Quando Napolitano ascoltava il grido di dolore di Angela Pellicciari
Tengono banco le parole del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano sulla decisione di entrare in guerra contro la Libia. Decisione che l’ex esponente comunista ha addossato a Berlusconi provocando la vibrata reazione di molti esponenti del centro destra.
Ma come andarono le cose? E davvero Napolitano non c’entrò nulla in quella operazione che già allora si profilava essere un autogoal per i nostro Paese? C’è chi, in tempi non sospetti, l’aveva detto, commentando proprio le parole di Napolitano che parafrasò proprio “le grida di dolore” di ottocentesca memoria. E’ la studiosa di storia del Risorgimento Angela Pellicciari, corsivista della Nuova BQ, che in un articolo pubblicato su Il Tempo di Roma commentava proprio questo endorsement dell’allora inquilino del Quirinale sulla Libia. Lo ripropniano per i lettori della Bussola e per gli smemorati di oggi.
Hanno dell’incredibile gli accenti accorati con cui Napolitano ha rievocato le “grida di dolore” che si levavano verso i Savoia dall’Italia centro-meridionale. A detta di questa leggenda gli italiani “gemevano” invocando la liberazione che sicuramente sarebbe venuta dal nord sabaudo.
La liberazione è costata alla Sicilia reiterate dichiarazioni di stato di guerra e di legge marziale. Gli abitanti dell’Italia meridionale sono stati costretti all’emigrazione di massa dai governi liberatori che, invece della tanto sbandierata libertà, hanno portato corruzione, sopruso e miseria. Ha dell’incredibile, ripeto, che un Presidente della Repubblica che ha alle spalle una decennale militanza nel partito comunista che quelle grida, con Gramsci, irrideva, e che non si è ribellato alla carneficina del popolo cecoslovacco invaso dalla liberatrice armata sovietica, ha dell’incredibile, ripeto, che questo presidente, con questa tradizione alle spalle, si spenda tanto accoratamente per difendere le grida di dolore del popolo libico assediato a Bengasi. Perché finalmente gli stati si armino e vadano alla guerra contro Gheddafi. Contro quel Gheddafi che tutti, assolutamente tutti i governi della repubblica di ogni colore, hanno rincorso pur di garantirsi vantaggiosi accordi commerciali.
Ricordava Francesco Agnoli sul Foglio del 17 le parole pronunciate da Palmiro Togliatti nel corso del XVI congresso del PCUS: il migliore irrideva con disprezzo la propria ridicola e mandolinesca italianità per inneggiare alla gloriosa appartenenza all’universo sovietico staliniano. Dovevamo aspettare un governo a guida dell’ex (mai rinnegato) comunista D’Alema per fare la guerra alla Serbia senza dichiarazione di guerra in obbedienza al dictat americano. Adesso ci risiamo. Ma chi ci garantisce dell’autenticità delle grida di dolore? L’esperienza dovrebbe insegnarci che più la retorica insiste sulla moralità di un’azione di guerra più la faccenda è dubbia.
In particolare: ci si rende conto di cosa questa guerra significhi per l’Italia? E se, l’ho già scritto, questi insorti non fossero affatto da compiangere e sostenere? E se dietro una vernice di presentabilità avanzasse quel terrorismo islamico che Gheddafi ha negli ultimi tempi combattuto con estrema determinazione? A Bengasi, in particolare, reiterate sono state negli ultimi anni le azioni di guerra notturne di commandi islamici. Da noi poco se ne è saputo, ma questa è la dura e cruda realtà.
Quando è in gioco la vita di tante persone converrebbe usare davvero quella modestia e quella prudenza che pure Napolitano ha invocato. Converrebbe smetterla di far finta di niente per continuare a giocare alle anime belle.
Angela Pellicciari
pubblicato da
(da “La Nuova Bussola Quotidiana”)