Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’idolatria del nuovo nell’estetica contemporanea

Posted by on Lug 28, 2023

L’idolatria del nuovo nell’estetica contemporanea

[…] gli uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse, ed è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano.

Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 21

Premessa

Il problema dell’arte contemporanea – o, più in generale – di che cosa possa essere considerata arte, esiste da secoli e numerose sono state le definizioni proposte. «Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace» è, in estrema sintesi, una definizione soggettiva della percezione del bello che si può far risalire ad Immanuel Kant ed alla sua Critica del giudizio, mentre Benedetto Croce definiva l’arte «quello che tutti sanno che cosa sia», facendoci comprendere come l’arte non possa essere tanto definita razionalmente, quanto sentita spiritualmente.

Tra tutte le definizioni di arte, quella che preferisco è di S. Tommaso d’Aquino, il quale sostiene che il «bello è ciò che visto, piace». Attenzione: sembra una definizione banale e scontata, ma non lo è. Non dobbiamo prenderla alla lettera, ma dobbiamo andare “oltre la lettera”. Vediamo in che senso.

San Tommaso – riferendosi all’arte plastica – dice che il bello per piacere deve essere visto. Egli in realtà intende dire che il bello deve porsi dinanzi allo sguardo, il che non è affatto scontato; ed ecco perché la definizione di san Tommaso è molto profonda e per nulla superficiale. Dunque il bello deve porsi dinanzi allo sguardo, cioè non può esserci bello che rimanga solo nel pensiero, che scaturisca dall’immaginazione conservandosi solo nell’immaginazione. Il bello, seppur pensato e in un certo qual modo “prodotto” dal genio dell’artista, deve fuoriuscire dall’immaginazione per concretizzarsi e porsi dinanzi allo sguardo di ogni uomo.

Ma – e qui veniamo ad una questione molto importante – per far questo, il bello deve riconoscersi nella dimensione dell’oggettività, cioè deve esprimere qualcosa che non solo può essere visto ma anche riconosciuto. Il participio passato “riconosciuto” va inteso in senso etimologico: “ri-conosciuto”, cioè “nuovamente” conosciuto. Insomma, lo stupore dinanzi alla bellezza deve essere già dentro il patrimonio della propria conoscenza. Ciò vuol dire che non si può giudicare bello ciò che è pura astrazione, intendendo per astrazione quel delirio immaginifico che non ha nessuna corrispondenza con i canoni della realtà, anzi che pretende stravolgere questi canoni.

Dunque esiste una oggettività dell’arte, una sua riconoscibilità, che non può essere ridotta semplicemente ad un soggettivo «mi piace» (al sadomasochista, indubbiamente, piace frustare o essere frustato: vogliamo considerarla una “forma d’arte”?).

Ma se in passato la percezione dell’arte era pressoché comune, era accettata da tutti la divisione tra arte e mera tecnica, con l’avvento dell’era contemporanea tale individuazione crea una serie di problemi.

Proviamo dunque a passare in rassegna gli aspetti dell’arte contemporanea nelle varie forme espressive, in particolare nella musica, nelle arti figurative e nella letteratura.

La musica contemporanea

Ricordate il film di e con Alberto Sordi Le vacanze intelligenti (terzo e ultimo episodio di Dove vai in vacanza?, 1978) in cui due negozianti romani sono costretti dai figli a visitare la Biennale di Venezia e ad assistere, durante la loro tappa fiorentina, ad un concerto di musica contemporanea? Beh, a parte la deliziosa – ma anche feroce – presa in giro dell’arte contemporanea, assolutamente incomprensibile non soltanto ai due spaesati fruitori, ma anche alla stragrande maggioranza degli spettatori, l’episodio in questione è uno dei pochi casi in cui in un film è presente la musica sperimentale contemporanea.

Infatti l’industria cinematografica, per questioni di “cassetta” è molto attenta alle vere esigenze del pubblico, evita di proporre soluzioni estreme anche dal punto di vista della colonna sonora, tanto che si può affermare che la vera musica “classica” (tecnicamente si dovrebbe dire: seria, ma usare il termine classica – che dovrebbe indicare a un dipresso quella del Settecento – ci permette di intenderci subito, mentre ragionare in profondità su questi termini ci porterebbe troppo lontano), dicevo che la vera musica “classica” dei nostri giorni non sia quella sperimentale, vale a dire le dissonanza alla Giacomo Manzoni, alla Bruno Maderna, alla Karlheinz Stokhausen, bensì quella prodotta dai compositori di musica da film.

