L’invasione e la cacciata dei francesi dall’Abruzzo nel 1799
“Agliu sòne de la grancasse viva viva ju popolo basse… Agliu sòne de ji viulini sempre morte ai Giacubbini.”Ancora dopo un secolo, questa era una canzone proibita. La cantava ogni tanto, battendo il martello sulla suola, il calzolaio Serafino, che aveva bottega in un pianterreno vicino a casa mia; e pareva che le parole, dette quasi a bocca chiusa, fossero lo stesso ronzio del martello che, a colpi ritmici, ispessiva e induriva la suola per le scarpe dei contadini.
La canzone alludeva a un fatto remoto, di cui nemmeno gli anziani si ricordavano; ma qualcuno, più vecchio, diceva che si riferiva ai francesi, che erano venuti nel Regno, ai tempi di Maria Carolina e di re Ferdinando. Siamo nell’autunno del 1798; re Ferdinando IV, fosse o no stimolato dalla regina Carolina, s’era alfine deciso a fare una spedizione contro la Repubblica romana; ma come aveva sentenziato la vox populi – vox Dei di Roma, l’eterno Pasquino:<<Ferdinando venne, vide e fuggì>>. Fuggì lui; fuggì il suo maresciallo Micheroux, per quanto potesse disporre di 10 mila uomini contro 1600 francesi; fuggì a Velletri il Mack,che, come disse l’abate Bonelli, incaricato di affari per il re di Sardegna nella corte di Napoli,aveva mostrato <<grande avversione a battersi e maggiore vocazione a fuggire >>; l’altro comandante poi, il Metsch, veniva addirittura accusato di tradimento. Sicché i francesi imbaldanziti, dopo aver vinte le accanite resistenze delle popolazioni della Sabina, e aver piegata Viterbo che s’era difesa disperatamente attorno ai vessilli sui quali era dipinta l’immagine di Santa Rosa, come nel Circeo quella della Madonna della Vittoria, eccoli ai confini degli Abruzzi. Li avevano naturalmente preceduti le terribili notizie delle repressioni, delle persecuzioni, e delle ruberie compiute dappertutto nelle città, e nei paesi e campagne di là dal confine borbonico, e quando tali notizie giunsero ai primi di dicembre all’Aquila, il governatore, il vescovo e il tesoriere della città imitarono subito il re, chiesero aiuto alle proprie gambe. Gli invasori intanto scendevano da Rieti, per Cittaducale, e s’avvicinavano; qualcuno andò a suonar le campane, come all’approssimarsi d’una tempesta, e la popolazione si riunì nella piazza principale, di fronte alla chiesa del protettorato, San Massimo. E nella chiesa tre nobili aquilani: il patrizio Giovanni Pica, il marchese Giovanni de Torres e il barone Francesco Rivera, convocarono come ai tempi dei comuni, il parlamento. Fu subito deciso di formare una << massa >>, e acclamato a comandarla Gaspare Antoniani. Anche nei paesi vicini si formarono immediatamente altre << masse >>; ma allo scopo di coordinare la difesa, dare unità al comando e assicurare i viveri e le paghe, fu convocato qualche giorno dopo un nuovo parlamento di tutte le masse a Pizzoli, una borgata a pochi chilometri dall’Aquila, sulla strada di Cittaducale. I capi delle diverse masse diedero il comando supremo al capomassa di Arischia, Giovanni Salomone; e possidenti e popolo si trovarono concordi nel formare un fondo per le spese, fornendo anche delle derrate chi non poteva dar denaro. Le truppe francesi erano comandate, come è noto, dal generale Championnet; e puntavano suddivise in quattro divisioni, su Napoli per due vie; attraverso l’Abruzzo e attraverso Terra di Lavoro. Per l’Abruzzo si diresse l’ala destra dell’esercito, costituito da due divisioni: la divisione Duhesme e la divisione Lemoine. Fu questa che da Rieti scendeva verso l’Aquila, mentre l’altra da Ascoli Piceno avrebbe dovuto attraversare il Teramano, e ricongiungersi con la prima a Sulmona. Il primo scontro tra massa aquilana e i soldati del Lemoine avvenne a Borghetto, vicino a Borgo Velino; era il 9 di dicembre, e Salomone contenne l’avanzata passo a passo, fino ad Antrodoco, in attesa che giungessero dall’Aquila le milizie borboniche. Ma i soldati di Ferdinando somigliavano un pò a lui e ai suoi marescialli; anzitutto arrivarono con ritardo, e quando poi, dopo cinque giorni di guerriglia sostenuta dalle masse, si trovarono di fronte al nemico, se non scapparono poco ci mancò; e lo stesso ministro Acton, scrivendo al marchese De Torres, deplorò << la codardia di taluni corpi di linea >>. Antrodoco, dove si svolse questo scontro decisivo, fu dovuta abbandonare; e lo sforzo di Salomone fu reso vano dalla fretta che il comandante di quelle milizie aveva di tornare a imbucarsi nel castello dell’Aquila. Il 16 dicembre i francesi giungevano sotto le mura della città. Mandarono