Prova Pelosini di Gianandrea de Antonellis
La Rivoluzione spesso non è – nella sua interezza – violentemente sanguinaria. Lo è in alcune sue espressioni, ma, affinché risulti vincente, di solito cerca di raggiungere il proprio scopo attraverso una serie di piccoli atti, eventualmente supportati da qualche grande evento (magari violento e sanguinario).
Prendiamo il caso della Rivoluzione italiana, comunemente conosciuta come Risorgimento: nella sua fase finale l’atto violento (l’invasione della Sicilia da parte dei volontari garibaldini e la conseguente discesa dell’esercito piemontese – ufficialmente per soccorrere gli Stati assaliti) era stato preceduto, fu accompagnato e venne seguito da una serie di azioni, di prese di posizione culturali, di mode, di battage propagandistico, di leggi che aveva contribuito a cambiare la mentalità della popolazione e che permise di giudicare quella che era a tutti gli effetti una guerra di aggressione come una lotta popolare di liberazione.
E qui sta la grandezza di Maestro Domenico: assuefatti al veleno rivoluzionario, nel 1860 e dintorni molti Italiani hanno creduto in buona fede che la soluzione migliore, per gli Stati preunitari, fosse quella di fondersi; quindi che tale processo avvenisse non per via federativa, ma attraverso un’annessione (confortevolmente chiamata “liberazione”) al Piemonte; infine di accettare le leggi del nuovo Stato egemone, di applicarne la mentalità; di adattarsi al fatto che una voce dissenziente – come quella della Chiesa – fosse messa a tacere, ovviamente per il bene comune. Hanno accettato una politica fatta sostanzialmente di passi relativamente “piccoli” (ma non per questo meno pericolosi) che, nel giro di alcuni decenni, hanno mutato completamente la società italiana senza che quasi se ne rendessero conto.
Ciò non capita al buon maestro Domenico il quale, grazie al ventennale salto dovuto al sonno, non subisce quella lenta metamorfosi dei costumi che aveva reso indifferenti i più, ma nota immediatamente la profonda, abissale differenza tra il “mondo di ieri” e il “meraviglioso mondo nuovo”. L’idea di un sonno soprannaturale è quindi la geniale trovata di Pelosini, che attraverso tale espediente può sottolineare quale salto qualitativo sia stato effettuato dalla Rivoluzione e quale distanza separi il protagonista dalla società che ritrova.
Il discorso che Pelosini compie sul Risorgimento può essere applicato al principio rivoluzionario in generale e quindi a tutte le sue espressioni concrete: dal crollo della Belle époque in seguito alla prima guerra mondiale (appunto quel “mondo di ieri” a cui faceva riferimento Stefan Zweig) alle modificazioni liturgiche (solo apparentemente formali, in realtà specchio di una nuova mentalità) seguite al Novus Ordo, dai mutamenti della moda della seconda metà del Novecento alle degenerazioni artistiche di quello stesso periodo, e via enumerando.
Evidentemente non si può invertire a tavolino il corso naturale della società: le utopie sono mere astrazioni, da Campanella a Fourier, dalla pantisocrazia al comunismo (il fatto che siano meri divertissement intellettualistici non significa che non ci siano stati concreti e sanguinari tentativi di realizzarli: la Storia ci può dire se ciò sia avvenuto raggiungendo o meno il risultato di una comune felicità, che è il fine principale di tali speculazioni).
Si può, invece, erodere lentamente le basi di una sana struttura sociale minandole poco alla volta, oggi con una legge favorevole all’aborto (pardon, sulla ivg, termine asettico che non scuote le coscienze – l’uso della lingua ha un’importanza fondamentale in questo processo), domani all’eutanasia; oggi alla libera circolazione della droga e all’equiparazione dei matrimoni omosessuali, domani all’antispecismo (applicazione alla specie dell’antirazzismo, deriva estrema dell’animalismo) e al matrimonio dei sacerdoti. Il tutto corroborato da una “coscienza” dell’ineluttabilità del progresso, della modernizzazione, dell’aggiornamento.