Non è un caso che la musica contemporanea colta (scritta appositamente per il film o ripresa da altre composizioni) venga utilizzata all’interno del film quasi esclusivamente per sottolineare stati d’angoscia…

Naturalmente ci sono le eccezioni: ad esempio il film di Marco Bellocchio La visione del sabba (1988), la cui intera colonna sonora, composta da Carlo Crivelli, era vera e propria musica contemporanea – e non è un caso che non sia entrata nella memoria collettiva, pronta invece a recepire altro tipo di colonne sonore, quali quelle di Nino Rota, di Ennio Morricone, di Maurice Jarre, di Roque Baños, etc. certamente molto più piacevoli all’ascolto. Del film 2001. Odissea nello spazio tutti ricordano bene le meravigliose musiche degli Strauss (Richard e Johann jr.), molto meno quelle di György Ligeti. Del resto, nessuno sentirà mai un operaio cantare lavorando, anziché una canzone napoletana o un’aria d’opera ottocentesca, il Canto sospeso di Luigi Nono o una Stanza di Luciano Berio e non so quanti di noi, sotto la doccia, abbiano intonato Ombre. Alla memoria di Che Guevara di Giacomo Manzoni…

«Ma la maggior parte delle persone è ignorante – dirà qualcuno – non si può pretendere che le masse seguano le avanguardie artistiche più estreme!». Allora vorrei fare un esempio che riguarda non le “masse”, la gente comune (quel “popolo” per cui pretende di scrivere la maggior parte degli artisti contemporanei, che si è sempre dichiarata di sinistra, che ha intitolato le proprie composizioni a Che Guevara e a Robespierre – mi riferisco a due opere del citato Giacomo Manzoni, ma potrei continuare a lungo l’elenco), bensì il pubblico degli “specialisti”. A Milano, nel mondo musicale, lo status symbol culturale più chic, più esclusivo, non è l’abbonamento alla Scala (che semmai è lo status symbol economico più in vista; ma chiunque, in teoria, può decidere di investire una determinata cifra e riservarsi un posto al massimo teatro milanese: sicuramente non troverà difficoltà alcuna, perché la richiesta non è altissima, proprio a causa dei prezzi), bensì l’abbonamento alla stagione della “Società del Quartetto”, nata a fine Ottocento proprio per contrapporsi al dilagare della mania per l’opera lirica, considerata a suo tempo troppo “popolare”.

L’aristocratica “Società del Quartetto” è tuttora “aristocratica”: ogni anno (almeno negli anni Ottanta del Novecento), quando si aprivano le iscrizioni alla nuova stagione, c’era una fila formatasi fin dal giorno prima per accaparrarsi i pochi abbonamenti di coloro che non lo avevano rinnovato (ai concerti si accedeva solo mediante abbonamento). Dunque nella Milano negli anni Ottanta, anche per accontentare coloro che non riuscivano ad abbonarsi alla “Società del Quartetto”, sorse una simile iniziativa dedicata, anziché alla musica da camera, a quella contemporanea: “Musica del nostro tempo”. Naturalmente, non si raggiungeva mai il “tutto esaurito” e così era più semplice accedervi. Non dimenticherò mai quanto accadde a uno di questi concerti.

