LE TRE GIORNATE DI NAPOLI 21-22-23 GENNAIO 1799
Nel dicembre del 1798 l’esercito rivoluzionario francese, dopo aver deposto e imprigionato il papa, partì alla conquista di uno dei regni più ambiti, quello di Napoli. L’Inghilterra voleva impegnare i Francesi in questa invasione per potersi riorganizzare nella guerra sulla terra ferma dopo la vittoria in mare ad Aboukir. Il capo del governo Acton convinse re Ferdinando IV a schierarsi dalla parte degli alleati antifrancesi e l’intero esercito napoletano salì al nord per combattere oltre i confini al comando del generale austriaco Mack. Naturalmente le forze occulte che manovravano il tutto tenevano ben presenti alcuni obiettivi, il principale dei quali riguardava i due regni legittimamente retti da Ferdinando di Borbone (IV a Napoli e III a Palermo). Essi dovevano essere sconquassati e indeboliti per mutarli in vassalli di Parigi o Londra, secondo chi avrebbe alla fine prevalso. Per tale motivo al duce straniero Karl Mack von Leiberich questi poteri occulti riuscirono a fare assegnare degli aiutanti di campo che fungevano anche da interpreti tra il tedesco e il napolitano. Il comprovato valore strategico del feldmaresciallo fu quindi travisato con equivoche disposizioni alle truppe che vennero agevolmente divise e sbaragliate dall’armata di Championnet. Acton subito colse l’occasione per invitare il re ad abbandonare la capitale peninsulare e rifugiarsi nell’altra insulare in Sicilia. Nonostante forti e vibranti manifestazioni popolari e militari che incitavano alla resistenza nella città sebezia, Ferdinando partì con la corte e l’esecutivo il 22 dicembre lasciando quale vicario generale il principe Pignatelli Strongoli. Gli agenti britannici di Acton approfittarono dell’opportunità per affondare la flotta napoletana che con tanti sforzi si era riusciti a varare con il pretesto di non farla cadere in mano nemica (ma non poteva salpare con il re?).
Se l’esercito napoletano si era sfaldato nello stato pontificio quando rientrò nel suolo patrio riprese ardore anche per l’appoggio immediato e spontaneo della popolazione. Dal Tirreno all’Adriatico civili e militari nel nome di Re Ferdinando ripresero le armi infliggendo seri danni agli invasori. Il primo fu Fra Diavolo ma seguirono altri famosi come il duca di Roccaromana, Mammone, Giambattista Rodio (ex giacobino pentito), Giuseppe Pronio (Abate). In quel periodo nacque la celeberrima lotta popolare (detta poi guerriglia per il suo successo in Spagna) perché fatta, in difesa della patria invasa, da eserciti “non regolari” formati da civili, donne, religiosi, ex militari sbandati, legittimisti stranieri, tutti perfidamente definiti, per confusa semantica, briganti.
Championnet decise abilmente di dover prima prendere Napoli e poi soggiogare il regno. Così diresse l’armata sulla capitale eludendo i flebili e assurdi tentativi più che altro diplomatici di Mack e Strongoli di rallentare l’attacco.
Con i soldati regi disciolti, con il re costretto a trasferirsi, con le residue autorità accondiscendenti, con i nobili “francesizzati”, dopo ripetuti e vani tentativi di essere ascoltati per la difesa della capitale il popolo si organizzò.
Già direttamente al Re la Lazzaria aveva offerto il suo appoggio per salvare il trono, quindi viepiù in sua assenza fu rispolverata la prammatica carolina che cedeva i poteri al popolo in assenza del sovrano. Come consuetudine i Sedili si riunirono nel convento di San Lorenzo deliberando la difesa ad oltranza della capitale dalle orde francesi in arrivo.
I popolani s’impadronirono delle porte, delle fortificazioni e delle armi perseguitarono i filo giacobini locali, traditori della Patria Napolitana. Anche le strade d’accesso lato nord furono presidiate da Capodichino a Poggioreale.
Domenica 20 gennaio al Duomo una folla immensa giurò a San Gennaro di offrire la propria vita per la difesa della capitale, adottando una bandiera nera inneggiante al santo patrono.
