L’unità d’Italia e i barbari calati a Parma di Angela Pellicciari
A Parma, il dittatore dell’Emilia Carlo Farini depreda Palazzo d’Este e fa linciare un ufficiale.
Sulla scia della guerra contro l’Austria i Savoia annettono, uno dopo l’altro – grazie a congiure preparate da tempo -, tutti gli staterelli dell’Italia centrale. La versione sabauda sostiene che questi territori, liberati dai loro tirannici signori, godono finalmente di meritata pace e prosperità.
Una corrispondenza da Parma comparsa sulla Civiltà Cattolica nell’ottobre del 1859 permette di capire quanto poco idilliaca fosse in realtà la situazione creatasi dopo l’invasione piemontese. La rivista dei gesuiti parla di un evento barbaro accaduto a Parma il 5 ottobre, riportato sulla Gazzetta di Parma: “Ieri sera il popolo si lasciò fatalmente dominare da un trasporto infrenabile di odio, di sospetto e di vendetta che lo trascinò suo malgrado a commettere un fatto che la penna rifugge dal narrare”.L’azione commessa “suo malgrado” dal popolo è l’uccisione di Luigi Anviti, colonnello della duchessa Luisa Maria di Borbone. Tornato in città dopo “alquanti mesi di misteriosa assenza”, riconosciuto, Anviti in “pochi momenti” è ridotto a cadavere. La Civiltà Cattolica offre un resoconto meno reticente dell’accaduto ricorrendo al Cattolico di Genova del 7 ottobre. Avvalendosi della corrispondenza di un parmigiano, il giornale scrive che il colonnello Anviti è riconosciuto sul treno che da Bologna porta a Parma.
Appena sceso dal treno è arrestato e condotto alla caserma dei carabinieri; da qui è prelevato da un gruppo di persone inferocite; fra botte e coltellate è trasportato al Caffè degli Svizzeri che è solito frequentare: “Là giunti, l’infelice, che non era per anco del tutto spento, fu collocato sopra d’un tavolo, e a colpi di spada gli fu tagliata la testa”. Non basta: “Alla testa insanguinata si è voluto far trangugiare una tazza di caffè, le si è posto un sigaro in bocca, ed in questo modo fu portata sulla colonna che sorge in uno dei quadrati della nostra piazza rande. Una torcia da vento le fu collocata dinanzi, onde fosse meglio veduta, e il popolaccio divertendosi, faceva suonare da suonatori ambulanti, accompagnando egli stesso con la voce, inni patriottici!”.
A questo punto la Civiltà Cattolica riporta una breve rassegna stampa dell’accaduto: la Gazzetta di Parma indirizza l’indignazione della pubblica opinione più sulla vittima che sui carnefici mentre la Gazzetta di Modena sostiene che a fare a pezzi Anviti “furono austriaci mandati colà apposta”. La stampa estera liberale è meno comprensiva di quella nazionale: il Journal des Débats del 12 ottobre si domanda: “Com’è mai accaduto che il cadavere e il capo del colonnello Anviti siano stati strascinati per quattro ore per le vie della città prima che l’Autorità si sia commossa?” e il corrispondente del Times scrive da Bologna il 15 ottobre: “Sono partito da Parma questa mattina, non volendo più essere testimone dello spettacolo lagrimevole che presenta quella città”.
Chi paga per il misfatto commesso contro Anviti? La geniale idea del Municipio è che paghi la colonna: la Gazzetta di Parma del 22 ottobre pubblica il decreto che decide l’abbattimento del famigerato oggetto, ritenendo così di aver “tolta e cancellata ogni traccia che ricordi al cittadino come questa diletta terra fu contaminata dal delitto”.
Grazie al Memoriale del capo della polizia politica Filippo Curletti, prezioso collaboratore di Cavour, siamo in grado di aggiungere qualche tassello mancante al caso Anviti. Curletti racconta che Luigi Carlo Farini – nominato da Vittorio Emanuele dittatore dell’Emilia – appena saputo dell’arresto di Anviti ordina di precipitarsi a Parma. “Che bisogna fare? Volete che ve lo conduca?”, chiede l’ispettore. “Eh! No – è la risposta – non sapremmo che farne! Egli è un uomo pericoloso”. Farini soggiunge: “Noi non possiamo toccarlo, senza che sorgano clamori. Sarebbe mestieri che la popolazione si addossasse l’affare. Voi mi avete compreso. Io partii – scrive Curletti – e si sa quel che avvenne”.
L’operato di Farini in Emilia è così descritto dall’influente liberale marchese Gioacchino Napoleone Pepoli su l’Eco dell’Emilia: “Farini fu sollecito a scarcerare dal forte Castelfranco circa un migliaio di precauzionali, che invecchiati nel vizio ed organizzati fra loro al delitto davano poca anzi niuna speranza di essersi emendati”. Con le informazioni di cui disponiamo grazie a Curletti possiamo capire quali ragioni inducano Farini a scarcerare delinquenti comuni.
Un ultimo particolare sull’operato del futuro presidente del Consiglio a Modena: impossessatosi di tutte le chiavi del castello ritiene superfluo fare l’inventario dei beni e palazzo d’Este è sottoposto ad un vero e proprio saccheggio. L’argenteria, fatta fondere, è trasformata in lingotti e persino gli abiti della Duchessa sono adattati alle misure della signora Farini e figlia. Il compito di Curletti? Raccontare alla stampa che il Duca, fuggendo, ha “menato seco tutta l’argenteria e tutti gli oggetti di qualche valore, lasciando vuote financo le cantine”.
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