Se immaginassimo un nostro progenitore (di non molto tempo fa: basti pensare ad un nonno o a un bisnonno) fatto risvegliare in un moderno quartiere-alveare o comunque in una casa che – quali che siano state le sue condizioni economiche – non potrà non sembrargli minuscola; attorniato, anziché da camerieri o nipotini, da strani elettrodomestici di tutti i tipi; assordato dai rumori del traffico, delle radio e delle televisioni; assediato da notizie inimmaginabili (mediorientali musulmani che attaccano e fanno tremare gli Stati Uniti, le centrali nucleari sovietiche che avvelenano l’aria e l’insalata italiana, uomini che si travestono da donne, politici che dichiarano i propri innaturali gusti sessuali, invertiti che marciano vantandosi della propria devianza, nudi esibiti nei giornali, nei manifesti pubblicitari, nei film e negli spettacoli teatrali…). Probabilmente il bisnonno riterrebbe di stare assistendo ad un sogno, anzi, ad un incubo ed il suo stupore sarebbe ben maggiore di quello del maestro Domenico.
Noi, invece, suoi nipoti, riusciamo a vivere tutto questo con assoluta, incosciente naturalezza.
Pelosini! Chi era costui?
La storie della letteratura non riportano il suo nome. Come attenuante si potrebbe invocare il particolare di aver pubblicato a proprie spese, nel 1871 (e la data è significativa), questo Maestro Domenico, per di più sotto lo pseudonimo di Giovan Paolo d’Alfiano.
Ma anche il nom de plume e l’opera risultano ignoti: eppure, scorrendo le pagine di questo libro si intuisce subito che siamo davanti ad una autentica e piacevole scoperta sia dal punto di vista letterario che socio-politico. Ciò nonostante non è mai stato considerato dalla critica ufficiale: né ai tempi dell’Italietta liberale (figlia di quell’Unità amabilmente, ma duramente, sferzata dall’ironia di Pelosini), né durante il fascismo (che si definiva “Secondo Risorgimento”) e neppure nel sessantennio di regime democratico, sempre in ossequio al principio che la cultura (da aula e da salotto) preferisce seguire logiche di conformismo, temendo di spiacere alle autorità, con la conseguenza di escludere questo parente “povero” di Pinocchio dalle scelte didattiche ed editoriali, etichettando superficialmente questo testo come reazionario, codino, baciapile, controcorrente.
Torniamo alla domanda iniziale e stendiamo qualche riga biografica sul personaggio. Nato nel 1823 nella frazione di Fornacette (appartenente al comune di Calcinaia, in quel di Pisa) e scomparso a Pistoia nel 1896, Narciso Feliciano Pelosini divenne noto come avvocato e brillante oratore, docente di Diritto penale all’Università di Firenze ed Accademico della Crusca, fu deputato dal 1882 al 1890 e quindi venne senatore del Regno. Fortemente critico nei verso l’unificazione sabauda e sostenitore del “buon tempo antico” di leopoldina memoria, egli utilizzò la letteratura popolare proprio per rappresentare in termini semplici ed accessibili a tutti le disgrazie connesse al nuovo regime istituzionale in Toscana (come nel resto della Penisola).
Un volgare reazionario? No, piuttosto un acuto osservatore delle trasformazioni cui assisteva ed un “tradizionalista” ben radicato nel territorio che gli aveva dato i natali, come suggerisce un successivo saggio dedicato a Ricordi, tradizioni e leggende dei monti pisani. Personaggio dal vivace temperamento, grande amico di Giosué Carducci (anche se suo avversario politico alle elezioni del 1875 nel collegio elettorale di Pisa) e fiero nemico del nuovo governo di Roma (non potendo dimenticare l’”insulto” di Porta Pia), sul finire della vita cedette alla consolidata realtà politica accettando il laticlavio: e grazie ad esso ricevette – ironia della sorte – gli onori di un funerale di Stato.
E veniamo a Maestro Domenico, un curioso racconto nel quale si immagina che il protagonista dorma magicamente per un lungo periodo, addormentandosi (molto) prima del 1859 e svegliandosi nel 1870: la sua paradisiaca Toscana granducale è diventata una provincia del Grande Piemonte, che si fa chiamare Regno d’Italia e per lui, onesto falegname nonché, dato che sa leggere e scrivere, insegnante privato e all’occorrenza scrivano, inizia l’inferno.
Un inferno fatto di prezzi altissimi, di tasse decuplicate, di regole e di multe (e viene alla mente il protagonista de Il pezzente ’e san Gennaro, poesia “borbonica” di Salvatore Russo, pubblicata successivamente), ma soprattutto del disprezzo nei confronti di ciò che il buon Maestro Domenico ha di più caro: il senso religioso, trasformato in «una piccolezza… un pregiudizio dei tempi antichi». È un mondo in cui «non c’è più religione, né timor di Dio», in cui le congregazioni sono non tanto abolite, quanto addirittura decadute, perché «i giovani si vergognerebbero a venire al mattutino e alla buona morte».