Il programma era pianistico: iniziava con un brano del Catalogo degli uccelli di Oliver Messiaen – e fin qui niente di particolarmente raccapricciante – ma proseguiva con un incomprensibile, lunghissimo brano di Pierre Boulez, grande direttore, ma non altrettanto grande compositore, caratterizzato (si leggeva sul programma di sala) dall’essere stato scritto “a colori”, in rosso e in blu. Stava poi all’interprete basarsi su un colore piuttosto che sull’altro. Le capacità del pianista erano eccezionali e, nonostante il fastidio che dava l’ascolto di una musica apparentemente senza capo né coda, al termine all’esecutore fu tributato un lunghissimo applauso, non altissimo ma costante, che non terminò fino al terzo rientro dell’artista in scena ed all’accettazione della richiesta di un bis. Il pianista fece cessare gli applausi e quindi disse: «Come bis, pensavo di riproporre una sezione del brano di Boulez, che io ho interpretato privilegiando il rosso, però questa volta privilegiando il blu». Dalla platea si udì un disperato: «Nooo!» e ci fu qualche riso fra gli astanti. Sorrise anche il pianista, che annunciò un brano di Liszt. Al termine l’esplosione degli applausi fu irrefrenabile, tanto da interrompersi solo quando fu annunciato un secondo bis, questa volta dedicato a Chopin, a cui il pubblico decretò un vero e proprio trionfo. Se ci fosse stato un ulteriore pezzo, magari di Bach, probabilmente “se ne sarebbe caduto il teatro”.

A chi veniva tributato quello scrosciante applauso? All’interprete o non piuttosto all’autore? Perché prima si era avuto un applauso continuo, ma freddo, mentre poi, dopo i due brani romantici, era esplosa anche l’emozione, non soltanto la razionale ammirazione per le capacità esecutive dell’interprete? E – voglio ricordarlo – si trattava di una platea di abbonati ai concerti di “Musica del nostro tempo”, quindi abituata ad un certo tipo di arte, non di un pubblico generalista. Evidentemente, perché la musica romantica (come quella classica propriamente detta, come quella barocca e via retrocedendo nel tempo) parla al cuore e non solo al cervello (posto che uno Xenakis o uno Stokhausen riescano a farsi intendere dal cervello).

L’arte figurativa contemporanea

Passiamo all’arte figurativa. C’è una famosa vignetta di Giovanni Mosca (1908-1983), presente nella sua deliziosa Storia d’Italia in 200 vignette (Rizzoli, Milano 1975) – ma ritenuta dal suo autore tanto importante da essere riportata anche nella successiva Storia del mondo in 200 vignette (Rizzoli, Milano 197?) – in cuiuna guida turistica, mostrando un’opera astratta di Henry Moore (1898-1986) esposta su un ponte fiorentino, afferma: «La parte più interessante di questa scultura consiste nel foro centrale, che permette di ammirare la cupola del Brunelleschi».

Abbiano parlato di Giacomo Manzoni (che non era parente del grande Alessandro, ma nipote del simpaticissimo Carlo o Carletto, ingiustamente dimenticato scrittore umorista): ora passiamo ad un altro Manzoni, Pietro (lui sì, discendente di Alessandro), celebrato artista figurativo. Il Sole24Ore, se la memoria non m’inganna in un numero dell’allegato “Domenica” dell’agosto o settembre 1990 – stiamo parlando del massimo giornale economico italiano, non di un foglio qualunque – valutava a ben 20 milioni di lire la celebre opera “sterco d’artista” (il titolo in realtà non è proprio sterco, ma preferisco edulcorare…).

A questo punto è lecito chiedersi, pensando alla nostra vita passata: ma quanti miliardi abbiano letteralmente gettato nel gabinetto, quando invece di raccoglierli e trasformarli in opere d’arte, abbiamo tirato lo sciacquone?

Venti milioni di oltre trenta anni fa, che ancora adesso si rivalutano: dieci anni fa, lo scorso 26-27 novembre 2013 – la fonte è sempre il settimanale “Domenica” del Sole24Ore –, una opera minore di Manzoni, Pacco in carta di giornale, cm 45×45, è partito in un’asta da Sotheby’s a Milano dalla stima di 120.000-180.000 euro. Si trattava proprio di un pacco involto in un giornale… 120 mila euro! Come è possibile, ci si può domandare?

Vediamo come si valuta un’opera d’arte – o almeno come la valuta la galleria Cannaviello di Milano, una delle più quotate nell’ambito della ricerca e della promozione dell’arte contemporanea. Ad ogni artista viene assegnato un “moltiplicatore” denominato “K” che indica il valore del singolo artista. Più alto è il fattore “K” (un po’ inquietante questo nome: fa pensare al Fattore K della guerra fredda, oppure al nome del signor K., il protagonista del Processo di Franz Kafka…), maggiore è la quotazione di partenza. Per l’olio su tela ed il multi materiale, un esordiente parte generalmente da 1 o da 0,50, un artista affermato può valere 10 o 20.