un parlamentare a intimare la resa; ma prima che la porta si aprisse per far passare l’inviato del Lemoine, trascorsero cinque ore. Fu per dar tempo ai soldati e alla popolazione di preparar le difese? Fu per dare uno schiaffo al baldanzoso invasore? Fatto sta che il generale francese se la legò al dito; e andò su tutte le furie quando il parlamentario tornò con la notizia che la città non si arrendeva. Era sull’imbrunire, e cominciò a tuonare il cannone. Gli aquilani sparavano dalle finestre e dai tetti e dovunque si potesse da un riparo sicuro ficcare la canna d’un fucile. Di strada in strada, di casa in casa la mischia durò tutta la notte e la mattina seguente. Ma i soldati borbonici erano scomparsi; cioè non s’erano mai visti uscire dal castello che domina la città. Dov’erano, e dov’era il loro comandante, Pluncket? Nel castello, inerti, a far da spettatori. Se lo ricorderà l’anno dopo il popolo aquilano: appena le masse, nel maggio del 1799 liberarono l’Aquila, uno dei primi fucilati fu proprio il comandante Pluncket. Tuttavia occupata l’Aquila , non fu tanto facile al Lemoine continuare la marcia verso Popoli per raggiungere Sulmona. Le masse, per quanto disperse, davano sempre del filo da torcere. Dovunque era possibile, opponevano una resistenza accanita, sebbene non più fortunata di quella di Aquila. Ma anche Popoli, come a Sulmona qualche giorno dopo, i due generali borbonici Tschoudi e De Gambs imitano, più o meno, il comandante Pluncket; come già avevano fatto i generali Micheroux, Mack e Metsch. Pasquino non aveva dunque soltanto ragione per re Ferdinando. Il Thibault, cronista francese di questa guerriglia nei paesi d’Abruzzo, chiama << briganti >> i popolani e i capi delle masse; ma erano dei << briganti >> che sapevano curare i feriti francesi, e rispettavano sempre i prigionieri. Lo stesso non si può dire dei soldati di Lemoine e di Duhesme che saccheggiavano e massacravano dovunque trovavano un ostacolo; e anche quando non lo trovavano, si sfogavano contro le campane delle chiese, che avevano suonato l’allarme al loro avvicinarsi. Beninteso, dopo aver fucilati i campanari. Fu allora che, come ai tempi di Annibale, i montanari d’Abruzzo, non potendo più suonare le campane che erano state spezzate, ricorsero alla torta buccina dei Sanniti i grossi corni da pastore, che ripetevano per quelle stesse valli, come osservò il Rodolico, il grido contro lo straniero. E lo poté riconoscere lo stesso Championnet, in una lettera al direttorio datata dal << quartier général de Naples le 5 pluviose an VII >> ( il 24 gennaio 1799 ) : << jamais combat ne fut plus opiniâtre; jamais tableau ne fut plus affreux. Les Lazzaroni, ces hommes étonnants…. sont des héros >>. Si riferiva al popolo di Napoli, il generale; ma non credo nel suo giudizio potesse escludere la resistenza dei montanari d’Abruzzo. Questa resistenza legata alla storia della Repubblica Napoletana del 1799, ebbe il suo epilogo con la rivincita di pochi mesi dopo. L’Abruzzo era stato conquistato, ma soltanto per modo di dire; perché non solo la guerriglia delle masse non cessava, ma i soldati francesi si trovavano spesso bloccati. Nell’Abruzzo aquilano appunto – che è l’argomento della nostra narrazione – il capo delle masse , il generale Salomone, dominava quasi tutto il territorio della provincia.Andava di paese in paese a rincuorare i nuclei locali, a distribuire di nascosto armi, a rendere difficili i rifornimenti di cui i presidi francesi avevano bisogno. L’Aquila, dove i francesi s’erano insediati nel castello, si poteva dire bloccata dalle masse; i viveri cominciavano a scarseggiare, i francesi dovevano fare delle sortite, e non di rado si buscavano delle fucilate. Intanto, Salomone aveva fatto occupare i passi al confine romano, da Leonessa ad Accumoli; e il 15 gennaio, appena un mese dopo l’occupazione della città, le masse diedero l’assalto ad Aquila, ed entrarono. Ma i francesi ricorsero ancora al cannone, e fecero fuoco dal castello sulle vie. Ci fu un nuovo massacro; le masse furono costrette a ritornare sulle posizioni di partenza, i villaggi circostanti, da Arischia a Bazzano, da Rojo a Barete, da cui s’erano mosse. E i francesi si vendicarono fucilando i prigionieri ch’erano caduti il giorno prima nelle loro mani. Fu un atto di brutale vendetta; che servirà però a rinfocolare l’odio delle masse. Passò così il febbraio; e nonostante lo scacco subito, dovuto in parte a deficienza di coordinazione nel comando delle squadre in cui le masse erano suddivise, il generale Salomone non si perdette d’animo.