Niente meglio dello stupore attonito di Maestro Domenico – che non ha vissuto il pur veloce evolversi degli eventi, ma subisce lo choc della immediata consapevolezza – per comprendere quale violento mutamento sia stato imposto alla società italiana con il Risorgimento. «Proprio come ai tempi dei Francesi?» chiede stupefatto il Nostro, memore dei racconti sull’invasione giacobina del 1799 e dintorni. «Anche peggio» gli viene risposto.
Il racconto Mastro Domenico costituisce dunque un interessante contributo letterario alla causa tradizionalista: esistono illustri esempi precedenti, dal saggio letterario I pifferi di montagna di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1768-1838) ai deliziosi Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1832 del conte Monaldo Leopardi (1776-1846), padre di Giacomo; mentre la generazione successiva annovera tra i principali scrittori l’abate Antonio Bresciani (1798-1862), gesuita che dalle pagine della Civiltà cattolica scriveva a puntate romanzi di impostazione tradizionalista e antimassonica e del drammaturgo (nonché storico) Giacinto de Sivo (1814-1867), autore tra l’altro dell’importante saggio I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, certamente noto a Pelosini, il quale riprende in chiave comica il concetto di una difficoltà (se non impossibilità) dell’unificazione italiana espresso nel cap. VIII del pamphlet:
Un Toscano non intenderà a udire un Napolitano, né questi un Genovese, né questi un Calabro, né questi un Lombardo, né questi un Veneziano. Ciò è perché nella formazione de’ dialetti, e nella fusione del romanesco col germanico linguaggio, ciascun popolo serbò le native forme di pronunzia e di vocaboli. Senza l’ingegno di Dante che unì le sparse membra del favellare nazionale, forse non avremmo lingua scritta universale in Italia.
Idea che prende corpo nella tragicomica scena in cui il malcapitato Mastro Domenico si trova sballottato tra carabinieri e giudici, ognuno dei quali parla un dialetto diverso, senza che l’esterrefatto Domenico riesca a raccapezzarsi…
È solo uno dei tanti esempi presenti nel romanzo per sottolineare come dietro la storia fantastica (Gianfranco de Turris ha ipotizzato una derivazione da Rip van Winkle di Washington Irving, ma Pelosini ha una carica politica ignota a quel testo – del 1819, ma non ancora tradotto in Italia e si chiede se Pelosini non abbia ispirati il Salgari de Le meraviglie del 2000) esista un sostanziale rifiuto dell’Unità italiana, almeno nei termini e nelle modalità con cui essa è stata realizzata. Pelosini con pochi tratti mette bene in evidenza il contrasto tra la semplicità dell’antico costume ed il consumismo dell’era unitaria, riuscendo a far intendere ai propri lettori il senso della caduta da un magnifico passato fatto di pratiche religiose, sano lavoro e culto della famiglia ad un presente che consiste in un caos organizzato, frutto di una rivoluzione in cui si intersecano furbizie e accaparramenti tra lussi e materialismi.
Così il racconto diventa messaggio e denuncia.
Narciso Feliciano Pelosini mette in guardia dai mali presenti (allora, ma non li ritroviamo ancor oggi?) che identifica nell’oppressione del potere, nella stoltezza della burocrazia, nella superficialità della stampa, nell’inettitudine della politica, nella volgarità dei costumi, nella diffamazione della religione. Ed i mali assumono fattezze precise. I carabinieri hanno le manette facili, il magistrato venuto da lontano non afferra alcunché della situazione locale, la guardia municipale persegue la gente per infrazioni da nulla, il gazzettiere pretende di aver capito tutto senza verificare nulla, i candidati all’elezioni blandiscono i votanti con regalie e promesse, il popolino spacca a sassate i vetri dei credenti senza capirne il perché e il percome, ufficiali e autorità fanno affari a spese dei beni ecclesiastici e perseguono carriere all’ombra della massoneria e la burocrazia cresce inesorabilmente ed inutilmente («Quel che si faceva prima bene con due impiegati, oggi si fa male con venti»). Non mancano spunti di sarcasmo come l’annotazione sul Caffè Cavour (lo statista era morto da poco) che – per contro – ci fa immaginare ai nostri tempi un ipotetico proliferare di Bar D’Alema o Salumerie Prodi.