Il fattore “K” è un moltiplicatore, dicevamo, che deve essere applicato al semiperimetro dell’opera. Dunque si misurano in millimetri i due lati adiacenti del lavoro, si sommano e si moltiplicano per il fattore “K”. Il risultato è la quotazione in euro. Un quadretto di 20×30 cm – all’incirca un foglio di carta da lettera – vale quindi, per un esordiente, 500 euro (le misure, ricordo, sono in millimetri: 200 mm + 300 mm).

In caso di un’opera tonda, anziché il semiperimetro (diametro per “pi greco” diviso due), avrò diametro per due: ne risulta quindi che è più conveniente comporre opere tonde…

Ma torniamo al classico “quadro” (o rettangolo), valutato in base al semiperimetro. Salta immediatamente al pensiero che, poiché ci si basa sul semiperimetro e non sull’area, un quadro grande il doppio non valga il doppio, ma un po’ di meno. Ragionando in centimetri, ad esempio due lavori 20×20 raggiungono un semiperimetro totale di 80, mentre se uso una tela di dimensioni doppie – 20×40 – raggiungo un semiperimetro di soli 60. quindi mi converrà lavorare su due opere singole piuttosto che su un’unica opera di dimensioni maggiori e quindi sarò presumibilmente spinto a elaborare temi astratti, anziché concentrarmi sull’arte figurativa: è più facile e, come abbiamo visto, più conveniente.

Ma per raggiungere un determinato “fattore K” io dovrò essere valutato da un critico o da una serie di critici. Come riuscirò a convincerli del mio valore? E qui si apre un altro importante capitolo: cosa viene considerato bello dalla critica (che è quella che determinerà il metro di giudizio nei miei confronti)?

Dal “nuovo e bello” al “nuovo = bello” o “bello = nuovo”

Facciamo un passo indietro ed un salto nella letteratura. Perché il drammaturgo Enrico Annibale Butti (1868-1912), a suo tempo celebre come Gabriele d’Annunzio, è ai nostri giorni completamente dimenticato (nonché eclissato dallo scrittore pescarese)?

Perché ricordiamo Ariosto e non teniamo in grande considerazione Boiardo? Perché celebriamo Torquato Tasso e citiamo Bernardo Tasso solo in quanto genitore dell’autore della Gerusalemme liberata?

Sostanzialmente ci dobbiamo chiedere: perché questi autori – Dante, Petrarca. Boccaccio, Ariosto, Tasso, e poi, saltando all’800, Manzoni, Leopardi e quindi Pirandello e d’Annunzio (magari quest’ultimo con qualche problema, da un verso a causa delle sue posizioni politiche, dall’altro per la sua “movimentata” vita sentimentale) – sono considerati “maestri” e gli altri minori? A causa dello stile? Certo, ma non solamente. A causa del contenuto? Anche, ma non solo.

Prendiamo il caso di Carlo Alianello (1901-1981), definito da un critico come uno scrittore che «sta a metà strada tra Manzoni e Balzac». Allora io mi domando: perché Alianello viene considerato da tutti un minore, se lo si paragona addirittura al massimo scrittore italiano dell’800 ed a uno dei mostri sacri (se non vogliamo considerare anche lui addirittura il vertice) della letteratura francese? Dove sta “l’inghippo” (per citare appunto il titolo dell’ultimo lavoro dello scrittore di origine lucane)?

La risposta è intuitiva: perché Carlo Alianello scrisse i suoi capolavori – L’alfiere, L’eredità della priora, Soldati del Re e L’inghippo, solo per citare la sua produzione cosiddetta “borbonica” – nel Novecento, non nell’Ottocento. Scrisse cioè con uno stile di altissimo livello, ma che era “nuovo” cento anni prima e che, nel momento in cui pubblicava i suoi romanzi, era già irrimediabilmente sorpassato.

Viceversa, ai suoi tempi veniva esaltata la pornografia (permettetemi di definirla così) di Moravia e la coprolalia di Pasolini (mi riferisco in particolare alla sua opera narrativa). Cosa c’era di artistico nella descrizione delle intimità di coppia oppure in quella della vita quotidiana del sottoproletariato urbano? In che cosa potevano risultare più interessanti rispetto alle vicende di giovani ufficiali borbonici pronti ad immolarsi per la difesa del Regno delle Due Sicilie o di anziani sacerdoti papalini che cercano – una volta definitivamente caduto il trono secolare di Pietro – di cercare una riconciliazione tra Leone XIII ed Umberto I?

