto, ma l’impresa era disperata, Francesco aveva poche speranze di essere aiutato dalla diplomazia europea. L’unico era Napoleone III con le sue navi nella rada di Gaeta ma era molto indeciso. Le sette navi francesi continuavano a dare respiro alla difesa di Gaeta e soprattutto impedivano il blocco navale totale del golfo e i bombardamenti dalle navi piemontesi di Persano. Le rivendicazioni disperate di Francesco II non ebbero seguito: “non riusciva a darsi pace per una rivoluzione che considerava imposta dall’alto, estranea al suo popolo che l’aveva voluta né appoggiata”. In modo netto scrisse: “Non sono i miei sudditi, che han combattuto contro di me, non mi strappano il Regno le discordie intestine; ma mi vince l’ingiustificabile invasione d’un nemico straniero”. Molto è stato scritto sul comportamento dell’ultimo re di Napoli, in molti lo hanno considerato inadeguato, timoroso, indeciso, poco intraprendente nei momenti decisivi, forse doveva essere più spregiudicato. Per esempio doveva liberarsi molto prima di tutta quella schiera di traditori che gli stavano vicino a cominciare da quel Liborio Romano.
Sul fronte piemontese, il comando è stato affidato al generale Cialdini coadiuvato dai generali Menabrea, Leopoldo Valfrè di Bonzo, Carlo Piola Caselli, Manfredo Fanti e tanti altri. I soldati erano 17.000. Pochi conoscevano le Due Sicilie e i cibi che avrebbero trovato. Di Fiore rileva che i generali piemontesi trovarono un aiuto inaspettato in un ex ufficiale napoletano, passato all’esercito piemontese, si tratta di Giacomo Guarinelli che aveva fatto i lavori di ristrutturazione della piazzaforte, pertanto conosceva a memoria luoghi e segreti della piazza.
Il 3° capitolo (“Tra i napoletani assediati”), Gigi Di Fiore racconta la vita dei soldati napoletani e della popolazione civile all’interno della fortezza. Molto è stato ripreso dalla testimonianza del cappellano militare Giuseppe Buttà, autore di un celebre libro, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, (Bompiani 1985, ristampa dell’edizione napoletana del 1882).
Molti dei soldati napoletani importava essere lì. Si facevano poche domande, l’unica cosa che contava, “era la fedeltà al re, che significava rispetto dei giuramenti militari e della difesa della nazione napoletana. Chi era con Francesco II considerava ancora l Due Sicilie la sua vera patria e combatteva senza calcoli opportunistici”. Naturalmente a Gaeta oltre al re c’era la giovane regina Maria Sofia von Wittelsbach, sorella di Elisabetta detta Sissi, futura imperatrice d’Austria. Ma anche la regina madre Maria Teresa, vedova di Ferdinando II di Borbone, il padre di Francesco II. I fratelli del re, insieme alle quattro principesse. Di Fiore polemizza con la leggenda veicolata dai giornali piemontesi, dove si sosteneva che i piemontesi stavano facendo una guerra per cacciare gli stranieri dall’Italia. Ma in realtà su 11.916 soldati e 610 ufficiali presenti a Gaeta a inizio assedio, i veterani svizzeri, gli stranieri, erano solo 720 soldati con 10 ufficiali. Una percentuale ridicola. “A difendere l’ultimo pezzetto delle Due Sicilie, invece, c’erano soprattutto napoletani, calabresi, siciliani, abruzzesi, pugliesi, lucani. Meridionali, figli di quelle terre che volevano proteggere”. Alla propaganda del Regno sardo rispondeva quella napoletana, abbastanza scarsa, così nasce “La Gazzetta di Gaeta”, pubblicata fino al febbraio 1861.
Per quanto riguarda la popolazione di Gaeta erano tremila, che rischiavano in continuazione la loro vita come i militari, con tutte le difficoltà a trovare da mangiare e spostarsi nella città. Molti hanno preferito allontanarsi, facendo la fila nel porto.
Anche Di Fiore sottolinea l’importanza della presenza della giovane Maria Sofia a Gaeta, rispettata dai soldati napoletani, considerata l’eroina di Gaeta che si prodigava per aiutare i feriti e dare coraggio ai combattenti. “Con la sua presenza accanto al marito, sotto le bombe, la regina riusciva ad animare l’immaginazione e i sentimenti della gente in ogni parte d’Europa. Al confronto la ‘buona causa’ piemontese ne usciva ridimensionata […]”.
Il testo di Di Fiore racconta le difficoltà dei soldati sotto le bombe dell’esercito attaccante che non dava tregua ai difensori della piazzaforte. La vita difficile nelle casematte tra le macerie dopo le fragorose esplosioni delle bombe. Nelle settimane più critiche tra gennaio e febbraio, ogni quartiere di Gaeta rimase esposto alla furia delle bombe, anche i civili non vennero risparmiati. “Non c’era scampo, non c’era rifugio”. Il bombardamento più devastante è stato quello che ha fatto saltare in aria il deposito della Batteria “Sant’Antonio”, dove erano ammassati ben 7.000 chili di polvere da sparo e 40.000 cartucce da carabina. Sono rimasti uccisi almeno quattrocento soldati e oltre un centinaio di feriti, distrutte anche le case vicine. In pochi si salvarono.
Gaeta agonizzava anche perchè le epidemie imperversavano, in particolare il tifo mieteva vittime in continuazione. Ormai era la fine, il re insieme al suo Stato maggiore, furono costretti a prendere la decisione della resa. Una lettera dell’imperatrice Eugenia, consorte di Napoleone III, a Maria Sofia, ha convinto i due giovani sovrani ad arrendersi e imbarcarsi sulla nave che li porterà a Civitavecchia e poi a Roma da Pio IX in esilio. Il 14 febbraio 1861, Francesco lasciò la terra dove aveva sempre vissuto, non vi sarebbe più tornato fino al 1984, quando i suoi resti, con quelli della moglie Maria Sofia, vennero trasferiti a Napoli per essere sepolti nella Chiesa di Santa Chiara, il Pantheon dei Borboni.
DOMENICO BONVEGNA
fonte