Dall’attenta lettura del racconto emergono cento spunti similari e se uno dei valori del testo consiste proprio nel fatto che ci porta a riflettere sulle condizioni di vita sociale e politica della società a noi contemporanea, dall’altro, sul piano storico, rileviamo una volta di più come, a differenza di quanto usualmente divulgato, il nostro Risorgimento (alla pari di ogni altra trasformazione sociale, dalla Rivoluzione francese alla Resistenza) abbia costituito tutt’altro che un moto naturale di popolo.
Anzi, di fronte ad un’invasione militare sul proprio territorio – quale era stata nel 1796 quella dei soldati di Napoleone in varie regioni italiane e nel 1860 quella delle camicie rosse di Garibaldi e delle uniformi piemontesi nelle province meridionali – l’unico movimento spontaneo e popolare fu quello dell’Insorgenza antigiacobina prima e del brigantaggio antiunitario poi.
A chi pugnava con le baionette si affiancava chi combatteva con la penna. Ai nomi già ricordati (Il Principe di Canosa, il conte Monaldo Leopardi, il padre Antonio Bresciani, Giacinto de’ Sivo) possiamo aggiungere due figure assai diverse (ma la lista dei perseguitati potrebbe svilupparsi per diverse pagine): da un lato il leader radicale Felice Cavallotti (milanese, 1842-1898), la cui produzione letteraria, da I pezzenti ad Agnese, costituiva una ferma e costante denuncia delle incoerenze unitarie, fino alla sua morte in duello per mano del deputato conservatore Ferruccio Macola; dall’altro, il sacerdote giornalista don Davide Albertario (lombardo, 1846-1902), battagliero direttore del quotidiano L’Osservatore cattolico che scontò ben tre anni di detenzione soltanto per aver osato criticare l’intervento repressivo del generale Fiorenzo Bava-Beccaris nel 1898 a Milano.
Assai più fortunato degli scrittori appena citati (fors’anche per l’anonimato della sua pubblicazione) Pelosini eleva la propria protesta denunciando con rigore le carenze e i mali della società con l’intento di risanarne le membra; egli cerca di farlo con l’arma dell’ironia, con stile gioioso e allettante, senza astio, ma con fermezza: il suo protagonista non inclina ad alcun tipo di compromesso.
Per tali motivi, il Maestro Domenico del Pelosini si impone come testo originale e valido, degno di essere riletto con attenzione, soprattutto perché sottolinea eventi e mentalità presenti anche ai nostri giorni e spinge tutti noi ad una riflessione di profonda attualità: è accettabile piegare il capo di fronte all’attacco (statale e culturale) contro la Chiesa, all’arroganza delle autorità e dei poteri forti, all’ottusità di leggi e regole burocratiche, appiattendosi sulle posizioni di un generalizzato conformismo?
Gianandrea de Antonellis
Bibliografia letteraria
Oltre ad varie orazioni tribunalizie ed a scritti di natura giurisprudenziale, di Narciso Feliciano Pelosini si ricordano:
Poesie italiane, Siena 1853 (Pisa 1863)
A Lida Cerracchini (ode), Pisa 1859
Onus nobe (allegoria), A Roma moderna: due sonetti, 1861
La nuova Italia (carme), Pisa 1861
Sul feretro d’Elisabetta Deakin Palamidessi, Pisa 1861
Liriche, Pisa 1862
La festa di Galileo in Pisa (carme), Pisa 1864
Tre ricordanze, Pisa 1864
Maestro Domenico, Livorno 1871, (Sellerio, Palermo 1982; Edizioni Paoline, Milano 1987; Club Autori Indipendenti, Milano-Benevento 1998)
Ad Angelica Moro nella sera del di 23 marzo 1871 al Regio Teatro Nuovo di Pisa, Pisa 1871
Nella morte dei tre fanciulli Ferdinando, Lucrezia e Giovanni Orsini (ode), Pisa 1872
Ad Eugenia Papasogli nel giorno delle sue nozze con Agostino Remaggi, 1876
Augusta (ecloga), Livorno 1881
A Stopana Crastan nel giorno del suo sposalizio con reverenza pari all’affetto, 1881
Agli studenti dell’università di Pisa festeggianti la bandiera della liberta d’Italia innalzata da Vittorio Emanuele II, Firenze 1883
Scritti letterari, Firenze 1884
Il mio sogno (elegia per la musica di Ciro Pinsuti), Ricordi, Milano 1885
Ricordi tradizioni e leggende dei monti pisani, Pisa 1890 (Forni, Bologna 1970)
Echi dei monti (poesie), Pisa 1892
Sonetto a Giosue Carducci, s. d.