Qualcuno di voi ha già trovato la risposta: di fronte alla differenza di bellezza tra la profondità di introspezione psicologica e la minuziosa descrizione di imprese erotiche oppure a quella esistente tra le trame religiose e politiche contrapposte alle vicende di una banda di borgatari criminali, tra il seguire gli amori innocenti e le conseguenti delusioni dell’ufficialetto borbonico Pino Lancia o la seduzione omosessuale al centro del romanzo Il ponte della Ghisolfa (1958) di Giovanni Testori (a cui si ispirò due anni dopo Luchino Visconti per il suo Rocco e i suoi fratelli) il valore aggiunto dei vari Moravia, Pasolini e Testori è solo e soltanto uno: la novità.

La novità diviene dunque l’unico metro di giudizio del bello. Non più solo un metro, bensì il metro di giudizio per eccellenza.

La novità può riguardare il livello contenutistico, come il livello formale: ad esempio la novità di degradare la lingua italiana scritta dall’aulicità del “fiorentino delle persone colte” proposto da Manzoni (Alessandro) per il suo capolavoro all’impasto di italiano e vernacolo utilizzato da un altro scrittore milanese, Carlo Emilio Gadda, nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), che fin dal titolo denuncia il desiderio di creare un nuovo linguaggio, che diverrà poi il sostrato linguistico comune presente nei romanzi di Pasolini (Ragazzi di vita, 1955; Una vita violenta, 1959) e passerà quindi nel mondo della celluloide (attualmente in Italia non è praticamente prodotto alcun film che non abbia un buon numero di personaggi che si esprimono, anziché in lingua, in dialetto, un tempo usato solo per caratterizzare i personaggi appartenenti agli strati meno colti della popolazione), tale novità sta alla base del valore attribuita ad un’opera incompiuta come il Pasticciaccio.

Allora, riprendendo il discorso su Alianello – ma lo scrittore lucano è solo un esempio tra i tanti che potrei fare: perché un autore che da un lato è stato posto sullo stesso piano dei due massimi scrittori ottocenteschi italiano e francese, dall’altro non è praticamente considerato dalla grande critica? Perché, appunto, è uno scrittore “ottocentesco” che però è vissuto – e ha scritto – nel Novecento. È in ritardo, insomma. O, più precisamente, non è un innovatore.

La letteratura di ogni tempo pullula di scrittori – o meglio, ampliando il discorso alle diverse arti – la cultura di ogni tempo pullula di autori etichettati, anzi, bollati, come “minori” o, peggio, come “epigoni”.

Già, perché se il concetto di minore può riguardare un effettivo giudizio qualitativo (noi non possiamo certo mettere sullo stesso piano la profondità poetica, teologica e filosofica di un Dante con le rime – pur eleganti – di un Guido Guinizzelli o di un Guido Cavalcanti, né la potenza espressiva dell’Ariosto o del Tasso con la poesia ben più piatta di Boiardo o di Pulci) l’etichetta di “epigono” indica solamente che non siamo di fronte ad un caposcuola.

Un tempo, per eccellere, bisognava produrre qualcosa di nuovo e di bello. Adesso – in una società che ha di fatto abiurato il concetto di bello – bisogna produrre soltanto qualcosa di nuovo. Ben venga dunque la pornografia (purché sia la prima volta in letteratura), la coprolalia, le bestemmie, le scatole di sterco di Pietro Manzoni o i suoi pacchi di carta da 120 mila euro (o le scatole di zuppa immortalate – e rese ben più costose del loro contenuto – da Andy Warhol) e, da ultimo (purtroppo solo per il momento), gli stracci… venerei.