La mattina del 21 quasi trentamila francesi partirono da Pomigliano, rasa al suolo per incutere terrore all’hinterland partenopeo e prevenire soccorsi alla capitale. Diviso in quattro colonne l’esercito rivoluzionario transalpino investì Capodimonte, il Carmine, Porta Capuana, tenendo in riserva il resto dei soldati.
Il furore dei francesi fu terribile ma i Lazzari, guidati da capi improvvisati, spesso autoelettisi sul campo (come Michele Marino detto ‘o pazzo, De Simone, Pagliuchella, Paggio) e coordinati dal principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, furono sostenuti ormai da tutti gli abitanti, compresi i soldati regi sbandati, invitati al grido di “SERRA, SERRA”, e la lotta fu asperrima frenando l’impeto degli invasori. Combattimenti spaventosi si accesero ai varchi della città come il castello del Carmine, Ponte della Maddalena, Porta Capuana.
L’accesso settentrionale a Napoli è senza dubbio Porta Capuana dove il nerbo dell’armata straniera si diresse dopo aver superato la tenace resistenza a Poggioreale. La carica alla baionetta non atterrì i lazzari che ostacolarono l’avanzata in ogni modo. Addirittura i mucchi di cadaveri napolitani avanti alla porta monumentale servirono da trincea per rintuzzare i ripetuti assalti. I battaglioni del gen. Guillaume Philibert Duhesme furono bloccati avanti all’arco per ore e rischiarono grosso quando altri popolani sopraggiunsero di rinforzo. Lì prevalse l’arte guerresca del nemico che attirò in una trappola i napolitani riuscendo alla fine a entrare in città con immediato incendio e spargimento di sangue per tutti i disgraziati che si trovarono in zona, anche non combattenti e nelle proprie case, compresa la chiesa e il convento presso le mura. Era ormai notte in quel tristissimo lunedì ma i Lazzari respinti si barricarono soltanto attorno al varco conquistato dai francesi.
Altro punto delicato della difesa fu il Ponte della Maddalena che sopravanzava il fiume Sebeto, protezione naturale della città. Fu il miglior generale francese, il giovanissimo François Étienne Christophe Kellermann, a dover pugnare assai duramente con i Lazzari, spronati dalla statua di San Gennaro che sembrava sfidare il male della rivoluzione con la sua mano minacciosa. Con l’arrivo delle riserve i Francesi passarono nello stesso giorno il ponte ma furono subito impegnati in altri combattimenti al Mercato.
Martedì 22 si aprì quindi con la capitale invasa in più zone ma con un ulteriore vantaggio per i francesi. Infatti, i giacobini traditori della patria e del popolo napolitano erano riusciti ad impadronirsi di Castel Sant’Elmo e dei suoi cannoni e, seppure in pochi e probabilmente con l’aiuto anche di qualche loro donna che poi si vanterà dei loro misfatti, presero di mira la Lazzaria. Con i Francesi di fronte e i giacobini alle spalle i Napolitani non deflessero e disputarono vicolo per vicolo, casa per casa, palmo per palmo il terreno ai rivoluzionari. Fu una giornata apocalittica per gli abitanti di Napoli. Tra via Foria, Largo delle Pigne, via Chiaja, il Mercato si accesero furibonde mischie con i poveri lazzari che tenevano testa al più forte esercito del tempo con i suoi migliori generali a comandarlo.
I terribili echi della battaglia di Napoli erano però giunti agli abitanti dei dintorni che si stavano organizzando per marciare in aiuto della capitale. Fu quindi per l’invasore una fortuna che il 23 la città fosse totalmente espugnata con la fine delle ultime resistenze attorno ai castelli.
Nacque allora lo stato fantoccio della repubblica partenopea con i traditori che avevano aiutato lo straniero, la resistenza si spostò immediatamente fuori della capitale perché i regnicoli non si arresero mai e i Lazzari si ritirarono nell’ombra per prepararsi alla riconquista del cardinale Ruffo.
Vincenzo Gulì