Il primo di marzo convocò un nuovo << parlamento >> nella chiesa della Madonna di Rojo, un colle ad occidente della città, oltre l’Aterno; e settanta caporali di squadre giurarono di ubbidire ai suoi ordini. La notte del giorno dopo le masse sferrarono l’assalto; le difese francesi che erano state poste alle porte furono prese di sorpresa; in alcuni punti, verso porta Romana e porta Bazzano, i più audaci scavalcarono le mura, e la mattina seguente la città era di nuovo nelle mani di Salomone. Come al solito, i francesi si chiusero nel castello. L’assedio durò venti giorni e sarebbe finito con la resa dei francesi che mancavano dei viveri, se una colonna di soldati mandati da Rieti di rinforzo non fossero riusciti a travolgere la squadra che teneva il passo di Antrodoco. Quasi all’improvviso la colonna piombò sulla città, e le masse accorse a parare questo nuovo pericolo, nella confusione del momento e data anche la scarsità di combattenti, dovettero abbandonare l’assedio al castello, consentendo ai francesi d’uscirne. Prese tra due fuochi esse si difesero con estrema disperazione, ma furono sopraffatte. Era il sabato santo; e il giorno di Pasqua i francesi si abbandonarono al massacro e al sacco. Andarono nella chiesa di San Bernardino, dove cittadini e frati s’erano asserragliati. Sfondarono le porte; trucidarono ventisette frati, due canonici, e buon numero di cittadini. Sul corso, che divide la città da porta Napoli a porta Castello, giacevano, secondo un testimone dei fatti, parecchi cadaveri, e << non vi era chi si fidasse di toglierli e portarli alla chiesa per seppellirli >>. La chiesa era piena di sangue; e i francesi, dopo il massacro, tolsero dall’altare il deposito dove giaceva la spoglia del santo, la ruppero per toglierne l’argento che vi stava dentro, e fecero man bassa sulle pissidi, i calici e gli ostensori di quella e delle altre chiese. Il sacco durò due giorni, e costò alla città centomila ducati. Il martedì dopo Pasqua,lasciato un forte presidio in città, i francesi partirono alla volta di Rieti. Ma San Bernardino, come dissero gli aquilani, si vendicò presto. E fu doppia vendetta. La prima, immediata, perché i trecento soldati che il martedì lasciarono l’Aquila, con il bottino delle chiese, le taglie raccolte, i cannoni e i cavalli che avevano portati, furono assaliti dalle masse scampate e riordinatesi in fretta e furia agli ordini di Salomone. Attesero i francesi al passo di Borghetto, e a un segno convenuto gli piombarono addosso. Dei trecento soldati , se ne salvarono ottanta; i due comandanti, uno dei quali aveva sfogata la propria ferocia sui frati di San Bernardino uccidendone cinque, ci rimise la pelle; e del ricco bottino non restò loro in mano nulla. A questa prima vendetta San Bernardino ne fece seguire qualche mese dopo una seconda, e fu la definitiva. Occupando la città e i borghi principali d’Abruzzo, i francesi avevano istituite delle milizie, appoggiandosi qua e là ai << galantuomini >>, di cui avevano assicurati gli averi; ma il popolo mordeva il freno. Ogni tanto una schioppettata mandava un francese all’altro mondo; e tener l’ordine era difficile. Anche per questo il generale Lemoine diede l’ordine di concentrare tutte le forze francesi sparse negli Abruzzi nella città dell’Aquila; erano circa 3500 uomini. Soltanto nelle fortezze e nelle città principali restavano dei presidi; la campagna era tornata tutta in potere delle masse e quindi dei popolani. Salomone intanto