Perché dare più valore all’idea di nuovo, piuttosto che all’idea di bello? Perché, purtroppo, si è perso il più elementare senso estetico. È un dato di fatto: tutti consideriamo Caravaggio come un genio. La sua tecnica nell’uso della luce rende meravigliose le sue tele. Eppure, se oggi qualche pittore disegnasse come Caravaggio – trovarne, di pittori capaci di dipingere come Caravaggio! – verrebbe considerato un mero “imitatore”, privo di qualsiasi talento. Meglio prendere un rasoio e deturpare una tela – una idea davvero innovativa, almeno fino a qualche decennio fa! – oppure inscatolare le proprie feci… ma dipingere una Madonna del pellegrino… che spreco di tempo, sarebbe! Che dimostrazione di mancanza di talento! E poi, immaginate un’opera come le Sette opere di misericordia, l’opera più pagata della storia del barocco. Vi siete chiesti quanto varrebbero adesso non dico l’originale, ma un lavoro delle stesse dimensioni? Facciamo due calcoli: siamo di fronte a quasi quattro metri per oltre due e mezzo: 3.900 + 2.600 = 6.500 millimetri. Se avessi un fattore K1, l’artista ci guadagnerebbe 6.500 euro, l’equivalente di dipingere (o scarabocchiare) solo 13 pezzi di tela da 20 cm per 30 (praticamente 13 fogli da lettera). Davvero: sarebbero 500 millimetri di semiperimetro e quindi, a fattore K1, 500 euro a… foglio. Oppure, volendo faticare un po’ di più, sempre usando la stessa misura delle Sette opere di misericordia, si potrebbe dividerla in cento pezzi da 31×31 cm, da vedere che venderei a 620 euro l’uno, ricavando in totale 62.000 euro (a patto che il gallerista trovi cento gonzi…).

Questi sono calcoli terra terra, direte voi, ma sono calcoli matematici. E di fronte alla logica ferrea della matematica, quale artista o supposto tale cercherebbe di far rivivere – peraltro faticando moltissimo – l’emozione che a quasi mezzo millennio continua a trasmetterci Caravaggio, sapendo già in partenza che verrebbe considerato solo un volgare “copista”?

La poesia contemporanea

E chi, venendo alla poesia, vorrebbe sforzarsi a rispettare le rigide regole della metrica e della rima, quando sa che la critica sorriderà sprezzante di fronte al risultato, considerandolo un mero esercizio di stile e come sicura spia di una totale mancanza di vera ispirazione?

Nel 1902, con la poesia Dualismo il non più scapigliato poeta milanese Arrigo Boito apriva il suo Libro dei versi affermando la volontà – frustrata – di giungere ad un’arte superiore:

E sogno un’Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell’Ideale
che mi fa battere l’ale
e che seguir non so.

La poesia successiva – quella che, con una certa improprietà di linguaggio, definiamo contemporanea (ma contemporanea di chi? Di noi o dei lettori d’inizio Novecento? Riteniamo davvero di avere, noi “post-moderni”, “post-industriali”, “post-bellici” e, soprattutto, “post-bello”… la stessa sensibilità della Belle Époque?) – ha spezzato i “rudi vincoli del metro e della forma”, ma non sempre si è riempita di quell’ideale agognato da Arrigo Boito.

Dunque la poesia contemporanea, l’arte dei nostri giorni, cerca di rifuggire l’armonia, la bellezza, la simmetria, che sarebbero inequivocabilmente considerate come inutili e superflui elementi romantici, classicisti, arcadici… In una parola: passati. Anzi, peggio: passatisti.

Meglio tendere al nuovo: la parola d’ordine deve essere quella di colpire, scandalizzare, épater le bourgeois. Andare a capo quando non ce ne è bisogno, lasciare il concetto sospeso («è arte, non filosofia; emozione, non discorso logico») la poesia a questo punto «franca dai rudi vincoli | del metro e della forma» si distingue dalla prosa solo perché è più difficile comprenderne i concetti.

Ma non ci rendiamo conto che una pretesa forma d’arte che non parla più al cuore, alle emozioni, bensì solo al cervello, che deve essere spiegata per essere compresa (e non si tratta solo di comprendere alcuni vocaboli desueti, bensì l’intera struttura) non è vera arte?

Ho parlato di vocaboli desueti: se leggiamo Dante, se leggiamo Petrarca, Leopardi o semplicemente i tanto vituperati libretti d’opera ci troviamo di fronte a tòsco anziché veleno, amistà al posto di amicizia, avello per tomba, irco per caprone e via enumerando. Ma, superato lo scoglio delle singole parole, il significato ci è palese.

Invece, leggete un momento:

composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
– noi che riceviamo la qualità dai tempi
tu e tu mio spazioso corpo,
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti […]

Mi fermo qui. Si tratta dell’incipit di Laborintus, I di Edoardo Sanguineti, manifesto della neoavanguardia. Se si deve parlare di novità in letteratura, nessun dubbio che siamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Se si deve parlare di bellezza… forse è meglio riprendere le opere – che pure al liceo non ci avevano entusiasmato – di Carducci. Almeno lì, l’obbligo che il Poeta si era imposto di rispettare la metrica (sia pure, come la definiva, “barbara”) raggiungeva un risultato se non altro più intellegibile.

Ma se accettiamo l’identità tra nuovo e bello, allora Laborintus è indubbiamente un capolavoro. Attenzione: anche le Odi barbare rappresentavano a loro modo, una novità; ma, assieme alla proposta innovativa di una poesia in volgare che imitasse la metrica greca – certamente una novità per il mondo post-classico – c’era anche la bellezza oggettiva di almeno qualcuno tra i molti (troppi?) versi del poeta versiliano.

Con Sanguineti c’è sicuramente novità. Ma forse solo quella, irrimediabilmente staccata dalla bellezza.

Liberarsi della rima (lo aveva già fatto Leopardi con il verso sciolto) e della metrica (il verso libro della generazione ermetica) è stata una tappa raggiunta non senza fatica. Ma la sintesi che Ungaretti, Quasimodo e Montale raggiunsero con l’esaltazione della musicalità del verso – ahiloro, di derivazione niente meno che dannunziana! – manteneva una comprensibilità del testo che, nel secondo dopoguerra, si è andata via via perdendo (e lo dimostra chiaramente la difficoltà di avvicinare le opere della neoavanguardia, come il citato Laborintus di Edoardo Sanguineti).

Conclusione

Insomma, la sostituzione del concetto di bello con quello di nuovo ha obnubilato le menti di critici e di fruitori dell’arte: una imbarazzante montagna di sale o di stracci che deturpa una piazza storica di Napoli è esaltata come capolavoro di bellezza, da difendere ad ogni costo: siamo (presumibilmente) al termine dell’epoca della società liquida (e infatti c’è già chi avanza anche il concetto di società gassosa) e non deve stupire che la bruttezza e la volgarità imperino: basta passeggiare per venire offesi (posto che non si sia assuefatti) dalla vista di scritte (anzi, murales) che imbrattano i muri e di tatuaggi e piercing che deturpano i corpi; intendiamoci, scritte e tatuaggi sono sempre esistiti, ma fino a poco tempo fa erano considerati come una degenerazione riservata ad ambiti delinquenziali, a sottoculture tribali, se non criminali: nessuno avrebbe mai pensato, solo pochi decenni fa, di considerarli opere d’arte.

E soprattutto, ripeto, fino a pochi decenni fa, proporre una novità era un elemento necessario, ma non sufficiente per realizzare un’opera d’arte. Per essere tale, essa doveva essere anche bella. Ma i decenni sono passati, il gusto è decaduto (anzi, crollato) e l’assuefazione fa sì che si plauda a un cumulo di stracci che, anziché nell’immondezzaio, viene scaricato di fronte al municipio. A Napoli, peraltro, potrebbe divenire una trasparente metafora della politica (locale e non), ma questa è un’altra questione…

Gianandrea de Antonellis

-riflessioni per la venere degli stracci-

1 Comment

  1. E’ stato individuato il problema dell’essenza dell’arte. L’arte è creazione. Cioè consiste nel realizzare qualcosa che prima non c’era. Questa affermazione, come riporti, è illustrata in ogni modo egregiamente dallo scrittore professore De Antonellis. In effetti, è quello che diceva, poetando, Giambattista Marino :nel diciassettesimo secolo “E’ del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir vada alla striglia” Anche oggi quelli che vogliono essere artisti cercano quello che è nuovo. Però non fanno differenza tra ciò che è eccellente e giù che è goffo. La conseguenza è che spesso realizzano delle goffaggini.
    Adriana Dragoni

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.