vegliava, e il 2 maggio, quando quella colonna di 3500 uomini partì dall’Aquila per risalire verso Rieti, concentrò le masse nei dintorni di Antrodoco. I francesi vi erano passati baldanzosi il dicembre dell’anno prima; ora dovevano ripassarvi. Il 2 maggio era il giorno dell’Ascensione. La mattina, alle 10, la lunga colonna francese lasciava la città. La marcia, lenta e taciturna, s’avvia lungo la strada romana. E qui lasciamo la parola allo stesso generale Salomone, l’infaticabile capo delle masse. << Le masse… si trattengono appiattate nei loro posti fino a che il nemico non sia tutto ingolfato nella gola di Rocca di Corno, luogo per lui svantaggiosissimo. Allora, secondo il piano prefisso, ferma rimanendo la nostra colonna del centro, gli corre celermente alle spalle quella della sinistra con una marcia segreta, nel mentreché eseguono altrettanto le altre due colonne di qua e di là della strada romana, le quali avevano ordine di coglierlo alle spalle . Appena si sentono attaccati, i francesi raddoppiano la marcia rivolgendosi di tanto in tanto per delle improvvise scariche contro le masse. Ma giunti alla Madonna delle Grotte, due miglia lontano da Antrodoco, trovano ivi la prima lor sepoltura. Quattrocento coraggiosi Antrodocani pervenuti a tempo si erano imboscati in quel vado. Posti in mezzo a quattro fuochi si costernano, si avviliscono, alzano le mani chiamandosi prigionieri, vogliono fuggire, ma non trovano come scampare la morte. Siccome il tempo era dirottatamente piovoso ed i fucili non facevano più fuoco, i paesani stringono, si confondono coi francesi e finiscono per sopraffarli colle armi bianche, con i calci dei fucili, con i pugni; 500 ne rimangono estinti in quella mischia. Il grosso della colonna abbandonato l’intero carriaggio, e quasi tutti i cavalli, si precipita giù per la valle e prende Antrodoco. I paesani che sempre più crescono di numero, e che resi i fucili pressoché inservibili dalla pioggia, acquistano sopra i nemici tanto vantaggio, quanto ne hanno uomini robusti ed avvezzi al travaglio sopra macchine logore dal lusso e dalla mollezza, gl’inseguono e gli fanno in meno di un’ora evacuare Antrodoco. Di là sono allo stesso modo, e da tutte le parti investiti, e trucidati fino a Borghetto, le cui masse unite a quelle di Antrodoco e dei paesi vicini, quasi compassionando i nostri paesani, impegnati per 12 ore a perseguitare i francesi sottentrano esse con nuove forze nel combattimento, dànno l’ultima rotta al nemico, gli fanno lasciare i rimanenti cavalli; e di quegli stessi 3500 francesi che la mattina avevano lasciato l’Aquila tutti carichi di bottino e contenti di aver predato quanto colla loro fierezza, avarizia ed inganno avevan potuto, soli 1000 ne giunsero al confine spogliati, feriti, disarmati, abbattuti, e maledicendo l’ora della loro venuta nel regno >>. E’ la relazione che il generale mandava il 29 luglio 1799 al re Ferdinando, che non meritava certamente tanta fedeltà. La massa poplare s’impossessò subito del fatto. E lo cantò in dialetto aquilano:
Quanno fu alla ‘Mpretatora
Oh! che passu! alla malora!
Quanno fùruru a Viglianu,
se ne ìano pianu pianu.
Quanno fu alla Colonnella,
li pigliò la trimarella.
Quanno fu a Rocca ‘e Cornu,
circondati ‘ntornu ‘ntornu.
Quanno furono alle Rutti,
gli annu fatti quasci tutti.
Quanno furono a ‘Ntreocu
‘gni montagna facea focu.
Quanno furo a lu Borghittu
li buttèano l’ogghiu frittu!
– Giovanni Titta Rosa –
fonte
sito comune di Antrodoco